Un assedio è un assedio è un assedio.
di Annalena Di Giovanni

Un assedio è un assedio è un assedio. Non ha tempo e non ha voce. E non è soltanto morire senza medicine al buio di una tenda, che un tempo era la tua casa, sperando che questa settimana aprano il confine per farti avere il tuo sacco di farina. Che poi è la misura della dignità a cui hanno ridotto la tua vita, le tue aspirazioni e i tuoi affetti.

Un assedio vuol dire anche 55 feriti e sette arresti. È stata questa l’accoglienza egiziana per il convoglio “Viva Palestina”: 198 veicoli e 580 volontari che con le migliori intenzioni erano partiti dall’Inghilterra oltre un mese fa, carichi di medicine, sedie a rotelle, libri scolastici, giocattoli e vestiti. Forse perché non basta ridurre un uomo a una vittima in attesa di aiuti: bisogna anche negarglieli, poi, gli aiuti. E così il convoglio arrivato in Egitto grazie solo all’intercessione turca, è stato attaccato ieri mentre aspettava il permesso di poter uscire dal porto. Da El Arish doveva coprire gli ultimi 40 km verso Gaza. I volontari si sono ritrovati in trappola tra le sassaiole dei locali e le cariche della polizia. Chiedevano solo di andare a Gaza. I feriti non hanno avuto neanche diritto ad andare in ospedale. In sette si sono ritrovati al posto di polizia, malmenati tutta la notte. Tutto questo mentre alla stampa straniera, anche a Terra, veniva impedito di raggiungerli per poter testimoniare quello che stava accadendo.

Un’assedio è restare a guardare, impotenti, mentre i fratelli arabi ti innalzano un muro di ferro davanti. Tanto per eliminare il problema, una volta per tutte. Un muro che spacca la terra e scende giù a decine di metri di profondità per tappare, uno dopo l’altro, tutti i tunnel clandestini dai quali passavano armi, ma anche libri, vestiti, medicine, sigarette, bestiame e tutto ciò che l’assedio ti toglie. Perché l’assedio ti riduce a una talpa, quando, per citare le parole di un ministro egiziano, Israele ti spinge a scappare sottoterra via da Gaza. E se contro blocco di Viva Palestina tiri sassi, come è successo ieri, allora l’assedio ti spara contro. Come hanno fatto i soldati egiziani contro i palestinesi, uccidendone due, con un tale impegno che persino una delle loro reclute è finita uccisa dal fuoco amico.

È passata una settimana dalla marcia dei 1.400 pacifisti arrivati da tutto il mondo in Egitto per entrare a Gaza e chiedere la fine dell’assedio. Una marcia che il Cairo ha proibito all’ultimo minuto e che si è ridotta a una manifestazione, il 31 dicembre, di fronte al museo egiziano. L’intenzione era di fare eco alle altre due manifestazioni che si tenevano, contemporaneamente, una a Gaza e l’altra in Israele. Ma la manifestazione al Cairo è stata subito caricata dalla polizia. Negli stessi giorni Benjamin Netanyahu, in fuga dall’ennesima crisi della sua coalizione, è corso ad abbracciare il presidente Hosni Mubarak. Il primo capo di governo israeliano arrivato fino al Cairo dai tempi del fallimento del processo di pace di Oslo. Una conferma che il sodalizio israelo-egiziano è più forte che mai, e che l’assedio su Gaza andrà avanti. Sul fronte interno palestinese le cose non vanno meglio: Al Fatah e Hamas, la prima in controllo della Cisgiordania, la seconda in controllo della Striscia, non riescono neanche a mettersi d’accordo sul luogo in cui incontrarsi. Un giorno è Sharm el Sheik, il giorno dopo è Damasco. E non muovono un passo neanche le trattative tra Israele e Hamas per il rilascio del soldato Gilad Shalit rapito nel 2006.

Un assedio è talmente difficile da raccontare, quando segui un convoglio che prende e parte verso Rafah in mezzo agli scontri ed agli spari pur di raggiungere Gaza. È difficile da raccontare anche perchè un assedio non indigna come una guerra. Non fa notizia quanto una catastrofe naturale. Ma è peggio. Perchè ci abitua all’idea che l’uomo può valere meno di un nemico, meno di una vittima, meno di un sacco di farina. Anche meno di una talpa.
E anche per oggi l’assedio di Gaza ci fa tutti meno umani.