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Venerdì 16 Aprile 2010 16:47

Global Research, 7 marzo 2010

Counterpunch, 3 marzo 2010

Questo articolo è stato estratto dal nuovo importante libro di Norman Finkelstein sull’aggressione a Gaza,“This Time We Went Too Far – Questa volta siamo andati troppo in là” pubblicato questo mese da OR Books. Per acquistare una copia del libro si prega di consultare OR Books. Questo volume non è disponibile nelle librerie o presso altri rivenditori online.

Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova

 Norman Finkelstein è autore di cinque libri, compreso Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, Beyond Chutzpah e The Holocaust Industry, che sono stati tradotti in più di 40 edizioni straniere. Questo articolo è un capitolo del suo nuovo libro “This Time We Went Too Far – Truth and Consequences of the Gaza Invasion.”

Verità e Conseguenze dell’Invasione di Gaza
di Norman Finkelstein

“Questa volta siamo andati troppo in là”

Lo sdegno dell’opinione pubblica suscitato dall’invasione di Gaza non è arrivato inaspettato, piuttosto ha segnato il nadir, il punto più basso di una curva che rappresenta il costante declino dell’appoggio ad Israele. Come suggerito dai dati di inchieste condotte da Statunitensi ed Europei, sia Gentili che Ebrei, negli ultimi dieci anni la pubblica opinione è diventata sempre più critica nei confronti della politica di Israele. Le immagini orrende di morte e di distruzione diffuse in tutto il mondo durante e dopo l’invasione hanno accelerato questo sviluppo di criticità.

Un anno dopo, il britannico Financial Times in un suo editoriale recitava: “Il ripetersi sempre più pesante e la brutalità della guerra in questa regione instabile ha spostato l’opinione pubblica internazionale, rammentando ad Israele di non essere sopra alla legge. Israele non può più a lungo dettare i termini della discussione e del confronto.”

Un sondaggio negli Stati Uniti, che registrava le reazioni dopo l’attacco a Gaza, metteva in evidenza come gli USAmericani che si esprimevano dichiarandosi sostenitori di Israele precipitavano dal 69% di prima dell’attacco al 49% nel giugno 2009, mentre coloro che ritenevano che gli USA dovevano appoggiare Israele piombavano dal 69% al 44%.

Consumato dall’odio, sospinto da autogiustificazioni e confidando di poter controllare o intimidire la pubblica opinione, Israele procedeva a Gaza come se potesse farla franca per un assassinio di massa alla piena luce del giorno. Ma, mentre il sostegno ufficiale dell’Occidente ad Israele restava fedelmente compatto, la carneficina scatenava un’ondata di sdegno popolare in tutto il mondo.

Che questo derivasse dal fatto che l’aggressione era avvenuta sulla scia della devastazione procurata da Israele in Libano, o per la spietata persecuzione di Israele nei confronti della gente di Gaza, o per la pura vigliaccata dell’assalto, l’invasione di Gaza è sembrata segnare un punto di svolta nell’opinione pubblica, richiamando immediatamente alla mente la reazione internazionale al massacro del 1960 a Sharpeville nel Sud-Africa dell’apartheid.

 

Era prevedibile che organizzazioni ufficiali delle comunità della diaspora ebraica, con collegamenti di vecchia data con Israele, conferissero un appoggio a scatola chiusa. Ma, allo stesso tempo, organizzazioni ebraiche progressiste di nuova costituzione prendevano le distanze in misura più o meno rilevante.

Mentre nel passato gli Ebrei avevano tradizionalmente appoggiato le guerre di Israele, durante questa invasione la maggior parte esprimeva perplessità, fatta eccezione per una minoranza sempre più ridotta di anziani che si schierava prendendo le difese di Israele e una minoranza in espansione di giovani che causticamente lo denunciavano.

Fra il dissociarsi crescente degli Ebrei più giovani dalla bellicosità di Israele e l’aumento generale delle perplessità degli Ebrei nel fornire ad Israele appoggio, il massacro di Gaza registrava il crollo del sostegno fino a questo momento incondizionato alle guerre di Israele.

Per giunta, mentre le dimostrazioni contro la guerra in molti paesi occidentali erano etnicamente eterogenee (includevano una significativa presenza di Ebrei!), le dimostrazioni “pro” Israele erano composte quasi esclusivamente da Ebrei.


Per esempio, nei campus universitari, il fatto che l’opposizione attiva alla politica di Israele, prima riservata a nuclei arabo-musulmani, si sia diffusa verso la generalità di opinione, mentre l’appoggio energico ad Israele era ristretto solo ad una frazione della comunità etnico-ebraica, questo è un evidente indicatore di quale direzione hanno preso le cose.

È passato il tempo dello “splendore” di Israele, sembra irrevocabilmente, e l’Israele deturpato, che in anni recenti è andato a sostituirsi nella assunzione pubblica di consapevolezza, è motivo di crescente imbarazzo. Non è che il comportamento di Israele sia divenuto tanto peggiore di quello in precedenza, ma piuttosto è la documentazione di questo comportamento che, finalmente, è venuta alla luce ed è andata diffondendosi.

 

La verità non può più a lungo essere negata o venire respinta. La documentazione del conflitto arabo-israeliano esposta da valenti storici è in netto contrasto con la versione volgarizzata del calibro di Exodus di Leon Uris.

Le prove delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele raccolte da importanti organizzazioni degne di fiducia non possono conciliarsi con il suo decantato impegno alla “purezza delle armi.”

Le deliberazioni di istituzioni politiche e giudiziali di assoluto rilievo pongono pesanti dubbi sull’impegno conclamato da Israele per una risoluzione pacifica del conflitto.

Per tanto tempo i “supporter” di Israele hanno svicolato dall’impatto di questa raccolta di prove documentali, brandendo le spade gemelle dell’Olocausto e del “neo anti-Semitismo.” Lo scopo prefisso era che gli Ebrei non dovessero sottostare agli standard convenzionali morali/legali, dopo le sofferenze uniche che avevano dovuto sopportare nel corso della Seconda Guerra Mondiale, e si affermava che il criticismo nei confronti della politica di Israele era motivato da un odio sempre virulento contro gli Ebrei.

Tuttavia, a parte l’inevitabile indebolimento derivato da un’overdose di strumentalizzazione, queste armi si sono dimostrate molto meno efficaci, una volta che l’insieme delle critiche verso Israele ha fatto irruzione nel flusso delle informazioni con destinazione l’opinione pubblica.

Incapaci di smussare le critiche contro Israele, ora gli apologeti come per magia fanno spuntare bizzarre teorie per giustificare questo ostracismo.

 

George Gilder, guru della reaganomics, postula che un sistema di libero mercato in maniera unica libera potenziale umano e allora in un tale sistema gli Ebrei sono e devono essere “rappresentati in modo elitario nelle gerarchie più alte”, dato che loro sono forniti di maggior talento.

Per converso, se gli Ebrei non esercitano il predominio, questo succede in quanto viene imposto un sistema economico men-che-ideale.

L’anti-Semitismo scaturisce dal risentimento procurato dalla “superiorità e eccellenza ebraica” e dalla “manifesta supremazia degli Ebrei su tutti gli altri gruppi etnici,” mentre l’odio per Israele è dettato dal fatto che Israele si è evoluto (sotto la tutela ispirata di Benjamin Netanyahu) in un perfetto sistema a libero mercato che “condensa il genio degli Ebrei,” rendendolo “una delle potenze capitaliste guida ” ed oggetto delle invidie nel mondo: “Israele è odiato soprattutto per le sue virtù.” Se figurano Ebrei in posizione preminente addirittura fra i critici di Israele, questo è dovuto al fatto che “eccellono senza alcuna difficoltà in tutti i settori intellettuali, tanto da sorpassare tutti i rivali anche nell’arena dell’anti-Semitismo.”

Invece, l’Occidente deve preservare e proteggere Israele dal “mondo delle chimere e delle fantasie a somma-zero della vendetta jihadista e di morte ” e dalle “masse di barbari”, perché il genio ebraico ha permesso all’umanità di “svilupparsi e prosperare”: gli Ebrei sono “essenziali alla razza umana.”

“Se Israele venisse distrutto, l’Europa capitalista andrebbe incontro alla stessa sorte e l’America, come epitome di capitalismo produttivo e creativo stimolato dagli Ebrei, si troverebbe in pericolo”; “Israele si trova all’avanguardia della generazione tecnologica del prossimo futuro e sulla linea del fronte di una nuova guerra razziale contro il capitalismo e l’individualità e il genio ebraico”; “Proprio come le economie liberiste sono necessarie per la sopravvivenza del genere umano del pianeta, così la sopravvivenza degli Ebrei risulta vitale per il trionfo delle economie liberiste. Se Israele venisse schiacciato o distrutto, dovremo soccombere alle forze che ovunque prendono come obiettivo il capitalismo e la libertà.”

 

Dall’altra parte dell’Atlantico, Robin Shepherd, direttore per gli affari internazionali alla Henry Jackson Society, con sede a Londra, afferma che Israele ha dovuto subire forti critiche in Occidente non tanto per il suo atteggiamento rispetto ai diritti umani ma in quanto si tratta di uno Stato democratico, capitalista, che combatte in prima linea a fianco degli Stati Uniti contro la minaccia portata alla “civiltà” dall’ Islam radicale:

“Israele è divenuto un nemico non per qualcosa che ha fatto” ma “perché si trova dalla parte opposta della barricata.” La “principale piattaforma che genera tensioni in Occidente” per questa “ondata travolgente di isteria, inganno e distorsione contro lo Stato ebraico” è costituita da marxisti totalitaristi e da simpatizzanti liberal-sinistrorsi che, delusi dal proletariato occidentale ed insoddisfatti per le lotte di liberazione nel Terzo Mondo, hanno fatto causa comune con l’“Islam militante” per distruggere l’ordine mondiale liberal-capitalista. Quantunque questi critici di Israele non siano anti-Semiti nel senso tradizionale “soggettivo” di disprezzare gli Ebrei in quanto tali, costoro sono colpevoli di anti-Semitismo “oggettivo”, visto che Israele è assolutamente centrale per l’identità ebraica nel mondo contemporaneo. Ma l’opposizione ad Israele molto probabilmente proviene anche dai sangue blu dell’ancien régime che desiderano restaurare le gerarchie del vecchio mondo, prima che gli Ebrei arrivassero a sconvolgerle. Questa cospirazione “neo-anti-Semitica” largamente diffusa comprende “la maggior parte” di coloro che accusano Israele di commettere crimini di guerra e altre violazioni del diritto internazionale. Allora, è ben inteso che dietro alla condanna di Israele da parte di Amnesty International e della Corte Internazionale di Giustizia, dei Nobel per la pace Jimmy Carter e Mairead Corrigan Maguire, del Financial Times e della BBC si nasconde la mano diabolica della congrega fra radicali di sinistra, fanatici islamici ed aristocratici latifondisti.

Per quelli che desiderano saperne di più, Shepherd “caldamente” raccomanda il film The Case for IsraelLa causa in favore di Israele di Alan M. Dershowitz.

 

Sebbene queste giustificazioni dell’isolamento di Israele siano carenti di credibilità, è fuori dubbio che le azioni di Israele siano in caduta precipitosa. Mentre Israele aveva guadagnato in Occidente molti simpatizzanti dopo le sue splendide vittorie nel giugno 1967, in anni recenti Israele è stato relegato in uno status quasi di paria, specialmente in Europa.

Una ricerca del 2003 dell’Unione Europea ha definito Israele come la più grande minaccia alla pace mondiale. Un sondaggio di opinione del 2008 indicava Israele come il più grosso ostacolo al conseguimento della pace nel conflitto israelo-palestinese. In un’inchiesta Servizi dal Mondo della BBC realizzata alla vigilia dell’invasione di Gaza, non meno di 19 su 21 paesi presi in considerazione esprimevano un predominante punto di vista negativo su Israele.

 

Intanto, in un articolo dal titolo “Second Thoughts about the Promised Land – Ripensamenti sulla Terra Promessa,” l’Economist riportava nel 2007 che, sebbene “molti Ebrei della diaspora ancora danno un loro forte sostegno ad Israele…il loro grado di incertezza sta aumentando.”

Voci di Ebrei in dissenso hanno cominciato a coagularsi in Gran Bretagna, Germania e in tutto il mondo, sfidando l’egemonia delle organizzazioni ufficiali ebraiche che ripetono a pappagallo la propaganda di Israele.

Negli Stati Uniti quello che appare nel complesso e le tendenze in atto forse non sono così pronunciati, ma non meno sono degni di nota.

Sulla base di dati forniti da sondaggi si può ampiamente affermare che gli USAmericani avevano su Israele punti di vista favorevoli in maniera consistente e simpatizzavano molto più per Israele che per i Palestinesi. Ora anche gli Statunitensi in modo schiacciante appoggiano un approccio USA imparziale nell’ambito del conflitto israelo-palestinese e più di recente hanno espresso “equanimi livelli di simpatia ” per entrambe le parti, mentre una sostanziale minoranza ritiene che la politica degli USA sia incline (od oscilli troppo) a favore di Israele; una robusta maggioranza di Statunitensi “pensano che Israele non stia facendo bene la sua parte nel metttere in atto tentativi di risolvere il conflitto”; e in certe occasioni gli Statunitensi hanno sostenuto l’uso di sanzioni per frenare Israele.

Significativamente, una maggioranza di Statunitensi inoltre sono favorevoli all’insediamento di due Stati sui confini del giugno 1967, fatto che comporta il totale ritiro di Israele dai territori occupati durante la guerra del giugno.

“Sì, i sondaggi rilevano un forte appoggio per Israele,” osservava nel 2007 M. J. Rosenberg, direttore per l’analisi politica del Forum sulle Politiche di Israele, a proposito delle recenti tendenze; comunque, “questo appoggio ad Israele, che ben esiste, è largo ma non troppo radicato.”

Questo fenomeno può essere riscontrato quasi ogni giorno nelle rubriche “Lettere alla Redazione”. Ogni volta che appare un editoriale su Israele, specialmente se contiene critiche, vengono indirizzate al direttore tantissime lettere. Molte appoggiano le posizioni di Israele. E quasi senza eccezione, queste lettere sono scritte da Ebrei. Quella larga maggioranza [di USAmericani non Ebrei] che presumibilmente è sostenitrice di Israele in effetti non interviene mai.

Secondo un sondaggio del 2007 della Lega Anti-Diffamazione (ADL), l’opinione favorevole degli Statunitensi nei confronti di Israele si trova segnatamente ad un livello inferiore rispetto alla loro favorevole opinione verso la Gran Bretagna e il Giappone, mentre è allo stesso livello di quella relativa all’India e al Messico. Quasi la metà di coloro che hanno risposto al sondaggio ritiene che gli USA dovrebbero collaborare con gli Stati arabi “moderati”, “anche a spese di Israele.”

La metà o più degli interpellati ritenevano di stigmatizzare Israele ed Hezbollah allo stesso modo per la guerra in Libano dell’estate 2006 ed appoggiavano una (più) neutrale presa di posizione degli Stati Uniti.

Per di più, in anni recenti, influenti congregazioni religiose, come la Chiesa Presbiteriana USA, il Consiglio Mondiale delle Chiese, la Chiesa Unita di Cristo e la Chiesa Unita Metodista, tutte hanno sostenuto iniziative, compreso il disinvestimento azionario e dismissioni d’impresa, per forzare Israele a mettere fine all’occupazione.

 

Un’indagine del 2005 condotta dal sondaggista ebreo Steven M. Cohen rilevava che “l’attaccamento degli Ebrei statunitensi ad Israele si è indebolito sensibilmente negli ultimi due anni…, dando continuità ad un andamento che dura da tempo.”

Gli interpellati dal sondaggio che ribadivano le loro preoccupazioni per Israele erano in numero inferiore rispetto ad altri di sondaggi precedenti di analoga natura.

Sorprendentemente, non vi è un parallelo declino nelle altre dimensioni di identità ebraica, compresa l’osservanza religiosa e l’affiliazione comunitaria.

La ricerca riscontrava che era solo un 26% ad affermare di essere “veramente” attaccato emozionalmente ad Israele, in confronto al 31% che aveva dichiarato lo stesso sentimento in una simile inchiesta condotta nel 2002.

Circa i due terzi, il 65%, ribadiva di seguire attentamente le notizie riguardanti Israele, in diminuzione dal 74% del 2002, mentre il 39% dichiarava di discutere frequentemente sulla questione Israele con amici ebrei, in diminuzione dal 53% del 2002.


Inoltre, Israele veniva meno come componente dell’identità ebraica personale di coloro che erano stati interessati all’inchiesta. Quando veniva loro proposta una selezione di fattori, come la religione, la comunità e la giustizia sociale, così come “l’atteggiamento generoso nei confronti di Israele,” e si richiedeva, “Per lei personalmente, l’essere ebreo comporta qualche conseguenza?,” il 48% dichiarava che Israele aveva una “qualche” importanza, rispetto al 58% del 2002.

Ancora, il 57% affermava che “l’atteggiamento generoso nei confronti di Israele è una parte veramente importante del mio essere ebreo,” confrontato con il 73% di una inchiesta consimile del 1989.

Un sondaggio del 2007 del Consiglio Ebraico Americano rilevava che il 30% di Ebrei si sentiva “abbastanza distante” o “decisamente distante” da Israele.

Cohen pronostica: “A lungo andare, prevedo una polarizzazione nella comunità ebraica degli USA, da una parte un piccolo numero più devoto e attaccato ad Israele, d’altro canto un gruppo più ampio che si lascia trasportare lontano.”

Un sondaggio del 2006 metteva in evidenza che, fra gli Ebrei statunitensi sotto i 40 anni, almeno un terzo si sentiva “abbastanza distante” o “decisamente distante” da Israele, mentre un sondaggio del 2007 trovava che fra gli Ebrei di età inferiore ai 35 anni un buon 40% registrava uno “scarso attaccamento” a Israele (solo un 20% dimostrava un “alto attaccamento”).

E, cosa straordinaria, meno della metà rispondeva affermativamente che “la distruzione di Israele sarebbe stata una tragedia personale.”

L’ex presidente dell’Agenzia Ebraica recentemente suonava l’allarme per il fatto che “meno del 24% dei giovani Ebrei nel Nord America fanno parte di organizzazioni ebraiche. Meno del 50% degli Ebrei del Nord America sotto i 35 anni provano un forte senso di appartenenza al popolo ebraico. Meno del 25% di Ebrei del Nord America sotto i 35 anni si definiscono Sionisti.”

Nei campus nazionali l’appoggio ad Israele si limita a quegli studenti ebrei che fedeli al Sionismo sono riuniti nelle Hillel. Uno studio commissionato da organizzazioni di sostegno ebraico riporta : “Gli studenti ebrei dei college sono indiscutibilmente meno attaccati ad Israele rispetto a quelli delle generazioni precedenti. Israele sta perdendo la battaglia nei cuori e nelle menti di questa schiera.” Infatti, di quasi mezzo milione di studenti ebrei che frequentano istituti di studi superiori, “solo circa il cinque per cento hanno qualche frequentazione con la comunità ebraica.”

 

Perplessità nei confronti di Israele, che confina con la disaffezione, può essere riscontrata anche in influenti settori della società statunitense, nel pubblico dei lettori e sempre nelle personalità di spicco della vita intellettuale degli Stati Uniti.

Un recente sondaggio ha riscontrato che la maggioranza degli opinion-leader negli USA considera l’appoggio ad Israele come la “ragione più importante dei contrasti che gli Stati Uniti devono affrontare in tutto il mondo.”

In un saggio del 2003 sulla Review of Books di New York, lo storico ebreo Tony Judt sosteneva che “Israele oggi è un male per gli Ebrei ” e metteva in dubbio sia la vitalità economica che l’appetibilità di uno Stato ebraico.

John J. Mearsheimer dell’Università di Chicago e Stephen M. Walt dell’Harvard Kennedy School, erano i coautori nel 2006 di un autorevole documento che riportava alle giuste proporzioni la storia idealizzata dell’immagine di Israele e in cui si asseriva che Israele era diventata una “passività strategica ” per gli Stati Uniti.

Un libro dell’ex Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, provocatoriamente intitolato Palestine Peace Not Apartheid - Pace in Palestina, no Apartheid, deplorava la politica di Israele nei Territori Occupati di Palestina e assegnava ad Israele la diretta responsabilità di avere trascinato il processo di pace in un vicolo cieco.

Sebbene la lobby ebraica abbia scatenato contro questi interventi contrattacchi al vetriolo, le sue solite calunnie presuntive di anti-Semitismo e di negazionismo dell’Olocausto non hanno fatto breccia.

Quando, nel 2006, le pressioni della lobby hanno portato alla cancellazione di una conferenza già programmata di Tony Judt, egli ha assunto immediata celebrità nei circoli intellettuali degli Stati Uniti. I suoi critici, come quel Abraham H. Foxman della Lega Anti-Diffamazione, venivano derisi per “scagliare spaventose accuse di anti-Semitismo” e per essere un “anacronismo.”

Carter, nondimeno, veniva accusato di essere un plagiario, in paga degli sceicchi arabi, un anti-semita, un apologeta del terrorismo, un simpatizzante dei Nazi e un negazionista dell’Olocausto al limite del lecito.

Tuttavia, il libro di Carter è finito nella lista dei bestseller del New York Times e vi è rimasto per mesi, vendendo qualcosa come 300.000 copie in brossura. Sebbene snobbato dal presidente della Brandeis University, al contrario Carter riceveva una standing ovation dal corpo studentesco quando si era recato a parlare presso quella istituzione ebraica storica. (Metà dell’auditorio usciva dalla sala quando il professore di diritto di Harvard Alan M. Dershowitz si era alzato per replicare a Carter).

Mearsheimer e Walt hanno dato alle stampe per i tipi della casa editrice Farrar, Straus e Giroux, il loro libro, The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy - La Israel Lobby e la politica estera degli Stati Uniti, che è diventato anch’esso un bestseller del Times. [N.d.tr.: sorprendentemente edito in italiano da Mondadori]

Si tratta di un’ulteriore testimonianza delle fortune declinanti di Israele; nel corso della durata in carica del primo ministro Ehud Olmert, anche Foxman e il sempiterno supporter di Israele Elie Wiesel si sono dati a stigmatizzare Israele per avere mancato di perseguire la pace.

 

Il malcontento pubblico, che iniziava a ribollire nei confronti della politica di Israele in anni recenti, ha raggiunto il punto di ebollizione dell’indignazione nel corso dell’invasione di Gaza.

Malgrado il blitz propagandistico orchestrato da Israele con estrema oculatezza; malgrado la tendenza, in modo schiacciante filo israeliana, dei servizi di informazione dei media, specialmente durante i primi giorni dell’aggressione; e malgrado il sostegno all’assalto dichiarato in via ufficiale in Occidente – malgrado tutto questo, grandi manifestazioni popolari in tutta l’Europa Occidentale (Spagna, Italia, Germania, Francia, e Gran Bretagna) hanno fatto scomparire per dimensioni le dimostrazioni in favore di Israele.

Un’ondata di occupazioni studentesche si è propagata rapidamente per tutta la Gran Bretagna, comprendendo Oxford, Cambridge, Manchester, Birmingham, London School of Economics, School of Oriental and Asian Studies, Warwick, King’s, Sussex, e Cardiff.

Perfino in tradizionali bastioni di appoggio ad Israele come il Canada, dove la propensione filo israeliana del sistema politico di estrema destra e dei media è particolarmente intensa, una pluralità di settori dell’opinione pubblica ha disapprovato l’aggressione e l’Unione canadese del Pubblico Impiego ha approvato una mozione che proponeva un boicottaggio accademico di Israele.

Dichiarando dopo il cessate-il-fuoco che “gli avvenimenti di Gaza ci hanno colpito profondamente,” un gruppo di 16 fra giudici e inquirenti di tutto il mondo di grandissima esperienza – fra cui Antonio Cassese (Primo Presidente e Giudice del Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex Jugoslavia e Presidente della Commissione di Inchiesta dell’ONU per il Darfur) e Richard Goldstone (Procuratore Generale del Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex Jugoslavia e nel Rwanda e Presidente della Commissione di Inchiesta dell’ONU per il Kosovo) facevano appello per un’“inchiesta internazionale sulle gravi violazioni delle leggi di guerra commesse da tutte le parti in conflitto a Gaza.”

 

Non stupisce il fatto che gli apologeti di Israele attribuiscano la diffusa indignazione per l’invasione di Gaza all’anti-Semitismo. Può essere postulata la norma generale che, più profondo è l’abisso in cui affonda la condotta criminale di Israele, più alto è il livello dei decibel degli strilli di anti-Semitismo.

Abraham H. Foxman dichiarava che “gli Ebrei devono affrontare una epidemia, una pandemia di anti-Semitismo. Si tratta di un anti-Semitismo il più intenso, il più diffuso, il peggiore che si possa ricordare in tempi recenti.” Questo fomentare paure da parte di Foxman non era una novità, visto che aveva pronosticato tempo addietro nel 2003 che l’anti-Semitismo stava sollevando “una grave minaccia alla sicurezza del popolo ebraico, come quella che si era dovuto affrontare negli anni Trenta.”

Proprio come nel passato, i risultati di sondaggi usati per dare fondamento a queste esagerazioni registravano “indicatori” di “opinioni del più pernicioso anti-Semitismo,” tali da concludere che “larghi settori dell’opinione pubblica in Europa continuano a ritenere che gli Ebrei ancora parlino troppo di quello che è capitato loro durante l’Olocausto.”

Per il “filosofo” della comunicazione Bernard-Henri Lévy, di Parigi, chi mette in dubbio che l’olocausto nazista abbia costituito uno “spartiacque morale nella storia dell’uomo” dovrebbe essere considerato un anti-Semita.

Alcuni episodi, certamente sgradevoli, di presunto anti-Semitismo in Europa si sono manifestati in e-mail e scritte murali, comunque l’anti-Semitismo europeo, nonostante la montatura propagandistica, impallidisce rispetto al pregiudizio contro i Musulmani. (Un aumento di animosità nei confronti di Ebrei e Musulmani, negli ultimi anni le due curve tendono a correlarsi, appare in parte dovuto ad una rinascita di etnocentrismo fra gli Europei più anziani, meno educati e politicamente conservatori.)

Tuttavia è più vicino al vero che l’esecuzione da parte di uno Stato, auto-proclamatosi ebraico, di azioni sfrenate omicide, ripetute in Libano e a Gaza, e l’aperto sostegno a questi comportamenti violenti conferito da parte di organizzazioni ufficiali ebraiche di tutto il mondo, siano stati la causa di deplorevoli, anche se completamente prevedibili, “esternazioni”, secondo le quali tutti gli Ebrei in generale dovevano essere ritenuti responsabili.

Se, come ha asserito il Forum israeliano di Coordinazione dell’Opposizione all’anti-Semitismo, vi è stata “una rapida impennata in numero e in intensità dei casi di anti-Semitismo” durante il massacro di Gaza; se “con il cessate-il-fuoco vi è stato un marcato decremento in numero e in intensità dei casi di anti-Semitismo”; e se “un’altra vampata nella regione, simile all’operazione scatenata contro Gaza, probabilmente causerebbe una ancor più severa esplosione di attività anti-Semite contro le comunità ebraiche nel mondo,” allora un metodo efficace per combattere l’anti-Semitismo potrebbe essere per Israele quello di smetterla con i massacri.

È anche vero che il divario crescente fra il sostegno ufficiale ad Israele guerrafondaio e la repulsione popolare contro questo può alimentare teorie di complotti anti-Semitici.

Ad esempio, in Germania la dirigenza politica e l’insieme dei mezzi di comunicazione non sopportano alcuna posizione critica nei confronti di Israele, a causa della “speciale relazione” che vede la sua origine nella “storica responsabilità” della Germania.

Il cancelliere Angela Merkel ha superato gli altri leader europei nell’abbracciare la causa di Israele durante l’invasione di Gaza.

Tuttavia, recenti sondaggi hanno mostrato come il 60% dei Tedeschi respinge la nozione di obblighi particolari della Germania nei confronti di Israele, (i giovani rifiutano tutto questo per il 70%), il 50% ritiene che Israele sia un paese aggressivo e il 60% pensa che Israele persegua i propri interessi in modo spietato.

Più in generale, Gideon Levy richiamava alla mente “la scena surreale al momento culminante del brutale assalto a Gaza, quando i capi dell’Unione Europea si erano recati in Israele e pranzavano con il primo ministro facendo bella mostra di un appoggio unilaterale per la parte cha stava provocando morte e distruzione.” E sebbene fosse stato Israele a rompere la tregua e a scatenare l’invasione, i leader europei intrattenevano colloqui con gli Stati Uniti (e con il Canada) su come ostacolare l’accesso alle armi non agli aggressori ma alle vittime!

È solo questione di tempo prima che gli Europei comincino a chiedersi, se non lo hanno già fatto, per ordine di chi la loro politica estera si muova con queste modalità.

 

Ascrivere il disgusto popolare dei Gentili per il massacro di Gaza all’anti-Semitismo si è dimostrato del tutto irrazionale a fronte del diffuso e palese dissenso ebraico.

Mentre organizzazioni ebraiche ufficiali delle comunità diffondevano dichiarazioni in favore di Israele, proliferavano organizzazioni ebraiche ad hoc che presentavano istanze per deplorare l’invasione.

Più significativamente, Ebrei di notevole importanza nella vita delle comunità ebraiche censuravano le azioni di Israele, sebbene con toni in generale smorzati. Quando Israele era pronto a lanciare l’offensiva di terra dopo una settimana di attacchi aerei, un gruppo di Ebrei fra i più illustri della Gran Bretagna, pur dichiarandosi “profondi e appassionati sostenitori” di Israele, esprimevano “orrore” all’aumentare “ delle perdite di vite umane da entrambe le parti ” e raccomandavano ad Israele di cessare immediatamente le operazioni militari contro Gaza.

In una nota più aspra, Gerald Kaufman, membro del Parlamento britannico ed ex ministro ombra per gli affari esteri, dichiarava durante un dibattito sulla questione di Gaza alla Camera dei Comuni: “Mia nonna si trovava ammalata a letto quando i Nazisti fecero irruzione nella sua città natale di Staszow. Un soldato tedesco la colpì a morte nel suo letto. Mia nonna non è morta per fornire una copertura ai soldati di Israele per andare ad ammazzare nonne palestinesi a Gaza.”

Kaufman arrivava ad accusare il governo di Israele di avere “crudelmente e cinicamente sfruttato il continuo senso di colpa fra i Gentili per il massacro di Ebrei nell’Olocausto come giustificazione dei loro assassini di Palestinesi.”

Intanto, in Francia, il popolare scrittore ebreo Jean-Moïse Braitberg richiedeva al presidente di Israele di rimuovere il nome di suo nonno dal momumento di Yad Vashem dedicato alle vittime dell’Olocausto nazista, “cosicché non possa essere usato per giutificare l’orrore che viene riversato sui Palestinesi.”

In Germania, Evelyn Hecht-Galinski, figlia dell’ex presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, scriveva : “Non il governo di Hamas eletto regolarmente, ma il brutale occupante…deve essere posto sul banco degli imputati all’Aja,” mentre la sezione germanica degli Ebrei europei per una Pace Giusta pubblicava una dichiarazione che sottolineava come “gli Ebrei Tedeschi Dicono NO alle Uccisioni commesse dall’Esercito Israeliano.”

In Canada, otto donne ebree che occupavano il Consolato di Israele invitavano “tutti gli Ebrei a pronunciarsi contro questo massacro,” e il celebre pianista canadese Anton Kuerti dichiarava:

“Gli incredibili crimini di guerra che Israele sta commettendo a Gaza . . .mi fanno vergognare di essere ebreo.”

In Australia, due romanzieri di fama ed un ex ministro del governo federale firmavano un appello di Ebrei che condannavano Israele per la sua aggressione gravemente spropositata.

L’amministrazione Bush e il Congresso degli Stati Uniti sostenevano Israele in modo inqualificabile nel corso di tutta l’invasione. Una risoluzione, che assegnava ad Hamas la totale colpevolezza delle morti e delle distruzioni, passava all’unanimità al Senato e alla Camera con 390 voti a favore e 5 contrari.

Molto del flusso di informazioni nei media negli Stati Uniti, in modo altrettanto sfacciato, era in linea con la parte in causa israeliana.

Il giornalista Max Blumenthal osservava : “Dal capodanno, un drappello osannante Israele ha trasformato le pagine di opinione dei maggiori quotidiani usamericani in uno spazio personale dei più violenti e rumorosi. Di tutti i contributi editoriali pubblicati dal Washington Post, Wall Street Journal, e New York Times, da quando Israele ha iniziato la guerra contro Gaza, . . . solo uno ha offerto uno scettico punto di vista sull’aggressione.”

La concezione del New York Times di editoriali… equilibrati veniva conseguita giustappunto mediante le fantasie di Jeffrey Goldberg sul male non redimibile di Hamas e con le raccomandazioni di Thomas Friedman per Israele ad infliggere “pesanti sofferenze alla popolazione di Gaza.”

Il suo rivale cittadino, il New York Daily News, pubblicava un editoriale di apertura del Rabbino Marvin Hier che incalzava i leader mondiali a “non. . . ricostruire più Gaza ” anche se “molti civili soffriranno ”, dato che “i terroristi e coloro che li appoggiano non hanno diritto a ricevere aiuti importanti per la loro crudeltà, per i loro misfatti e per la loro omertà.” E questo è il fondatore e decano del Centro Simon Wiesenthal e del suo Museo della Tolleranza!

Nel bel mezzo di questa atmosfera da linciaggio anche organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch, riservavano per Hamas la loro più forte condanna.

Nonostante questa elite riversasse torrenti di veleno, i sondaggi dell’opinione pubblica mostravano che, pur con dure critiche ad Hamas, solo circa il 40% degli Statunitensi approvavano l’attacco di Israele, mentre fra coloro che votavano Democratico (il partito di affiliazione di molti Ebrei) il consenso crollava al 30%.

In una teatrale esibizione di indipendenza, che richiamava alla mente Jimmy Carter come autore di Palestine Peace Not Apartheid, l’icona liberal Bill Moyers stigmatizzava Israele sul suo popolare programma di questioni pubbliche Bill Moyers Journal, quantunque in un contesto assai critico nei confronti di Hamas: “Uccidendo indiscriminatamente vecchi, bambini, intere famiglie, distruggendo scuole ed ospedali, Israele ha fatto esattamente ciò che fanno i terroristi.”

Come Carter, anche Moyers immediatamente finiva sotto il tiro di Abraham H. Foxman, che lo accusava di “razzismo, revisionismo storico ed indifferenza al terrorismo,” e del professore di diritto ad Harvard Alan M. Dershowitz, che screditava Moyers per “la sua falsa moralistica equidistanza ” fra il terrorismo di Hamas e l’esercito di Israele, che “inavvertitamente aveva ammazzato qualche civile palestinese, però usato da Hamas come scudo umano.”

Ma ancora come Carter, Moyers riusciva a guadagnare terreno, visto che altri liberal si sono levati in sua difesa, e ad uscire illeso dopo la raffica di diffamazioni.

 

Quando si scatenò l’invasione di Gaza e le immagini sconvolgenti del massacro trasmesse dal vivo da Al-Jazeera non potevano più oltre essere ignorate, cominciarono ad apparire crepe nel flusso delle informazioni dei media moderati.

Sotto il titolo inquietante “Si sta esaurendo il tempo di una soluzione a due Stati?” il notiziario televisivo più seguito negli Stati Uniti 60 Minutes mandava in onda un segmento di programma devastante sui coloni ebrei nella West Bank, che includeva scene strazianti di “Arabi che subivano l’occupazione delle loro abitazioni ” da parte di soldati israeliani.

La pagina editoriale del Wall Street Journal pubblicava un articolo del professore di diritto George E. Bisharat dal titolo di testa “Israele sta commettendo crimini di guerra.”

Il giornalista del New York Times Roger Cohen, di solito tanto compassato, confessava in un paio di colonne di “vergognarsi per le azioni di Israele.” In un secondo articolo, Cohen considerava che “l’espansione continua di Israele mediante gli insediamenti, l’assedio a Gaza, la West Bank rinchiusa da muri e lo sfrenato ricorso alla forza ad alta tecnologia” era “progettata precisamente per colpire a randellate, indebolire e umiliare il popolo palestinese, fino a far svanire la sua dignità e il sogno di uno Stato palestinese.”

L’ex editore della New Republic e lo scrittore conservatore Andrew Sullivan giudicava che l’attacco israeliano era “tutt’altro che una esigenza moralmente stringente…Si tratta di una guerra decisamente unilaterale,” ed etichettava come “thugs” [N.d.tr. : i thugs erano membri di una setta religiosa indiana di strangolatori] i sodali con la destra ebraica per “il terribile massacro di uomini che ora veniva inflitto da Israele (e finanziato in parte dagli USAmericani).”

Philip Slater, autore dello studio sociologico The Pursuit of Loneliness, dichiarava: “La Striscia di Gaza è poco più di un grande campo di concentramento israeliano, in cui i Palestinesi vengono aggrediti a piacere, privati di cibo, carburante, energia, perfino privati di strutture ospedaliere…Diventerebbe difficile provare una qualche stima per i Palestinesi, se non sparassero in risposta qualche razzo!”

Intanto il Consiglio Comunale di Cambridge, Massachusetts, un enclave liberal e sede dell’Università di Harvard, adottava una risoluzione “che condannava gli attacchi e l’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano e il lancio di razzi contro la gente di Israele,” e un gruppo di professori universitari statunitensi lanciava una campagna nazionale che faceva appello al boicottaggio accademico e culturale di Israele.

Un sondaggio condotto fra Ebrei statunitensi riscontrava che il 47% approvava con forza l’aggressione israeliana, ma, in netto contrasto con la usuale solidarietà sempre e comunque, il 53% era o equidistante (il 44% approvava “solo un po’” o disapprovava “solo un po’”) o decisamente disapprovava (il 9%).

Osservatori di esperienza nel settore concernente le comunità ebraiche statunitensi sottolineavano un “cambio di marea dopo Gaza.”

A prescindere dai “settori più conservatori filo-israeliani delle comunità,” M. J. Rosenberg del Israel Policy Forum notava che “si faceva poca mostra di sostegno a questa guerra. A New York, una città in cui nel passato erano state fate marce di ‘solidarietà’ che avevano visto la partecipazione anche di 250.000 persone, solo 8.000 persone si erano recate a Manhattan per una dimostrazione della comunità in una domenica soleggiata.”

In pubblico contrasto con la leadership tradizionale ebraica, organizzazioni ebraiche di recente costituzione come J Street [N.d.tr. : un gruppo di pressione politica con l’obiettivo di rappresentare gli Ebrei usamericani di sinistra] delimitavano un terreno di mediazione che “riconosceva che né gli Israeliani né i Palestinesi avevano il monopolio di essere nel giusto o nell’errore,” e raccomandavano “di liberare il Medio Oriente dall’approccio piuttosto limitato di noi-contro-loro.”

Costituito nel 2008, J Street si propone come controparte liberal dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC).

È ancora troppo presto per prevedere se J Street, che attualmente si uniforma ad una agenda politica vagamente progressista, sebbene si definisca anche “vicinissimo” a Kadima, il partito politico israeliano guidato da Tzipi Livni, si calcificherà in una “leale opposizione” o accentuerà il suo criticismo nei confronti della politica di Israele, quando la spaccatura che divide gli Ebrei statunitensi da Israele si allargherà.

Anche l’organizzazione “American Jews for a Just Peace” metteva in circolazione una petizione rivolta ai “Soldati Israeliani per Cessare i Crimini di Guerra,” e “Jews Say No” manifestava davanti all’Organizzazione Sionista Mondiale e agli uffici dell’Agenzia Ebraica, e “Jews against the Occupation” calavano uno striscione sull’autostrada nella West Side di New York City che affermava “Jews Say: End Israel’s War on Gaza NOW! – Gli Ebrei affermano: la Guerra di Israele contro Gaza deve finire ORA!

Negli ambienti intellettuali ebraici liberal, solamente alcuni perenni fautori di Israele, la maggior parte dei quali si erano imbarcati a destra dopo il giugno 1967, si sono avventurati a vele spiegate in difesa dell’invasione.

Era del tutto ovvio per il filosofo morale Michael Walzer che Israele avesse esaurito le opzioni non-violente prima dell’aggressione e che Hamas portasse la responsabilità per la morte di civili. Per Walzer la sola “difficile questione” consisteva nel fatto se Israele si fosse impegnato al massimo per ridurre il numero di queste vittime.

Era del tutto ovvio per Alan M. Dershowitz che Israele avesse fatto “tutti gli sforzi possibili per evitare l’uccisione dei civili” e che in questo non fosse riuscita perché Hamas aveva ricercato una strategia del tipo “bimbo morto”, vale a dire quella di costringere Israele ad ammazzare bambini palestinesi in modo da raccogliere le simpatie internazionali.

Era del tutto ovvio per l’editore di New Republic Martin Peretz che l’assedio di Gaza non risultasse così tanto spietato, dal suo attento esame delle scarpe dei Palestinesi: “Bisogna guardare attentamente alle loro scarpe ‘sneakers’, visibilmente nuove e, senza dubbio, costose.”
Era del tutto ovvio per lo scrittore Paul Berman che, se una “possibilità” esiste per Hamas di minacciare di genocidio Israele in un giorno futuro, “se ad Hamas e ai suoi alleati e a coloro che la pensano nello stesso modo come Hezbollah viene permesso di prosperare senza alcun ostacolo, e se allo stesso modo viene concesso al governo dell’Iran e al suo programma nucleare di progredire,” allora Israele aveva il diritto di scatenare subito un attacco.

Dopo un tale ammasso di ipotetici affastellati di condizionali è difficile immaginare quale paese al mondo potrebbe dirsi al sicuro da un attacco proditorio e quale paese potrebbe non ricevere giustificazioni nel lanciare arbitrariamente un attacco.

Se, a prescindere da questa congrega di difensori di Israele, Ebrei liberal riconoscevano che l’attacco di Israele costituiva un problema di natura morale, cionondimeno non potevano sopportare che i loro panni sporchi venissero messi in piazza alla vista dei Gentili.

Dunque, riviste e giornali di opinione destinati ad un pubblico di Ebrei dell’alta borghesia cittadina, come il New Yorker e il New York Review of Books, sorvolavano sul massacro di Gaza.

Comunque, un folto gruppo molto influente di intellettuali Ebrei, di dominio pubblico liberal, non sono stati in silenzio: la nuova generazione di bloggers ebraici liberal e collaboratori regolari con siti web liberal-democratici, come Salon.com e Huffington Post, meno dipendenti dalla classe dirigente, editori ebrei, inserzionisti, finanziatori e social networks, parlava da e per una generazione che ha raggiunto la maggiore età quando in larga misura la mitologia sionista è stata espulsa e sostituita da equilibrate ricerche storiche.

La classe dirigente politica di Israele è andata evolvendo con modalità reazionarie e squallide. La documentazione sui diritti umani in Israele è stata sottoposta ad inchieste laceranti da parte delle organizzazioni sociali per i diritti umani.

La paranoia Olocausto-indotta e lo spaccio di accuse di anti-Semitismo tangibilmente contrastano con la quotidiana realtà di una assimilazione ebraica ovunque trionfante, dalla Ivy League [N.d.tr.: lega delle otto principali università del nord-est degli Stati Uniti] a Wall Street, da Hollywood a Washington, dai circoli d’élite all’altare del matrimonio.

Professionalmente, mentalmente ed emozionalmente emancipati dai ceppi del passato, questi Ebrei frequentatori assidui di Internet sono passati all’offensiva denunciando l’invasione di Gaza dal suo inizio.

Il simbolismo potrebbe a mala pena essere evitato. Mentre i sostenitori di Israele, che non si danno mai per vinti, come Walzer, Dershowitz, e Peretz sono stati abbarbicati fin dalla loro gioventù alla barca sionista, la generazione di giovani intellettuali noti ebrei che ora si presentano su Internet ne sono saltati fuori. “Li compatisco per il loro odio nei confronti del loro retaggio,” Peretz ha sibilato. “Sono solo strida fastidiose.”


Ecco le strida fastidiose nelle loro parole!

Ezra Klein (età 25 anni; blogger per American Prospect) nel secondo giorno dell’invasione così diffondeva: “Il lancio di razzi risulta senza dubbio ‘profondamente disturbante’ per gli Israeliani. Ma hanno fatto traboccare il vaso i tanti checkpoints, le strade chiuse o riservate, la limitazione dei movimenti, la terribile disoccupazione, l’oppressione inflessibile, le umiliazioni quotidiane, gli insediamenti illegali - ah, scusate! ‘avamposti’ – costruzioni ‘profondamente disturbanti’ per i Palestinesi, e decisamente molto più lesive ed oltraggiose. E i 300 morti Palestinesi dovrebbero creare qualche disturbo anche a noi tutti!”

Adam Horowitz (età 35 anni; blogger per Mondoweiss) nel quarto giorno dell’invasione, in risposta ad un editoriale di Benny Morris in prima pagina del New York Times, diffondeva: “Evidentemente, lei vede solo le reazioni e non le cause. Lei elenca le reazioni ad Israele e alla colonizzazione ebraica della Palestina storica portata avanti da Israele senza citare l’elefante nella stanza, che le mura che avviluppano Israele sono del tutto auto-prodotte.”

Matthew Yglesias (età 28 anni; blogger per Think Progress) nel sesto giorno dell’invasione diffondeva: “Mentre Israele dichiarava il desiderio di abbandonare i Palestinesi di Gaza nella loro enclave minuscola, sovrappopolata, economicamente non vitale, il ‘disimpegno’ del 2005 da Gaza non ha mai comportato il permesso ai Palestinesi di controllare i confini o di esercitare la piena sovranità su questa loro area. Il progetto fondamentalmente prospettava che, se i Palestinesi cessavano le violenze contro Israele, allora la Striscia di Gaza avrebbe avuto un trattamento simile a quello di una riserva indiana.”

Dana Goldstein (età 24 anni; blogger per American Prospect) nel dodicesimo giorno dell’invasione diffondeva: “Io voglio credere che l’esperienza storica, collettiva, dell’Ebraismo e del Sionismo produca qualcosa di meglio, qualcosa di più umano di ciò per cui siamo stati testimoni in Medio Oriente in questa ultima settimana.”

Glenn Greenwald (età 42 anni; blogger per Salon.com) nel tredicesimo giorno dell’invasione diffondeva: “Questa non può più dirsi una guerra, questo è un massacro unilaterale senza pari,” e il

30 gennaio 2009, “Proprio non è possibile compiere effettivi progressi nelle nostre intenzioni domestiche di rinvigorire la Costituzione e di revocare le nostre espansioni militari e di intelligence, se allo stesso tempo siamo impotenti e ciecamente sosteniamo Israele nelle sue varie guerre (e di conseguenza trasciniamo anche noi stessi in queste guerre).”

Il 20 febbraio 2009 Greenwald rispondeva ad una insinuazione mossagli da Jeffrey Goldberg di essere un “picchiatore contro Israele che odia gli Ebrei”: “la gente come Jeffrey Goldberg . . . ha così tanto abusato, manipolato e sfruttato le accuse di ‘anti-Semitismo’ e di ‘anti-Israele’ per fini scorretti e scopertamente politici che questi termini si sono svuotati di significato, hanno perso quasi del tutto il loro stimolo e di fatto sono diventati così banali da assumere caratteristiche caricaturali…Infatti, gente come Goldberg è diventata extra rancida e sprezzante nella sua retorica, precisamente perché sa che questi espedienti retorici hanno cessato di funzionare.” “Vi è un deciso cambio di marea quando la politica usamericana discute di Israele,” concludeva Greenwald, “Queste persone non possiedono più la capacità di soffocare il dissenso tramite tattiche di criminale intimidazione e sanno che è per questo che ora non possono fare altro che alzare il volume dei loro attacchi insultanti. La devastazione di Gaza da parte di Israele, con l’uso di bombe, armamenti, denaro e copertura diplomatica statunitense, e l’intrappolamento della popolazione civile di Gaza priva di difese sono così brutali ed orrendi da guardare che era inevitabile un cambiamento del punto di vista della gente sul conflitto in Medio Oriente.”

Subito dopo la fine dell’invasione di Gaza, la falange dei blogger liberal ebrei ancora una volta ha reso pan per focaccia alla lobby israeliana quando questa ha cercato di bloccare la nomina da parte dell’amministrazione Obama di Chas Freeman, un funzionario critico nei confronti della politica di Israele.

Un altro indizio decisamente eclatante è stato uno sketch dal titolo “Strip Maul – Colpi di maglio sulla Striscia” mandato in onda su Daily Show di Comedy Channel, il 5 gennaio 2009.

Il conduttore del programma televisivo, il comico Jon Stewart, è ebreo ed ha un enorme seguito fra i giovani. Egli metteva in ridicolo l’appoggio unanime, instupidito e dominato da stereotipi, dei politici verso Israele, ricevendo boati di approvazione dal pubblico in studio (“Questo è come il nastro di Möbius dei problemi in discussione – esiste solo un’unica parte!”);

[N.d.tr.: il nastro di Möbius, dal nome del matematico tedesco August Ferdinand Möbius, è un esempio di superficie non orientabile. Le superfici ordinarie, intese come le superfici che nella vita quotidiana siamo abituati ad osservare, hanno sempre due "lati" (o meglio, facce), per cui è sempre possibile percorrere idealmente uno dei due lati senza mai raggiungere il secondo, salvo attraversando una possibile linea di demarcazione costituita da uno spigolo (chiamata "bordo"). Per queste superfici è possibile stabilire convenzionalmente un lato "superiore" o "inferiore", oppure "interno" o "esterno". Nel caso del nastro di Möbius, invece, tale principio viene a mancare: esiste un solo lato e un solo bordo.]; rivolgeva l’attenzione verso “la segmentazione e l’assedio di Gaza che schiacciavano le persone”; e paragonava la situazione di un Palestinese a quella di qualcuno costretto “a vivere nel mio corridoio di ingresso e obbligato a passare attraverso posti di controllo ogni volta che deve prendere un s**t. (Una qualsiasi cosa in qualche altra parte della casa) ”

 

La metamorfosi generazionale che ha riguardato Israele si è resa molto più evidente nei campus universitari.

Inside Higher Ed riportava in un articolo: “In molti campus è stato riscontrato un deciso slittamento verso un più evidente sentimento filo palestinese e anti-Israele, causato, in parte, dall’aggressione bellica a Gaza di questo inverno.”

Ampie sale per conferenze di collegi universitari traboccavano di partecipanti alle assemblee che condannavano il massacro a Gaza. Mentre i gruppi “filo” israeliani, che di solito erano usi protestare dentro e fuori le conferenze, ora praticamente non si facevano vedere.

Gli studenti della Cornell University delineavano dei tracciati con 1.300 bandiere nere in commemorazione dei morti di Gaza. (Più tardi, l’esposizione veniva distrutta da un atto vandalico).

Gli studenti dell’Università di Rochester, dell’Università del Massachusetts, della New York University, della Columbia University, dell’Haverford College, del Bryn Mawr College, e dell’Hampshire College organizzavano lanci di petizioni, proteste e sit-in per raccogliere contributi finanziari in favore di studenti palestinesi e per sostenere il disinvestimento dalle imprese di armamenti e dalle compagnie che facevano affari con gli insediamenti illegali di Israele.

Gli studenti dell’Hampshire College esercitavano con successo pressioni sugli amministratori del college per disinvestire dalle corporation statunitensi che traevano direttamente vantaggi dall’occupazione.

Sebbene le organizzazioni filo-israeliane dichiarassero che “i campus dei college e delle università…erano diventati focolai di una nuova virulenta pressione di anti-Semitismo,” in molti campus a giocare un ruolo guida erano stati gli studenti ebrei attraverso i comitati locali di “Students for Justice in Palestine ” e giovani attivisti ebrei creativi ed impegnati in “Birthright Unplugged” e in “Anarchists Against the Wall”, a fianco di singoli personaggi come Anna Baltzer, autrice del saggio Witness in Palestine, che era andata scuola per scuola offrendo la sua personale testimonianza sugli orrori giornalieri a cui aveva assistito in Palestina.

I legami di solidarietà che sono andati ad instaurarsi tra giovani Ebrei e giovani Musulmani in opposizione all’occupazione – i gruppi animatori in molti campus erano costituiti da radicali ebrei laici e giovani donne musulmane osservanti – danno ragione alla speranza che una giusta pace duratura possa ora essere acquisita.

Dopo avere parlato del massacro di Gaza presso un’università del Canada, gli organizzatori mi hanno offerto un distintivo che recava la scritta “I ♥ GAZA.” Ho appuntato il distintivo sul mio zainetto e mi sono diretto all’aeroporto. Quando stavo in coda per salire in aereo, un passeggero dietro di me mi sussurrò “Mi piace il suo distintivo.” Eh sì, ho pensato, i tempi stanno proprio cambiando. Un paio di ore più tardi chiedevo un bicchiere d’acqua all’assistente di volo. Porgendomi il bicchiere si chinava verso di me e anche lui mi sussurrava “Mi piace il suo distintivo.” Eh sì, ho pensato, qui sta succedendo veramente qualcosa!

 

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