Una Rosa di Plastica da Parte della First Lady
La Gaza Freedom March e il mio viaggio a Gaza
di Poya Pakzad
Traduzione: Cecilia Dalla Negra

La Gaza Freedom March

Nell’anniversario del massacro di “Piombo Fuso”, 1362 delegati internazionali, provenienti da oltre 40 paesi, si erano proposti di rompere l’assedio a Gaza con una marcia nonviolenta contro il blocco in corso, che costringe un milione e mezzo di abitanti – già oppressi – in una condizione di miseria umiliante, e alla mercé dei loro inesorabili paesi vicini: uno di questi è Israele, il primo responsabile di questa situazione. L’altro è l’Egitto. Il punto di partenza scelto dai partecipanti alla marcia era il valico di Rafah. Avrebbe dovuto essere la storica “Gaza Freedom March”, accompagnata dal premio Nobel irlandese Mairead Corrigan-Maguire, dal senatore e attivista filippino Walden Bello, dall’attivista palestinese americano Ali Abunimah, dalla scrittrice Alice Walker, da un’anziana donna di 85 anni sopravvissuta all’Olocausto, Heidy Epstein, e da centinaia tra politici, scrittori, artisti e semplici cittadini interessati a partecipare da tutte le parti del mondo.

 

Ben poco sapevamo della decisione del governo Egiziano di vietare il nostro viaggio. Gli organizzatori erano stati in contatto con le autorità egiziane a partire dal settembre del 2009, precisando chiaramente quali fossero le nostre intenzioni e specificando le nostre richieste attentamente. Il governo Egiziano ha “rifiutato di accordare il permesso” di entrare a Gaza attraverso il valico di Rafah, e ha sospeso ogni diritto di assemblea in molti luoghi della città. I nostri pullman sono stati bloccati alle uscite del Cairo. I dimostranti che sono riusciti a prenderli regolarmente sono stati fermati a metà strada e posti agli “arresti domiciliari” nelle loro stanze d’albergo a Al-Arish, o riportati indietro al Cairo attraverso una “caccia all’attivista” per “ragioni di sicurezza” ingaggiata dalla polizia egiziana. In seguito in ogni assemblea si sono infiltrati agenti dei servizi segreti; ogni manifestazione – fiaccolate o piccole proteste – è stata fermata, contenuta o dispersa dalla polizia.

 

Capitolazione o capitalizzazione

Sconcertati e frustrati abbiamo deciso di presidiare le nostre ambasciate. È stato avviato uno sciopero della fame dalla sopravvissuta all’Olocausto Hedy Epstein. In assetto di guerra i carri armati con cannoni ad acqua delle Unità Speciali egiziane hanno attaccato i nostri assembramenti. I nostri vigili e coraggiosi tre giorni di “assedio” sono stati guidati dalla delegazione francese, bene organizzata, di fronte alla loro ambasciata. Dopo una corsa all’ufficio delle Nazioni Unite, di fronte al World Trade Center, e animate discussioni con i funzionari al Cairo, il governo ha ceduto. Alcuni hanno voluto dire che gli organizzatori della Marcia sono capitolati. Il compromesso (o “la tipica soluzione all’egiziana” per dirla con Uri Avnery) è stato raggiunto con la mediazione della moglie di Mubarak, Suzanne Mubarak.

 

Dal gruppo dei 1362 partecipanti, compresi 300 francesi del movimento EuroPalestine, un centinaio di persone sono state autorizzate ad entrare a Gaza. Code Pink (il principale organizzatore della Freedom March) è stato d’accordo con la cosiddetta “generosa offerta”, ed ha permesso agli altri paesi di scegliere i propri rappresentanti. È salito il panico quando ad ogni paese sono stati dati pochi minuti per scegliere i propri delegati: il movimento si è diviso, con molte persone frustrate e arrabbiate sia per l’offerta che per la decisione di accettarla, presa senza consultazioni. All’ultimo minuto, io sono stato nominato tra i delegati autorizzati ad entrare a Gaza.

Alle 8.00 del 30 dicembre la delegazione – formata anche da Ali Abunimah, Amira Hass e Walden Bello – aspettava sul pullman nei pressi di piazza Tahrir, pronta a partire per Gaza. Come ha detto Walden Bello, era “troppo bello per essere vero”. Il movimento, diviso, adesso era formato da chi era pronto a salire sul bus e chi protestava contro i delegati, perché stavano partendo senza gli altri 1262 manifestanti. Una “ingenua” e “sbagliata” convinzione era che restare al Cairo avrebbe rappresentato una forma di pressione contro il dittatore per lasciare che più persone potessero entrare a Gaza. Una dichiarazione propagandistica del Ministero degli Esteri è apparsa sulla stampa quella mattina, descrivendo quei 100 delegati come gli unici “elementi buoni” in mezzo al resto dei manifestanti, che costituivano una minaccia. La stessa dichiarazione che ha convinto anche Haidar Eid e Omar Barghouti – gli organizzatori palestinesi della Freedom March – a boicottare la Marcia, perché “causa di divisioni” – (a proposito: è una riprova straordinaria della premonizione di Norman Finkelstein, che si è ritirato mesi fa dichiarando che il “contesto politico” della Marcia fosse esso stesso “discordante”). Fra i membri di rilievo della delegazione, solo Amira Hass è rimasta a bordo dell’autobus, anche quando Abunimah parlava al telefono con gli organizzatori palestinesi, sostenendo la totale stupidità di lasciare che una dichiarazione egiziana decidesse per tutta la missione.

La leadership è crollata, e solo a questo punto ha deciso che la delegazione non avrebbe più rappresentato la Gaza Freedom March. Le persone a bordo del pullman sarebbero andate individualmente. Questo è stato motivo di grande preoccupazione per me. In un primo momento ero felice di essere libero dal cosiddetto “contesto politico”, ma nello stesso tempo avevamo perso il nostro potere numerico. La mia decisione di andare comunque era divenuta egoistica, volendo capitalizzare una decisione precipitosa presa dagli organizzatori. Non c’erano garanzie che il governo egiziano avrebbe consentito l’ingresso a tutti. Quando la gente ha iniziato a scendere dal pullman, ho lavorato sodo per convincere gli altri a seguirci, mentre venivo chiamato “traditore” e “venduto”. Alla fine tutti e tre i rappresentanti danesi hanno deciso di seguirci per dimostrare la solidarietà del popolo danese alla gente di Gaza, di Gerusalemme Est, della Cisgiordania e ai rifugiati palestinesi.

 

Il 31 dicembre i dimostranti rimasti al Cairo hanno incessantemente organizzato manifestazioni per attirare l’attenzione dei media internazionali. Sicuramente, con le manifestazioni degli internazionali - compresi i cittadini israeliani al confine di Eretz - la missione è riuscita a mostrare che il mondo non ha dimenticato le atrocità dello scorso anno. Tuttavia, a causa della propaganda egiziana sulla “generosa offerta” già in azione, la polizia del Cairo ha brutalmente maltrattato numerosi manifestanti in diversi luoghi. Il regime autoritario ha mostrato la sua complicità, anche grazie ad una diffusa disinformazione.

 

Dentro Gaza

Sedere accanto ad Amira Hass durante il nostro viaggio verso Gaza è stato un gran sollievo per i miei timori iniziali. Ha parlato con la sua usuale eleganza, e mi sono sentito onorato di essere in un convoglio che al suo interno aveva una giornalista dalla quale ho imparato molto leggendo regolarmente “Ha’aretz”. Parlare con lei mi ha fatto ricordare la ragione per la quale prima di tutto avevo deciso di partire: rompere l’assedio!

 

Sulla strada per attraversare il valico di Rafah siamo stati fermati dalla Croce Rossa egiziana. Giovani volontari egiziani sono saliti sul pullman con rose e cioccolatini. Era un regalo della first Lady: la cioccolata era amara e le rose di pura plastica.

Quando finalmente siamo arrivati, completamente esausti e affamati dopo molte ore di viaggio, siamo stati accolti dai funzionari di Hamas e dal ministro dell’Educazione, che ha dato il benvenuto a tutti noi, compresi tre rabbini di Naturei Karta, spiegando che questo conflitto non ha niente a che vedere con la religione.

Apparentemente eravamo “ospiti d’onore” dal momento che siamo stati sistemati nell’albergo più bello nel quale io sia mai stato nella mia vita. L’hotel a cinque stelle “Commodore”, in Gaza city, con vista sul mar Mediterraneo. Non è quello che ti aspetti di vedere dopo aver letto articoli su articoli sulle sofferenze inflitte alla società civile. La contraddizione tra gli edifici bombardati e questo hotel mi metteva a disagio: non ero venuto per fare il turista. La nostra visita è stata dirottata. Ad Amira Hass non è stato concesso di far visita ai suoi amici di Gaza, e anche agli altri delegati è stato impedito di muoversi senza il permesso delle guardie del corpo di Hamas. La ragione era la sicurezza, a causa di “cattivi elementi” presenti a Gaza.

 

Giorno 1

Ci è stato immediatamente detto che la marcia sarebbe stata condotta da Hamas. Il giorno seguente molti hanno deciso di non partecipare, restando a guardare ai lati della manifestazione. Ancora una volta ero costretto a prendere una decisione difficile. Volevamo manifestare con la società civile, ma eravamo sorpresi dal fatto che si fossero fatte vedere solo 200-600 persone. C’erano soltanto uomini – la maggior parte tra i 15 e i 40 anni. Senza pensarci troppo, ho partecipato alla manifestazione. È stata pacifica, senza slogan militanti e sono stato intervistato da alcuni che si sono dichiarati giornalisti, ma senza tesserino stampa (compresa la televisione nella mia lingua originaria, il Farsi).  


In fondo alla manifestazione, un autobus pieno di donne ci seguiva. Le internazionali hanno negoziato a lungo con Hamas perché le lasciasse seguire il corteo, e alla fine è stato loro permesso. Gli abbiamo dato lo striscione di Code Pink che recitava: “Le donne dicono Gaza libera”. È stato bello. Ho provato a convincere le persone che erano rimaste da una parte ad unirsi a noi. Le mie argomentazioni erano che, se il nostro stesso movimento era composto da comunisti, liberali, conservatori e molto altro, perché mai avremmo dovuto essere ipocriti sul seguire Hamas con un denominatore comune così ristretto, che ci ha portati qui tutti insieme: rompere l’assedio. Per me, qualsiasi altra cosa a quel punto era ormai estranea alla nostra missione.

 

Dopo la manifestazione, il nostro serrato piano di marcia si è tramutato in una sorta di “tour della devastazione”. Siamo saliti sul pullman con una guida di Hamas che ci ha portati in giro per la città, dove le bombe fabbricate negli Stati Uniti e le granate sono state lanciate persino contro la Scuola Americana. È stata una visione di completa devastazione. Non è davvero necessaria alcuna spiegazione, persino l’odore era orribile. Ad ogni modo, il tour è stata una farsa completa. Siamo stati autorizzati soltanto a scendere dal bus e scattare qualche foto, e non abbiamo incontrato nessuno con cui parlare. Le guide erano molto ignoranti a proposito dei fatti che cercavano anche di esasperare, e alle volte abbiamo finito per sottovalutarli. Ad esempio, sostenevano che in “18mila” fossero rimasti senza casa dopo il massacro, al contrario di quanto sostiene il report di Human Rights, che ha contato 50mila senza tetto dopo un intenso lavoro sul campo.

La giornata si è conclusa con una fiaccolata in commemorazione delle 1400 vittime, e un piccolo concerto hip-hop alla “Gallery”, per festeggiare l’arrivo del nuovo anno. Io ero così stanco e deluso per la manipolazione della nostra presenza e delle preziose 48 ore di tempo che ci erano state date, che sono tornato a casa, nel nostro confortevolissimo hotel.  

Giorno 2

Lamentandoci molto con Hamas per la situazione, alla fine hanno lasciato che qualcuno uscisse a proprio rischio e pericolo. Alcuni sono andati in visita alle famiglie e dagli amici, e altri hanno intrapreso una nuova audace missione per vedere i tunnel scavati verso l’Egitto. Un gruppo è andato all’ospedale di Shifa, e sulle imbarcazioni per vedere le navi israeliane. Il nostro gruppo si è recato presso il campo profughi della famiglia di Sammone, che ha perso 19 componenti compresi tre bambini. È stata un’esperienza che mi turberà per il resto della vita. Ovunque e in gran numero, bellissimi bambini sorridenti si avvicinavano per avere un contatto con noi. Li ho fermati, ho parlato e ho giocato con loro, e non avrei mai voluto lasciarli andare via. Non hanno assolutamente niente, eppure al nostro arrivo ci hanno accolti con un sorriso e invitato a entrare in casa. Non riuscivo a trattenere le lacrime mentre un padre ci raccontava della perdita di suo figlio e di altri membri della famiglia in modo così sentito e controllato. Neanche una persona ci ha chiesto soldi o ha detto di avere disperatamente bisogno di qualcosa. Hanno voluto che fotografassimo e filmassimo la loro miseria per poterla raccontare. Io ho sentito tutta l’insufficienza della nostra missione, al punto che mi sono sentito colpevole dei privilegi di cui godo nel mio stato adottivo, la Danimarca. Lasciarli è stato devastante.

Il nostro umore gioioso per aver incontrato persone sulla nostra strada è stato rimpiazzato dal silenzio in un orfanotrofio. È stata la nostra tappa successiva. Abbiamo pranzato con i bambini, abbiamo giocato a basket e ci siamo raccontati delle storie. Il personale ci ha mostrato un breve video girato in memoria di un bambino morto durante la guerra. Suo fratello era lì, e guardava il filmato con noi. È stato uno spettacolo orribile e macabro. Ci venivano mostrate tutte quelle immagini piene di sangue, e i bambini stavano a guardare senza che un solo ciglio tremasse. Si sono abituati a questi terribili fatti della vita che per noi sono tanto duri da vedere. Ancora una volta, trattenere le lacrime per me è stato impossibile.

 

All’improvviso, dopo un’ora all’orfanotrofio, Hamas ci ha chiamati sul bus. Siamo dovuti partire all’istante perché la squadra di calcio di Al Jazeera (non l’emittente televisiva) ci stava aspettando per una partita amichevole. Li abbiamo raggiunti, ed era pieno zeppo di giornalisti e di funzionari di Hamas che volevano scattarsi foto con noi. La propaganda governativa è ugualmente rivoltante in tutte le società. Abbiamo passato tre ore a giocare a calcio con quei ragazzi, un’ora all’orfanotrofio e tre a farci vedere mentre giocavamo a calcio nello stadio, accanto ai funzionari di Hamas. Alle ragazze non era permesso giocare.

 

Giorno 3

L’ultimo giorno alcuni hanno deciso di restare a Gaza anche se le autorità egiziane avevano dato il permesso solo per una visita di 48 ore. Hamas non ci ha lasciati rimanere, sostenendo che fosse troppo rischioso. I rabbini sono stati gli unici cui è stato permesso di rimanere fino al tramonto, perché era Sabbath. Alcune persone sono rimaste ugualmente, ma sono state fermate e costrette a salire sull’autobus. 

Abbiamo rotto l’assedio per poco, soltanto per poterlo fare ancora il più presto possibile!

 

Poya Pakzad
 



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