Gaza Freedom March
La cronaca.

Siamo partiti per il Cairo in circa 140 italiani, tra il 25 e il 28 dicembre, con il programma di unirci a oltre mille altri pacifisti e raggiungere da lì il valico di Rafah, entrare in Gaza e marciare tutti insieme per la libertà di quel Territorio. Cittadini del mondo concentrati sulla pace e concentrati per la pace nel punto del mondo che dalla pace appare essere il più lontano.

A Gaza non ci siamo andati, perché il governo egiziano non lo ha permesso. Non lo ha permesso perché, è stato detto dal ministero degli Esteri a una delegazione del comitato organizzatore, nella lista delle associazioni promotrici ve n'erano di inaffidabili, sospettate di intenzioni ed eventualmente di atti anti-egiziani. Un'altra ragione non detta ma presumibile sta nell'ipotesi di probabili contestazioni, al valico e dentro Gaza, del “muro” sotterraneo – paratie metalliche – in fase di installazione e destinato a chiudere i tunnel. Altre ipotesi, il timore di una strumentalizzazione della marcia a proprio favore da parte di Hamas, con cui l'Egitto interloquisce in termini di mediatore internazionalmente riconosciuto rispetto a Fatah; l'interferenza casuale e a distanza del braccio di ferro in atto in quei giorni tra il governo e George Galloway per l'ingresso in Gaza del convoglio di aiuti guidato da quest'ultimo.

Oltre 1300 pacifisti si sono così trovati a dover organizzare una permanenza al Cairo che fosse politicamente significativa. Presi non del tutto alla sprovvista, in verità, perché della difficoltà di arrivare a Gaza si sapeva: si sapeva per esperienza, perché mai l'ingresso a Gaza è stato qualcosa di scontato e nemmeno di semplice; e lo si sapeva in termini più precisi, verosimilmente intransigenti, in questo caso specifico; sempre più intransigenti con l'avvicinarsi della data stabilita, il 31-12, data augurale scelta in coincidenza con l'anniversario dell'operazione “Piombo fuso” scatenata un anno fa lungo questo stesso periodo, a cavallo tra 2008 e 2009. Fino alla comunicazione, pochissimi giorni prima della partenza, che il governo avrebbe impedito non solo l'attraversamento del valico, ma anche la partenza dal Cairo. E così sarebbe stato: pullman riservati, unità in viaggio a piccoli gruppi su taxi o pullman di linea, tutti sarebbero stati senza eccezione intercettati e respinti al Cairo già a poca distanza dalla capitale

Ci siamo domandati a posteriori, effettivamente, come fosse stato possibile immaginare un consenso all'accesso contemporaneo di oltre mille persone nell'area dove più precari e fragili sono gli equilibri politici sulla lama di rasoio tra pace e guerra.

A quel punto l'obiettivo comunemente dichiarato da tutti i gruppi presenti – logisticamente distribuiti in punti diversi del Cairo – è stato subito quello di non interrompere le pressioni perché la partenza e l'ingresso a Gaza venissero permessi ma contemporaneamente organizzare, in caso di persistenza del diniego, la marcia alternativa: sempre il 31, ma al Cairo.

Noi italiani eravamo organizzati in due gruppi, uno con riferimento a Forum Palestina, l'altro ad Action for Peace (Assopace, Un ponte per, Fiom, Time for peace Genova, Rete Artisti contro le guerre e molti altri a titolo individuale). Il gruppo Action for Peace si è riunito il pomeriggio stesso dell'arrivo (lunedì 28), in un albergo presso l'aereoporto. Una riunione che doveva essere di conoscenza reciproca e di preparazione al viaggio notturno verso Rafah, alle trattative per il passaggio, alle incognite successive. La conoscenza è stata fatta, ma le informazioni che abbiamo ricevuto da Luisa Morgantini, venuta ad accoglierci, hanno riguardato invece lo stato attuale delle mobilitazioni al Cairo e la traccia approntata per le manifestazioni dei giorni successivi. La pressione politica per ottenere l'autorizzazione al viaggio non sarebbe stata interrotta, nel frattempo erano state previste – a suo rinforzo – le occupazioni delle rispettive ambasciate da parte dei gruppi nazionali, mentre uno sciopero della fame era già in atto da parte di un gruppo raccolto, presso la sede dell'ONU, intorno a Hedy Epstein, una donna ebrea americana di 85 anni, sfuggita adolescente, attraverso l'espatrio clandestino, alla sorte che avrebbe colpito i suoi genitori: la cattura, la deportazione e la morte nei lager tedeschi. Il gruppo in sciopero era peraltro costretto dalla polizia a frequenti spostamenti di sede. Quella stessa polizia che si stava manifestando allertata e oppositiva anche, per esempio, nell'avere fisicamente impedito il giorno prima, allontanando i pacifisti, la deposizione sul Nilo di tante candele galleggianti quante le vittime di “Piombo fuso” un anno fa.

L'occupazione dell'ambasciata di Francia è stata probabilmente la più tenace, l'unica mantenuta per tutta la durata della permanenza dei gruppi pacifisti al Cairo, nella forma di un presidio diurno e notturno all'entrata dell'edificio e lungo tutto il marciapiede antistante. Martedì 29 al mattino noi italiani ci siamo radunati analogamente davanti all'ambasciata italiana per una manifestazione immediatamente circoscritta dalla polizia, così come costantemente transennata e chiusa da un doppio cordone di polizia era la protesta francese. Il presidio è stato mantenuto alcune ore e poi si è sciolto spontaneamente in modo differenziato: il gruppo di Forum Palestina è rimasto più a lungo, raccolto in un'improvvisata assemblea, mente il gruppo Action for Peace si è allontanato dopo un paio d'ore diviso in piccoli gruppi come la polizia imponeva, passando davanti all'ambasciata americana dove pure era in atto un presidio a cui la polizia non ha consentito di avvicinarci. Ci si è ritrovati poco lontano in un altro punto di manifestazione e di pressione. Più precisamente sulla scalinata di accesso alla sede del sindacato dei giornalisti, dove in quel momento si trovava il gruppo di pacifisti, prevalentemente americani, in sciopero della fame con Hedy Epstein. Il gruppo è cresciuto col passare delle ore, un gruppo di un paio di centinaia di persone – molti palestinesi tra di loro – avvicendantesi fino a notte con cartelli, striscioni, bandiere, t-shirts  per Gaza, in cui si mescolavano persone e slogan rivolti al governo egiziano e alle questioni della democrazia interne all'Egitto. E questo in particolare a partire dalle 18, quando è cominciata la manifestazione contro l'arrivo del Primo ministro israeliano Netanyahou. Tutto ciò, inutile dirlo, recintato da transenne e poliziotti.

Era ormai la sera del 29. Il calendario diceva che raggiungere Gaza e marciare là il 31 era ancora possibile. Il pessimismo della ragione ci spingeva a concentrarci su una manifestazione il 31 al Cairo perché fosse la migliore possibile per unità, ampiezza, visibilità, contenimento dello scontro.

Ma proprio nel tardo pomeriggio di quel martedì 29 Luisa Morgantini ci convoca (su un marciapiede adiacente la zona della manifestazione in corso, tra pochi poliziotti in borghese che c'erano ma fingevano di non esserci) e ci dice che Code Pink – associazione americana prima promotrice, sin dall'estate, della Gaza Freedom March – ha ottenuto direttamente dalla moglie del presidente Mubarak, presidente a sua volta del Red Crescent egiziano, l'autorizzazione alla partenza per Gaza, l'indomani mattina, di due pullman, cento persone e gli “aiuti umanitari” portati da tutti noi, da tutto il mondo. Code Pink aveva accettato, fermo restando il rifiuto, da parte del comitato organizzatore, di considerare quel viaggio e quel gruppo come definitivamente sostitutivi del viaggio a Gaza di tutti i pacifisti presenti al Cairo, che restava l'obiettivo da perseguire. Tutti i gruppi nazionali sarebbero stati inclusi in quel primo viaggio, perlomeno con partecipazioni simboliche di ciascuno di essi. Per l'Italia, due persone. La discussione è stretta e serrata, non c'è possibilità di replica né di discussione, si pretende il “sì” o il “no” secco. Luisa ci dice che Forum Palestina ha dato un nome, lei sente personalmente di poter acconsentire e ha dato un'indicazione provvisoria in quel senso. C'è rabbia diffusa tra tutti noi, sentiamo l'obbligo assurdo di dover tradurre ragioni contrastanti in un'adesione o in un rifiuto secchi; malgrado qualcuno rimanga fortemente contrario, ritenendo che ridurre il significato politico della marcia a una piccola missione umanitaria sotto l’egida del Red Crescent egiziano sia inaccettabile, alla fine il marciapiede, sfilacciato, dice di sì. La persona viene scelta: Martina Pignatti, di Un Ponte per. La partenza è per la mattina dopo, all'alba.

Il 30 la notizia per il nostro risveglio è che alla partenza dei pullman rappresentanti del Comitato di Direzione si sono presentati autocriticando la decisione, da loro stessi presa, di accettare la partenza di una delegazione; lasciando però tutti i partenti liberi di decidere autonomamente cosa fare. Questa comunicazione lacera il gruppo in modo drammatico; soprattutto i palestinesi che ne fanno parte vivono contrasti interiori tradotti in contrasti molto aspri tra di loro. La delegata italiana decide subito di non partire. Alla fine i due pullman partono. Giungeranno a Rafah dopo avere raccolto altre persone a El 'Arish, per un totale di 92, ed entreranno a Gaza giovedì 31, dopo 18 ore di bus.

Per chi resta al Cairo la giornata, cominciata male, prosegue in modo sospeso. Noi italiani – e probabilmente è così per tutti – ci assestiamo nel centro della città in modo da essere inclusi nel giro di contatti e informazioni; girovaghiamo in modo abbastanza inconcludente tra una riunione di fortuna e l'altra. Si cerca di costruire la marcia del giorno dopo; la Marcia. Si deve decidere dove e come: marcia, o presidio, o marcia e presidio... E se presidio, fino a quando; si dice che alcuni gruppi sono per il presidio a oltranza, per notti e giorni. Ci si chiede in vista di quale obiettivo, essendo in genere, un presidio o un'occupazione, finalizzati a un obiettivo preciso. Si apprende anche che l'indomani alle 9,30 una delegazione internazionale dei pacifisti sarà ricevuta al ministero degli Esteri. La richiesta sarà, ancora e sempre, quella di poter partire tutti per Gaza. Essendo però ormai prevista, per quello stesso giorno, la manifestazione nel Cairo la richiesta ulteriore sarà quella di ottenere l'autorizzazione a svolgerla senza interventi duramente repressivi da parte della polizia. L'orario precedentemente stabilito per la manifestazione – le 10 – appare evidentemente incongruo, troppo addosso all'incontro al ministero, e il gruppo Action for Peace delega chi parteciperà la sera alla riunione finale del comitato organizzatore a porre il problema e concordare con gli altri gruppi il posticipo di un'ora. Esprime anche preferenza per un breve corteo (difficile immaginarlo lungo) e presidio di alcune ore, non a oltranza, in assenza di un obiettivo da rivendicare.

Questo stesso gruppo rientra nel proprio lontano albergo e si riunisce dopo cena per mettere a punto il programma dell'indomani. La delegata rientra dalla riunione del comitato organizzatore e porta le decisioni definitive: la manifestazione consisterà in un'irruzione nella strada e blocco del traffico nella piazza principale del Cairo e inizierà alle 10, come già previsto. La richiesta di posticipo pare essersi persa nelle comunicazioni preliminari e in sostanza è stata ignorata.

Il nostro gruppo dissente pressoché unanimemente dalla scelta fatta (il blocco del traffico) che ritiene ad altissimo effetto disturbante su ampio raggio, provocatrice di reazioni immediate e presumibilmente violente da parte della polizia, e determinante uno slittamento di significato da atto di protesta visibile e pacifico a ricerca di scontro come rivalsa al divieto al viaggio. Interpretiamo inoltre il mantenimento dell'orario originario, stante il disinteresse per la contraddizione segnalata, come un'ulteriore e intenzionale provocazione. Riviviamo sostanzialmente la situazione della sera precedente: allora l'invio di una delegazione ristretta a Gaza, decisa e comunicata senza discussione e senza alternative, esattamente come, ventiquattr'ore dopo, le modalità della marcia. La scelta sta tra il non partecipare all'azione (facendone franare il primo obiettivo, la sua unità e compattezza, e lasciando in ciascuno di noi il senso frustrante dell'insuccesso anche sull'obiettivo minimo) e il partecipare a un evento vissuto come fortemente criticabile e rischioso. Dopo molte esitazioni individuali il gruppo decide di partecipare in modo molto ampio: solo quattro dicono che non verranno, ma l'indomani ci ritroveremo tutti insieme!

Per la marcia lasciamo l'albergo a piccoli gruppi, diretti in taxi a diverse fasulle mete turistiche comunicate ai poliziotti che controllano stabilmente l'accesso all'albergo e registrano sistematicamente le nostre mete, che si esca tutti in pullman o che si esca in gruppi più piccoli.

La marcia scatta con puntualità svizzera, in prima fila donne di Code Pink forse sfuggite all'attenzione delle molte pattuglie di polizia che stanno presidiando la piazza. Il gruppo si accresce rapidissimamente, coagulando intorno a sé centinaia di noi che individualmente o a gruppetti accorriamo da ogni angolo della piazza dove stavamo girovagando e cercando di eludere i poliziotti in borghese che a loro volta cercavano di intercettarci e allontanarci cortesemente. Per qualche minuto, tra cori di clacson e fischi di vigili – che a onor del vero bloccano tutte le macchine e lasciano spazio a noi – procediamo a semicerchio nella piazza. Poi c'è il momento duro, la polizia si è fatta intorno, molti si sono seduti sull'asfalto e vengono sollevati di peso, tutti siamo spintonati, anche rudemente,  fino a essere radunati nel giro di pochissimi minuti su un largo marciapiede e poi transennati, secondo la prassi, e circondati di poliziotti. Un giovane uomo e una giovane donna sono feriti in modo apparentemente leggero; altri subiscono il contraccolpo emotivo del breve scontro. In quell'area dove ci ritroviamo fitti, ma non soffocati, stendiamo striscioni e rimaniamo a cantare, gridare slogan e sventolare cartelli per sei-sette ore. Intenzioni di tirare mezzanotte per festeggiare lì capodanno o di sciogliersi e poi tornare a quell'ora vengono dissuase dal tam-tam su interventi anche duri, nel caso, della polizia. Verso le 13 cambia la linea tenuta dalla polizia fino a quel momento: i manifestanti che lasciano il presidio non potranno più rientrare. Questo determina un lento sfoltimento dei ranghi per bisogni fisiologici incomprimibili. Un altro tam-tam a metà pomeriggio (“fra un po' chi resta verrà arrestato”) chissà se ha fondamento (funzionari di polizia stanno effettivamente attraversando da un po' il presidio contandoci ostentatamente), ma spinge in modo morbido a ulteriori uscite e alla conclusione del presidio.

Venerdì 1 l'ultima iniziativa collettiva concordata tra i gruppi – ma a partecipazione molto inferiore a quella del giorno precedente – è stata una protesta protratta per circa tre ore sotto l'ambasciata israeliana. Nel frattempo il territorio extramurario dell'ambasciata francese continuava a essere occupato da manifestanti francesi e internazionali, solidali con i primi, decisi a protrarre l'azione fino ai limiti imposti dal biglietto aereo di ritorno. A un sit-in serale, che ha concluso collettivamente e simbolicamente quella settimana pacifista costruita in progress, la solita grande lontananza non ci ha consentito di partecipare.

Sabato 2 ci si è ritrovati in molti all'albergo, verso le 18, in un incontro con le altre delegazioni del coordinamento europeo (ECCP): belgi, francesi, e precisamente: Associazione France Palestine Solidarité, Campagna civile internazionale per la protezione del popolo palestinese (entrambi francesi), Associazione belgo-palestinese. Lavoriamo insieme da anni. Anche in questo incontro abbiamo trovato parecchi punti di convergenza: 1. la Marcia ha avuto il grande risultato di riportare all'attenzione pubblica e della politica la questione dell'assedio di Gaza e la condizione inumana in cui costringe la popolazione palestinese, duramente colpita dall'attacco “Piombo fuso” dello scorso anno; 2. tutto il processo ha sofferto di scarsa partecipazione, mancanza di democrazia nella presa di decisioni (che ha anche comportato dissensi e divisioni, come nel caso della controversa decisione sull'invio di una delegazione ristretta con gli aiuti); 3. la Dichiarazione del Cairo, di cui abbiamo preso conoscenza proprio quella sera, nata da un gruppo, dovrà essere ampiamente discussa nelle diverse sedi nazionali e poi a livello europeo, prima di apporre eventuali firme; 4. Come ECCP non siamo stati in grado di fare un lavoro più efficace (la mancanza di connessione internet , la grande distanza degli alberghi vi ha contribuito) ma è stato importante presentarsi così; 5. E' necessario un  rafforzamento dell'ECCP e per questo si è deciso di mettere all'ordine del giorno la GFM, e come darle continuità e sviluppo, nell'incontro del Coordinamento già fissato a Bruxelles per il 5 e 6 febbraio prossimi.

La sera di domenica 3 l'ultimo momento politico del nostro gruppo, che si è raccolto ad ascoltare e interpellare due reduci dal controverso viaggio a Gaza, un ragazzo danese (di origine  iraniana) Poya, con la sua ragazza Helena, rientrati il giorno precedente. Il loro racconto ha fatto riflettere, perché ha rivelato sostanzialmente come le resistenze e le cautele dell'Egitto nel “mandare” a Gaza questo gruppo internazionale filtrato siano state speculari a quelle di Hamas nel “prendere in consegna” il gruppo. Diverse tra loro, le resistenze dell'Egitto e quelle di Hamas, e diversamente spiegabili; discutibili entrambe e non necessariamente condannabili tout court, ma certamente sia lo scenario egiziano che quello di Gaza rivelano un controllo stretto degli spazi fisici e socio-politici (dall'articolo di Poya Pakzad, precedentemente inviato, l'uso fatto dal Governo di Gaza di questa delegazione risulta evidente).

Considerazioni politiche.

La responsabilità politica e morale del governo egiziano. Il divieto di passare il confine di Gaza imposto dagli egiziani, sommato all’interdizione di qualsiasi raggruppamento di più di sei persone, la cancellazione di conferenze stampa e meeting unitari dei delegati internazionali, uno stretto controllo delle delegazioni attraverso i funzionari dei servizi di sicurezza dello Stato e della polizia turistica, costituiscono solo una parte della responsabilità politica e morale del Governo egiziano. Anche la dichiarazione del Ministro degli Affari Esteri Egiziano, che ha descritto la grande maggioranza degli internazionali che partecipavano alla Gaza Freedom March come hooligans e provocatori, non come dei veri gruppi di solidarietà, dipingendo tutti noi come collaboratori al servizio di forze “fanatiche” e “distruttrici”, va considerato come un tentativo di delegittimazione della società civile internazionale presente al Cairo, usato dal governo egiziano per nascondere la propria responsabilità politica e morale riguardo all’assedio di Gaza.

I limiti organizzativi. I principali emergono sostanzialmente nelle conclusioni della riunione del 2-1 (ECCP) sopra riportate. La Gaza Freedom March non è stata fatta; al suo posto, un mosaico di iniziative di varia intensità e visibilità al Cairo. 1300 persone si sono concentrate da mille angoli del mondo con un obiettivo che era stato dichiarato anticipatamente problematico, ma che sul posto e nell'analisi attuale delle situazioni è apparso molto più aleatorio di come era stato prospettato; e mai le 1300 persone sono state viste tutte insieme, tutte attive. Questo intreccio di elementi critici di processo e, conseguentemente, di esito rappresenta il dato tangibile a impatto immediato – e frustrante – per tutti noi che avevamo investito politicamente e affettivamente in quell'iniziativa. La cronaca di quei giorni dice però di più, quanto a punti critici. Dice come si sia peccato di eccesso di credito a Code Pink nella fase organizzativa, non solo rispetto al dilemma primario: si va o non si va a Gaza; ma anche rispetto alla conduzione del percorso alternativo costruito al Cairo. Si è lasciato, probabilmente in modo inconsapevole, un eccesso di delega, simmetricamente dato per dovuto dall'altra parte, che ha portato alla spiacevole situazione intorno alla partenza per Gaza di una non prevista delegazione “umanitaria”. Dice anche come non si sia riusciti a compensare la dispersione logistica e la relativa imprevedibilità degli eventi con una compattezza funzionale del comitato organizzatore tale da evitare i problemi descritti per la preparazione – emotiva, non solo organizzativa – della manifestazione del 31 al Cairo. Non sono stati predisposti, da parte dei gruppi partecipanti, accorgimenti che salvaguardassero a monte dal rischio di una deriva verso decisioni repentine in tempi impossibili. Probabilmente, ancora più a monte, l'errore è stato quello di non avere in mente ciò che al Cairo qualcuno di noi definiva “il piano B”; vale a dire una traccia già abbastanza consolidata delle iniziative possibili e delle loro modalità di attuazione, delle trattative praticabili con gli egiziani, delle forme di coordinamento necessarie tra i gruppi; in sintesi, di tutto ciò che avrebbe dovuto riempire del miglior contenuto politico possibile quei giorni stante l'altissima probabilità dell'insuccesso del “piano A”, la Marcia in Gaza. Anche il Forum di 2 giorni su Gaza, previsto come parte essenziale del piano B, è comunque stato proibito dal Governo egiziano, come anche la conferenza stampa del 27 dicembre.

Collateralmente a questi elementi di debolezza strutturale del progetto va considerato un problema rilevato da molti e sommariamente definibile come problema di comunicazione. Era difficile comunicare tra i gruppi, tra quelli di diversa nazionalità e tra le metà o le varie parti di quelli della stessa. Certo il Cairo non aiuta, è grandissimo e la rete informatica è intenzionalmente esile, i supporti in loco inaspettatamente scarsi; ma, altrettanto certo, molta improvvisazione e, ancora, impreparazione mentale a quanto stavamo affrontando balzava agli occhi quotidianamente. Così come debole e tardiva ci è apparsa la comunicazione – la nostra comunicazione, tanto per cominciare – di ciò che facevamo, di ciò che accadeva, ai mezzi di informazione italiani. Quando invece avremmo potuto evitare imprecisione e accrescere valore rispetto al faticoso lavoro che pure stavamo facendo.

Un lavoro di cui va presentata la parte positiva a chiusura di questo resoconto. Il silenzio ovattato su Gaza è stato rotto, la polvere che lentamente scende su tutto e tutto copre, anche i dolori più laceranti, è stata soffiata via. Con inesattezze neppure troppo gravi i media hanno parlato di noi, e di Gaza. Intorno a ogni pacifista partito/a per quel tentativo decine di persone a lui/lei legate hanno rivolto a Gaza attenzione, apprensione, interesse. Ma soprattutto ognuno di noi, in giro con pettorine e cartelli, ha visto egiziani sorridere con riconoscenza alzando il pollice o sussurrando “welcome” al volo da un'auto; ha sentito suonare anonimi clacson di approvazione al di là di una barriera di poliziotti; addirittura qualcuno è stato timidamente fermato per strada, una stretta di mano e “grazie per essere qui a sostenere la Palestina”. La politica ha momenti alti e vibranti. La caduta di un muro di Berlino è esaltante per chi la vive; ma senza un infinita serie di atti precedenti, nei quali si è vissuta magari la delusione per obiettivi parziali non conseguiti o la rabbia per contraddizioni che vanificavano sforzi, nessun muro di Berlino sarebbe caduto; né cadrà in futuro. La riconoscenza degli egiziani è riconoscimento di valore a quell'azione contraddittoria e difettosa compiuta al Cairo da (forse) 1300 cittadini del mondo tesi all'impresa di portare la pace e la libertà a Gaza e a tutta la Palestina.

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