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26 febbraio 2010

Shirin Ebadi: «Il regime è violento, ha paura dell'altro Iran»
di Gabriel Bertinetto

Al telefono da Ginevra, dove partecipa a un convegno della «Federazione internazionale per i diritti umani» (Fidh) Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, paladina dei diritti umani in Iran.


Signora Ebadi, da tempo lei gira il mondo patrocinando la causa dei diritti umani e civili violati in Iran. Ha l’impressione che ggi i popoli ed i governi comprendano meglio quanto accade nel suo Paese?
«Credo di sì. Precedentemente quando si parlava di Iran, l’immagine prevalente era quella di uomini dalla lunga barba e donne velate vestite di nero. Ma le proteste pacifiche seguite al voto ed ai brogli hanno aiutato la comunità internazionale a crearsi un’idea diversa degli iraniani, come di cittadini amanti della democrazia».



La Repubblica islamica ha una lunga storia di violazioni dei diritti umani. La situazione attuale è, a suo giudizio, solo la continuazione di un male endemico, oppure presenta caratteri originali?
«Credo che stiamo assistendo ad un peggioramento. Ciò che però mi rallegra è che oggi in Iran ci sono molti più difensori dei diritti umani rispetto a prima. In passato di fronte alle violazioni commesse dal governo erano pochi a reagire ed a manifestare. Pochi osavano anche solo sollevare l’argomento. Ma ora cresce il numero di coloro che protestano e reclamano il rispetto dei più elementari diritti che ci vengono negati».



Questo indurimento nella repressione deriva dal desiderio che il regime ha di mostrare che non teme la contestazione, oppure al contrario è figlia della paura che si diffonde tra i dirigenti di fronte alla protesta popolare?
«Un regime che goda di un solido appoggio popolare non perpetrerebbe mai atti di violenza contro i cittadini. Dunque ritengo che il comportamento del regime dipenda dalla paura. E da cosa altro potrebbe scaturire la decisione di vietare alla gente di manifestare e di reprimere la libertà di associazione? Temono che i cittadini si riuniscano e agiscano assieme».



Neda Soltan, è diventata il simbolo della pacifica lotta degli iraniani per la libertà. Come spiega che così spesso in Iran le donne siano in prima linea, sia come vittime dell’oppressione che come protagoniste della resistenza?
«Lo trovo piuttosto normale. È logico che coloro che sono le prime a patire per la negazione dei diritti, siano poi anche all’avanguardia nella battaglia per ottenerne il rispetto».



Il giorno dell’Ashura alcuni militari si sono rifiutati di sparare sulla folla. Singoli episodi di pietà, o la punta emergente di una rivolta etica che scuote gli stessi apparati di sicurezza?
«Potrei dire in generale che molti esponenti del regime non condividono l’oltranzismo di Ahmadinejad. C’è chi valuta che osando troppo sul cammino della violenza si possa danneggiare il regime e provocarne la caduta. Molti sanno che se ciò avvenisse, sarebbero i primi a rimetterci. Ecco perché si oppongono ad esagerazioni ed estremismi».



Cosa distingue l’onda verde da precedenti mobilitazioni per la libertà e la giustizia? La dimensione numerica, la maggiore determinazione, la chiarezza degli obiettivi?
«Credo sia evidente una cosa. Coloro che partecipano alle dimostrazioni sono mossi dalla volontà di perseguire obiettivi molto chiari: democrazia politica e rispetto dei diritti umani. Ma c’è anche un’altra differenza tra questo movimento ed altri del passato, ed è che l’iniziativa appartiene alla società. Il movimento è diretto dal popolo, non da Mirhossein Mousavi o Mehdi Karroubi. I leader non sono alla testa dei cittadini, piuttosto ne accompagnano l’iniziativa. Questa è una importante novità».



La Repubblica islamica sta agonizzando?
«Posso solo dire che è molto indebolita. Ma da qui a dire che sia in agonia, ne passa. Non voglio spingermi così lontano. Penso che sia un dibattito prematuro. È troppo presto per emettere un verdetto così drastico».



Si vede però che molte figure preminenti del cosiddetto establishment prendono le distanze dal capo di Stato Ahmadinejad e dalla Guida suprema Khamanei. Non è il segno di un crescente isolamento dei vertici?
«Sì, è vero che il sistema sta perdendo l’appoggio popolare, e contemporaneamente pezzi sempre più grandi di società se ne distaccano. Le massime autorità hanno meno sostenitori, sono più sole».



Lo Shah fu rovesciato anche in nome dell’Islam. Che ruolo ha oggi il sentimento religioso nel contesto dello scontro sociale e politico in atto? Gioca a favore dell’onda libertaria o è strumento della repressione?
«Direi che il sentimento religioso oggi in Iran è un po’ attenuato anche a causa degli arbitri e delle violenze che sono stati commessi facendosi scudo della fede. Non voglio dire che la gente sia meno devota di prima, ed anzi le convinzioni musulmane rimangono salde. Ma credo che sempre di più si imponga la coscienza che lo Stato e la religione devono essere due sfere distinte e separate».



Prevale dunque nell’opposizione chi rifiuta le basi ideologiche stesse della Repubblica islamica rispetto a chi denuncia nell’autoritarismo dittatoriale il tradimento dei valori fondanti del khomeinismo?
«Posso solo dire che l’onda verde non è un movimento ideologizzato. È una grande iniziativa popolare a carattere democratico. Fra coloro che manifestano nelle strade, hanno spazio le opinioni più diverse».



La comunità internazionale sta agendo bene nei confronti dell’Iran?
«Sarebbe opportuna una maggiore diffusione di informazioni, anziché limitarsi al contenzioso sul programma nucleare. Occorrerebbe occuparsi di più dei diritti umani violati e delle speranze di cambiamento degli iraniani. Quello che chiedo poi alla comunità internazionale sono atti concreti per vietare certi tipi di transazioni commerciali. Bisognerebbe astenersi dal firmare contratti che consegnano ai dirigenti di Teheran gli strumenti per opprimere i loro concittadini. Mi riferisco in particolare agli accordi raggiunti con aziende come Nokia e Siemens che forniscono allo Stato iraniano la tecnologia per controllare, censurare, bloccare le comunicazioni via Internet e la telefonia mobile.



Dunque lei approva le sanzioni contro l’Iran?
«Dico sì a sanzioni che impediscano la vendita di strumenti d’oppressione, come le armi o i gas lacrimogeni».



Da quasi un anno lei non torna in patria. Cosa teme? La prigione, violenze fisiche? 
«Non ho paura. Sono i miei colleghi a Teheran che mi suggeriscono di non tornare. Dicono che la situazione è terribile e sarebbe estremamente difficile per me svolgere qualunque attività a casa, mentre all’estero posso fare molto di più per trasmettere i messaggi di denuncia e di proposta dei connazionali. In Iran mi sarebbe impedito parlare e comunicare. Ma non appena mi diranno che hanno bisogno di me, e posso essere più utile là di quanto non lo sia all’estero, non esiterei un momento a rientrare».


I suoi familiari hanno subito ritorsioni per causa sua da parte del potere. Come stanno adesso?
«Mio marito fu messo in prigione per alcuni giorni e poi rilasciato con il divieto però di espatriare. Mia sorella è stata arrestata e poi rimessa in libertà dopo tre settimane. Né l’uno né l’altra hanno mai svolto attività politiche o sociali di qualunque tipo. Il fermo fu loro motivato così: se non siete in grado di far cessare le sue attività a Shirin Ebadi, sarete voi a patirne gli effetti. Evidentemente si sono poi resi conto che quel ricatto non funzionava, ed io avrei continuato la mia attività. E li hanno lasciati andare».

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