Traduzione dall’inglese all’italiano a cura di  Cecilia Dalla Negra e Luisa Morgantini

Diario di viaggio
di Yonatan Shapira

26 settembre 2010

La rotta è 120. Altre 200 miglia al porto di Cipro, e il pilota automatico della nave, che si suppone mantenga la rotta, si rifiuta di lavorare e mi lascia con l’indeterminato compito di mantenere la rotta su un mare turbolento, senza alcuna avvisaglia di terra da un orizzonte all’altro. Ancora un’altra mezzora, poi mio fratello Itamar, anche lui “refusnik”, mi sostituirà al comando, e dopo di lui Bruce e Glen prenderanno il suo posto. Se tutto procederà secondo i piani, raggiungeremo Famagosta nel primo pomeriggio di Sabato, e lì prenderemmo a bordo il resto dei passeggeri che, insieme a noi, per quanto strano possa sembrare, tenteranno di rompere l’assedio di Gaza.  Già da alcune settimane stiamo percorrendo la nostra strada verso Est, dall’Isola greca dove la barca è stata acquistata nel nord del Peloponneso, attraverso il canale di Corinto e le Isole Cicladi. Abbiamo già sperimentato ogni tipo di imprevisto da manuale: il motore sopra di noi che si è surriscaldato ed è morto, il timone che si è staccato improvvisamente, l’ancora che è rimasta impigliata, la vela che si è strappata, una tempesta e molto altro. Quello che ancora non abbiamo sperimentato invece è l’unicità, la meraviglia e il braccio forte dell’Esercito israeliano – l’esercito più morale del mondo, per coloro che hanno dimenticato.   Le navi da guerra non ci hanno ancora intercettati, non hanno ancora scagliato i commando su di noi dagli elicotteri e i cecchini non ci hanno ancora sparato. Queste sfide sono ancora davanti a noi, e le sperimenteremo insieme con gli altri passeggeri, tra cui alcuni sopravvissuti all’Olocausto, padri di famiglia in lutto (1) ed altri.  Il vento del sudovest sta diventando un po’ troppo forte, e la bussola oscilla tra i 120 e i 130 gradi. Dò un’occhiata al Gps e vedo che sto virando leggermente a sinistra. Beh, se il pilota automatico stesse facendo il suo lavoro, potrei semplicemente sedermi, guardare le onde e scrivere indisturbato.  Sette anni fa abbiamo pubblicato quello che i media chiamarono la “lettera pilota”. In quella dichiarazione annunciavamo all’intera nazione (si, abbiamo indossato le uniformi di volo e siamo stati intervistati da giornali e televisioni) che avremmo rifiutato di prendere parte ai crimini dell’Occupazione.  Dieci giorni dopo siamo stati convocati per un colloquio dal Comandante dell’Air Force. Dopo avermi delineato la sua teoria razziale (nella forma di una scala di valori di sangue, dagli israeliani in alto ai palestinesi, in basso), mi ha informato che ero congedato e non ero più un pilota dell’Air Force israeliana. Molte cose sono successe da allora. Molte navi hanno attraversato il Canale di Corinto, molte manifestazioni e arresti: ma soprattutto, molti bambini sono stati uccisi a Gaza.  Mi ricordo di Arik, un caro amico d’infanzia e un pilota di combattimento, che ha esitato qualche tempo sull’opportunità di firmare la lettera e rifiutare (di servire l’Esercito, ndt), ma alla fine mi confessò sinceramente che non voleva rinunciare al suo meraviglioso giocattolo, l’F-16. All’inizio si vergognava ancora un po’ per la scelta rassicurante che aveva fatto. Segretamente mi sosteneva e ammetteva che non aveva abbastanza coraggio. Sono passati sette anni, e oggi è ancora un pilota da combattimento in riserva, capo delle formazioni di attacco nella sua ala di combattimento, e sulle sue mani o sulle sue ali c’è il sangue di decine di palestinesi e libanesi innocenti, forse anche di più.  Ogni traccia di moralità che aveva conservato adesso è sparita, e oggi Arik potrebbe bombardare qualunque posto, in ogni momento, dovunque gli dicano di farlo. È il fascino della routine: alla fine ogni cosa può sembrarti normale. Anche un uomo ordinario, gentile ed educato, un buon padre per i suoi figli, può essere trascinato in un’uccisione di massa. Io non ero un pilota di guerra. Pilotavo i Blackhawks, utilizzati principalmente per missioni di salvataggio e per il trasporto di personale. Una delle argomentazioni che abbiamo sentito da quelli che sono in disaccordo con noi – e specialmente persone della mia parte, tre di quelle che hanno firmato la lettera – era che a nessuno di noi è stato chiesto personalmente di sparare, di bombardare o di assassinare nessuno. Noi abbiamo risposto a questa argomentazione dicendo che non è necessario commettere un omicidio per poter dire che è vietato commetterlo, e che è facile dire “ho solo tenuto il comando mentre un altro pilota lanciava il missile”.  Sono passati gli anni, e siamo arrivati agli eventi della Flottiglia e dell’assalto omicida  a bordo della Mavi Marmara, dimostrandoci che la connessione tra la mia parte e l’assassinio di civili è nei fatti molto più diretta di quanto pensassimo. Sono stati l’unità nella quale prestavo servizio e gli elicotteri che ho pilotato a condurre l’operazione pirata, calando il Commando sul ponte. È molto probabile che a volare, quella notte, siano stati miei allievi, o piloti insieme a me in passato.  Che cosa pensa, che cosa prova un pilota di Blackhawk quando si tiene in equilibrio sopra un’imbarcazione civile lontano dalle acque territoriali israeliane? Cos’è che pensa quando ordina ai suoi soldati di scendere su una barca che sta trasportando aiuti umanitari, sacchi di cemento e dozzine di giornalisti, nel bel mezzo della notte?  Fondamentalmente sta pensando a come mantenere un equilibrio stabile e non perdere il contatto visivo con gli altri elicotteri e con l’imbarcazione sotto di lui. Ascolta e impartisce ordini attraverso il sistema di comunicazione interno fra gli elicotteri, e forse prova anche un po’ di paura. Dopotutto, volare sopra un’imbarcazione in mare aperto in piena notte non è una semplice operazione di trasporto aereo.  E forse, il pilota, pensa anche qualche altra cosa. Forse ha una certa opinione politica o forse no, ma quel che è certo è a cosa sicuramente non sta pensando…un pilota che sta volando sopra un’imbarcazione civile in mare aperto, di sicuro non sta pensando che qualcuna tra le persone sotto di lui sia intenzionata a sparargli o sia in possesso di armi da fuoco, altrimenti non correrebbe il rischio. È assolutamente contrario alle norme dell’Esercito, a meno che non si stia conducendo una necessaria operazione di soccorso. Questo significa che loro sapevano, al di là di ogni dubbio, che nessuno a bordo della Mavi Marmara era armato. Il pilota sapeva che quelli erano civili, che stavano protestando espressamente identificandosi con il milione e mezzo di civili sotto assedio a Gaza; ma apparentemente non ha pensato al fatto che, quando pirati armati e camuffati ti saltano addosso nel mezzo della notte, è legittimo tentare di resistere al dirottamento (anche se è tatticamente e strategicamente inutile).  A tutti quelli che nutrono dubbi sulla questione, raccomando caldamente di provare a immaginare di trovarsi in mare aperto nel cuore della notte, quando improvvisamente enormi elicotteri neri compaiono sopra di voi con un rumore assordante e da questi, come ladri mascherati vestiti di nero, scendono teppisti armati mentre navi da guerra si accostano alla tua barca da tutte le direzioni, e inizino a sparare, tirare granate chissà cos’altro che non riesci a identificare a causa del rumore, e del buio.  Il sole ha appena lasciato l’orizzonte. Sono le 18.52.  Sto cercando di pensare a cosa ci succederà nei prossimi giorni, vicino alla costa di Gaza, dentro o fuori dalle acque territoriali. Sembra che non faccia differenza quando sei al di sopra la legge e puoi sparare, assaltare, saccheggiare, occupare e umiliare senza che nessuno ti imponga un limite.  Siamo nella piccola barca dei “Jews for Justice for Palestinians”.  Non abbiamo intenzione di combattere con l’Esercito, anche se ne avremmo tutto il diritto. Abbiamo scelto la nonviolenza come tattica e strategia, ma non intendiamo arrenderci facilmente fin quando non ammanetteranno e arresteranno il sopravvissuto all’Olocausto, il padre in lutto e fino all’ultimo passeggero sulla nave.  I colori del tramonto stanno diventando sempre più scuri e profondi. Oro, rosa e arancio con strisce di luce blu tra le nubi ardenti. Adesso Bruce, al timone, sta mantenendo la rotta a 120 con i due motori insieme, con la randa e la vela che aggiungono un altro nodo e mezzo alla velocità. Itamar si sta esercitando alla chitarra, e Glen sta preparando la cena. Sembra che gli effluvi di cipolla fritta non riempiano solo la barca (rendendo l’aria un po’ difficile da respirare), ma l’intero Mar Mediterraneo. Pare anche che salterò la cena.  Il Capo di Stato Maggiore Ashkenazi ha detto alla Commissione d’inchiesta israeliana che ha indagato sugli eventi della Flottiglia, che la sua conclusione dei fatti è “più cecchini”…si…si, ecco la sua conclusione per gli assassinii della Mavi Marmara: più cecchini! La mia, di conclusione, è stata un po’ differente da quella di una persona che in futuro, prevedibilmente, sarà portato davanti ad un tribunale internazionale per crimini di guerra. La mia conclusione è stata che dovevo unirmi alla prossima barca diretta a Gaza, e cosa poteva essere più adatto di un’organizzazione ebraica che dall’Europa sta lottando per i diritti umani e la pace?  Ho contattato gli organizzatori ed ho offerto loro il mio contributo come skipper. Ho imparato a farlo in una scuola, e adesso ho l’opportunità di mettere in pratica gli insegnamenti non solo per mio piacere personale, ma per portare avanti un’azione simbolica e importante con un’organizzazione che ha deciso di investire una discreta somma di denaro, ore di discussione, pianificazione e preparazione per un solo obiettivo: rompere l’assedio di Gaza.  Ieri pomeriggio sull’isola di Kastelorizo, durante gli ultimi momenti di preparazione della barca, abbiamo aperto la vela in un grande spazio vicino al molo ed abbiamo scritto in arabo ed ebraico:  “Yahud min ajl al-‘adala lil-filastiniyin” – il nome dell’organizzazione: Jewish for Justice for the Palestinians – Ebrei per la giustizia per i Palestinesi. Il corso di arabo che ho seguito durante l’estate mi ha aiutato a non confondermi scrivendo le lettere curve e Itamar, che stava sopra di me, con la luce del molo mi ha guidato su e giù, verso destra e sinistra, in modo che la scritta fosse visibile e chiara quando avremmo alzato la vela alla nostra partenza da Cipro, e quando ci saremmo avvicinati a Gaza.  È seguita un’altra lunga notte di guardia al timone. Il mare era relativamente calmo, ma un moderato vento di coda ha insistito per portare i gas di scarico dei motori direttamente nella cabina di guida, cosa che ha rafforzato la mia convinzione di saltare la cena, e mi ha costretto a fare i conti con un leggero senso di nausea: guardando l’orizzonte, mantenendo una rotta di 125 e soprattutto cantando ancora e ancora la canzone migliore per uno che si trova su una barca in mezzo al mare: “Se il buio è sceso e non ho stelle…la luce è una rosa di fuoco sull’albero della mia barca, mamma…”(2).  Alle 6.12 del mattino, quando ci siamo avvicinati alla costa di Cipro con i primi raggi di sole – Itamar era al timone, Bruce e Glen stavano dormendo ed io stavo a prua, cercando di respirare aria pulita nonostante il  fumo dei motori – improvvisamente una barca di media grandezza ci ha superati.  Lo ha fatto passandoci piuttosto vicino, e ci è parso strano. Ci ha girato attorno da nord muovendosi verso ovest, ed era simile ad una piccola nave da guerra. Forse eravamo già un po’ paranoici o forse no, e forse era semplicemente una barca della guardia costiera turca. In ogni caso, abbiamo iniziato a pensare e a figurarci come sarebbe stato il nostro incontro con la marina dell’Esercito israeliano, una volta arrivati alla costa di Gaza. Che cosa avrebbe fatto ognuno di noi, in che modo ci saremmo presi cura dei passeggeri, come avremmo reagito se la motovedetta Dabur avesse attaccato la nostra piccola imbarcazione, come negli incidenti precedenti.  Allora abbiamo deciso di scrivere una dichiarazione in ebraico e in inglese, che leggeremo alla radio sul canale delle emergenze nautiche, quando elementi della Marina o dell’Air Force si avvicineranno a noi. Ecco quello che abbiamo scritto:  “Siamo una nave dell’organizzazione ebraica europea Jews for Justice for Palestinians.   Siamo sulla nostra strada per Gaza. Non siamo armati e crediamo nella nonviolenza, e siamo determinati a procedere verso il porto di Gaza. Voi state imponendo un assedio illegale su Gaza. Queste sono acque internazionali e noi non riconosciamo la vostra autorità qui. Ci sono attivisti di tutte le età a bordo di questa nave. Tra di noi ci sono sopravvissuti all’Olocausto, genitori in lutto ed israeliani che rifiutano di conciliare se stessi con l’Occupazione illegale dei Territori Palestinesi. Siamo attivisti pacifisti e disarmati, che credono nella nonviolenza, e siamo determinati di andare avanti per la nostra strada verso il porto di Gaza. Facciamo appello a voi, ufficiali e soldati dell’Esercito Israeliano, perché rifiutiate di obbedire agli ordini illegali dei vostri superiori. Per vostra informazione, l’assedio di Gaza è illegale secondo il diritto internazionale, e quindi state correndo il rischio di essere portati davanti ad una corte internazionale di giustizia per crimini di guerra. L’assedio e l’occupazione sono disumani e contrari alla moralità universale ed ai valori dell’ebraismo.

Usate le vostre coscienze!

Non dite “Stavo solo obbedendo agli ordini”!

Ricordate la storia dolorosa del nostro popolo!Rifiutate di dare forza all’assedio!

Rifiutate l’Occupazione!  

1. In questo contesto, “in lutto” è da intedersi riferito ad un israeliano che ha perso una persona cara come risultato della Guerra o del terrorismo nel contesto del conflitto israelo-palestinese.  

2. Dal testo di una canzone israeliana, “Zemer ahava la-yam” – “Canzone d’amore al mare”

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