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15 novembre 2010

Morte a Gaza: Crimini o Atti di Guerra?
di Chantal Meloni
Ricercatrice di diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano

Gaza, 15 novembre 2010, Nena News – Il report settimanale sulla protezione dei civili redatto da OCHA, l’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari sul territorio palestinese occupato, è un bollettino di morte .

I numeri sono  impressionanti. Nella settimana tra il 3 e il 10 Novembre  2010, ad esempio, 23 civili palestinesi sono stati feriti dalle forze armate israeliane, di cui la maggior parte durante manifestazioni di protesta a Gerusalemme Est. Due militari israeliani sono rimasti feriti nello stesso periodo. Il numero totale di palestinesi – civili non prendenti parte alle ostilità -  feriti da parte dell’esercito israeliano dall’inizio dell’anno ammonta a 1051 (il 40 % in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), di cui quasi la metà in relazione a scontri  avvenuti durante manifestazioni a Gerusalemme Est. Da notare è che tra questi feriti circa un quarto è rappresentato da minori (237 dall’inizio dell’anno). Nella sola ultima settima 19 minori – tra i 10 e 15 anni – sono stati feriti da proiettili rivestiti di gomma sparati dai soldati israeliani durante gli scontri a Gerusalemme.

Ma è in particolare la lettura della parte del report relativa alla Striscia di Gaza che dà le dimensioni del bollettino di morte: dall’inizio dell’anno 56 palestinesi sono stati uccisi a Gaza dalle forze israeliane, più di un terzo dei quali (22, secondo le stime di OCHA) civili non prendenti parte alle ostilità. Dei 222 feriti ben 196 sarebbero civili non coinvolti nel conflitto, sempre secondo le stime dell’agenzia ONU.

La maggior parte di tali incidenti ha luogo nella cosiddetta “zona cuscinetto”, improprio termine che indica quella porzione di terra lungo tutto il confine nord-orientale della Striscia ove Israele ha imposto una sorta di “terra di nessuno” dalle dimensioni mai ufficialmente chiarite. Quel che è certo è che si estende ben oltre i 300 metri menzionati nei volantini di avvertimento distribuiti occasionalmente dall’esercito israeliano: l’OCHA considera che le restrizioni di accesso si estendano fino a 1500 metri dal confine, una porzione di terra che rappresenta il 17% del territorio della Striscia ed oltre 1/3 delle terre coltivabili .

Nella  buffer zone si spara a vista, e talvolta senza avvertimento, non importa se si tratta di agricoltori che cercano di raccogliere qualche ortaggio nei loro campi ormai impossibili da coltivare; di disoccupati che coi loro carretti  vanno a raccattare pezzi di macerie e resti di metallo da riutilizzare per opere di edilizia improvvisata (una delle attività che rende qualche soldo sul mercato nero di Gaza, data la cronica mancanza di cemento e altri materiali da costruzione); di giovani, donne, attivisti internazionali e persino bambini che protestano contro l’imposizione della buffer zone e conseguente sottrazione di terre.

Da notare è anche che a differenza di quanto avviene a Gerusalemme e in Cisgiordania, ove alle manifestazioni si sparano – normalmente – lacrimogeni e proiettili rivestiti di gomma, qui a Gaza  – anche contro manifestanti armati della sola bandiera  – si spara con “live ammunitions”, proiettili veri  insomma.

In certi casi casi le uccisioni a Gaza sarebbero “mirate” (e giustificate a parere delle autorità israeliane) all’eliminazione di appartenenti a gruppi armati palestinesi. Ad esempio il 3 novembre l’esercito israeliano ha ucciso un uomo sospettato di appartenere ad un gruppo armato palestinese attaccandolo con un ordigno esplosivo da un aereo mentre guidava la sua auto nel mezzo di Gaza city. Una donna che si trovava nelle vicinanze è rimasta ferita nel corso dell’attacco.

Sulle legittimità di tali omicidi mirati, i c.d. “targeted killings”, si discute in diritto internazionale da anni; tale pratica è infatti ormai in auge non più solo nel contesto del conflitto israelo-palestinese ma si è allargata a tutta la amorfa guerra al terrorismo che si combatte da parte degli Stati Uniti e i suoi alleati in Afghanistan, Pakistan, Iraq e paesi limitrofi, nonchè da parte della Russia in particolare contro il terrorismo ceceno.

Le problematiche giuridiche relative a tale pratica sono ben riflesse nel rapporto presentato lo scorso giugno allo Human Rights Council dal professor Philip Alston, nella sua qualità di Special Rapporteur nominato dall’ONU “on extrajudicial, summary or arbitrary executions”, che mette in luce come in assenza di stretti requisiti i targeted killings siano illegali e possano costituire crimini di guerra1. In particolare, in base alle regole di diritto umanitario internazionale, nel contesto di un conflitto armato (di carattere internazionale e non) il ricorso agli omicidi mirati  è legale solo nei confronti di un “combattente” o di un civile nel momento in cui prende parte direttamente al conflitto. L’eliminazione fisica deve inoltre essere militarmente necessaria e l’uso della forza deve essere proporzionato “così che ogni vantaggio militare atteso sia considerato alla luce del danno atteso ai civili nelle  vicinanze” e “tutto il possibile deve essere fatto per evitare errori e minimizzare i danni ai civili”.

Al di fuori di un contesto di  conflitto armato , il regime di protezione internazionale dei diritti umani fondamentali – ed in particolare del diritto alla vita – comporta che i targeted killings, intesi come l’uccisione intenzionale, premedita e deliberata di un “criminale” (ivi compreso un “sospetto terrorista” o “membro di un gruppo armato”) da parte delle forze dell’ordine, non possa mai essere legittima, se non in risposta ad un immediato pericolo che renda il ricorso alla forza letale necessario in ordine a salvare vite umane.

Il punto è che, sebbene l’uso della forza  nei conflitti amati internazionali possa offrire in alcune situazioni una giustificazione per il ricorso alla pratica dei targeted killings, la legittimità nel caso concreto dipende dalle specifiche circostanze e da chi è il soggetto di cui si vuole l’eliminazione fisica. Particolarmente problematica è la situazione in cui contrapposto ad un esercito regolare si trova un gruppo armato amorfo,  il che rende difficile individuare chi siano i civili “che partecipano direttamente alle ostilità”.

È in ogni caso un principio riconosciuto in diritto umanitario internazionale che il tipo e la quantità di forza utilizzata in una operazione militare devono essere limitate a ciò che è in concreto necessario per raggiungere un legittimo obiettivo militare nelle circostanze del caso . Come affermato dal report di Alston “specialmente in un contesto di  uccisioni mirate di civili che prendono direttamente parte alle ostilità, e dato che il diritto umanitario internazionale non stabilisce un illimitato diritto di uccidere, l’approccio migliore per uno Stato è quello di minimizzare l’uso della forza letale per quanto permesso dalle circostanze”.

Il punto è che – detto in parole semplici – in base alle regole di diritto internazionale ed ai principi generali di diritto penale uccidere qualcuno anziché procedere alla sua cattura o al suo arresto è illegale in tutti quei casi in cui il ricorso alla forza letale non era assolutamente necessario per proteggere altre vite e non vi fossero altri mezzi a disposizione per neutralizzare il pericolo.

In una situazione come quella palestinese, e di Gaza in particolare, su cui Israele mantiene l’effettivo controllo, come dimostrato tra l’altro dalle continue incursioni dei carri amati israeliani proprio nella “zona cuscinetto”, procedere alla cattura piuttosto che all’uccisione di combattenti nemici sarebbe nella maggior parte dei casi non solo possibile ma anche doveroso. Ancora il rapporto di Alston sottolinea come misure non letali sono specialmente appropriate quando uno Stato ha il controllo sull’area dove è condotta l’operazione militare,  quando le forze armate operano contro determinati individui in situazioni comparabili a quelle di polizia  (peacetime policing)” .

Occorre chiarire che diverso è il caso del ricorso alla forza in situazioni di immediato pericolo (anche in assenza di scontro a fuoco). Vi sono ovviamente casi limite, di difficile valutazione. Ad esempio il 27 ottobre 2010 un uomo sarebbe stato ucciso nella striscia di  Gaza da un colpo di mortaio israeliano mentre insieme ad altri uomini armati cercava di installare un esplosivo a Beit Hanoun, vicino al confine nord tra Gaza ed Israele. Ipotizzando che le circostanze così come riportate dalle autorità israeliane siano corrette, e che quindi vi fosse un immediato pericolo per la vita dei soldati al confine, in ipotesi come queste il ricorso alla forza, anche letale, potrebbe essere giustificato in base ai principi di diritto bellico e di diritto penale. Come potrebbe essere legalmente giustificata una risposta immediata e proporzionata contro coloro che lanciano razzi o colpi di mortaio dal nord della striscia di Gaza verso il sud di Israele, compreso contro le postazioni militari al confine.

Troppo spesso tuttavia tale imminente pericolo ed il requisito della proporzionalità appaiono del tutto assenti nelle operazioni militari condotte dall’esercito israeliano. Lasciando da parte l’operazione ‘Piombo Fuso’ del dicembre 2008-gennaio 2009, che merita un capitolo a parte, non si giustifica in base alle leggi di guerra il fuoco che colpisce in modo indiscriminato nella buffer zone civili disarmati in assenza di ogni ogni necessità e proporzionalità. Come non si giustifica di regola il ricorso alla forza letale per eliminare presunti appartenenti a gruppi armati palestinesi al di fuori di qualsiasi confronto a fuoco; senza contare la perdita di innocenti vite di civili uccisi per errore o considerati fatali danni collaterali delle operazioni militari israeliane. Basti ricordare due “incidenti” avvenuti nel mese di luglio di quest’anno: il 12 luglio una giovane madre di 5 bambini -  Nema Abu Said – è stata uccisa nella sua casa, ed altri 3 membri della sua famiglia feriti, dalle flechette esplose dall’ordigno in un’operazione – per stessa ammissione israeliana – rivolta verso il target sbagliato;  il 21 luglio a Beit Hanoun contestualmente all’uccisione di due giovani uomini appartenenti a forze armate  palestinesi sono stati gravemente feriti, sempre dalle flechette, 8 civili tra cui 5 bambini e una donna .

Purtroppo la situazione è tale anche perchè manca il giudice che attualmente possa (o voglia) decidere su cosa sia legittimo e cosa invece criminale in tale contesto. È eloquente in proposito il caso dell’ “assassinio mirato” (le virgolette son a questo punto d’obbligo) di Salah Shehadeh (leader di Hamas, ucciso dall’aviazione israeliana con una bomba da una tonnellata sganciata sull’edificio ove viveva, nella notte del 22 luglio 2002), ove hanno perso la vita 14 civili e oltre 150 sono rimasti feriti e che nonostante sia stato portato immediatamente dalle vittime davanti ai giudici israeliani (e poi anche a quelli spagnoli), tra un rimando, una sospensione e un cambio di giudice, aspetta da oltre 8 anni di vedere l’inizio delle  indagini.

NOTE

1 “Protections of Civilians weekly reports” di OCHA sono consultabili su http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104

2 Si veda il report di OCHA e World Food Program “The Humanitarian Impact of Israeli-Imposed Restrictions on Access to Land and Sea in the Gaza Strip, Agosto 2010: http://www.ochaopt.org/Reports.aspx?id=14

3 A/HRC/14/24/Add.6, par. 76, che a sua volta fa riferimento alle Linee-guida della ICRC sulla interpretazione del concetto di “civile che prende direttamente parte alle ostilità”.

4 Ibid.

5 Si vedano i periodici report settimanali del Palestinian Centre for Human Rights: http://www.pchrgaza.org.

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