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18/02/2009

“Non è il Kosovo che noi vogliamo”
di Nicola Sessa

Intervista ad Albin Kurti, leader fondatore del Movimento dell’Autodeterminazione del Kosovo Vetevendosje!

 

Oggi il Kosovo compie il suo primo anno di vita. È questo il Paese che il suo movimento voleva?
No. Non è il Kosovo che noi vogliamo perchè il sistema politico che lo governa non opera secondo la volontà del popolo. Siamo felici che molte altre nazioni ci abbiano accordato il loro riconoscimento, siamo già a 54, ma questo non basta per qualificarsi "Stato indipendente". Nessun passo avanti è stato fatto sul piano dell'integrità territoriale e della sovranità; inoltre l'economia è ferma, nessuno si preoccupa dei lavoratori: considerato che siamo il popolo "più giovane" d'Europa, il tasso di disoccupazione è spaventoso. Si pensa solo alle privatizzazioni, a quella dell'aeroporto, della centrale elettrica, della fabbrica di Trepca, delle poste e telecomunicazioni. Anche l'aria privatizzerebbero se solo avessero i mezzi per farlo...

Il problema più grosso e urgente sembra essere sempre il nord, però. Una delegazione parlamentare di Belgrado si è riunita a Zvecan proprio mentre festeggiate la vostra indipendenza. 
Il gesto del parlamento serbo dimostra solo che, anche senza Milosevic, Belgrado non è mai cambiata. Forse agli occhi di Bruxelles, si. Ma dal punto di vista di Pristina, la Serbia ha conservato lo stesso atteggiamento nei confronti degli albanesi del Kosovo. Boris Tadic persegue la stessa strada di Milosevic e Koustunica, ma lo fa solo in maniera più sofisticata, "più europea". Vogliono mettere le mani sul Kosovo a tutti i costi, nonostante la maggioranza della popolazione sia albanese, nonostante i crimini che essi hanno commesso nei nostri confronti. La situazione nel nord è assolutamente illegale. Oltre il fiume Ibar comandano le strutture parallele serbe... Ci sono molte persone che si sono macchiate dei più orrendi crimini tra il 1998 e il 1999: queste persone sono finanziate, sostenute e protette da Belgrado. Nove anni fa, nel 2000, undici albanesi furono uccisi e nel solo mese di febbraio 11.364 persone furono cacciate dalle loro case. Tutto questo sotto gli occhi del contingente francese Kfor. Prima di allora, gli albanesi erano maggioranza anche nel nord del Kosovo, adesso sono minoranza. Il progetto della Serbia è chiaro: costituire una nuova Repubblica Srpska. Mira a rendere il Kosovo simile alla Bosnia.

E perchè Pristina starebbe a guardare?
Per due ragioni. Prima di tutto a comandare è la comunità internazionale. Sono gli stranieri a decidere come mantenere la stabilità: le pedine in gioco, il popolo, non viene tenuto assolutamente in considerazione. Secondo, i nostri politici non sono capaci di esprimere una leadership forte e di imporre una propria volontà politica, un loro punto di vista. La comunità internazionale e la nostra classe politica hanno contratto un matrimonio di interessi. Unmik, Eulex, Nato hanno tollerato e tollerano sia la corruzione dei nostri politici sia le strutture parallele serbe. Così facendo ottengono obbedienza e sottomissione da parte dei governanti di Pristina e la stabilità e una pace apparente nel nord del paese. Eulex si è presentata definendo le sue attività come "Management crisis operation". Anche loro, come Unmik e Kfor sono venuti per "gestire" la crisi, non per porre fine ad essa. Quanti europei sono venuti a lavorare qui per qualche tempo e poi hanno costruito le loro belle ville nel sud della Francia!

Secondo l'ultimo rapporto della Nato l'80 percento del prodotto interno lordo deriverebbe da attività legate alla criminalità organizzata. Quale sbocco ha, allora, l'economia kosovara?
Il problema è sempre lo stesso: l'economia grigia fatta sotto forma di contrabbando e smerci di ogni tipo viene ampiamente tollerata dagli internazionali in cambio di stabilità. A loro non conviene creare allarmismi sociali. Ma la gente dovrebbe capire che queste forme di economia sono ingiuste e sbagliate. Tuttavia, io credo che il maggior gettito arrivi dalle rimesse della diaspora albanese, che ammontano a circa 300milioni di euro all'anno. Se gli albanesi che lavorano in Germania, Scandinavia, Gran Bretagna e Stati Uniti smettessero di inviare soldi per tre mesi, il Kosovo imploderebbe, si piegherebbe sulle sue gambe.

Il suo movimento ha sempre richiamato l'attenzione sulla necessità di avere una difesa militare adeguata per il Kosovo. Adesso che è nato il nuovo esercito sarà contento?
Quello che si sta formando non è un esercito, è una specie di gendarmeria costituita da 2500 persone con armi leggere e senza artiglieria. Abbiamo un numero di poliziotti cinque volte superiore... Lo si può chiamare esercito, questo? Ci hanno solo dato l'illusione di avere un esercito, un semplice effetto psicologico: 2500 persone non sono in grado di difendere neanche una città come Pristina, figuriamoci il Kosovo. Le due anomalie più grandi sono date dal fatto che si tratta di un corpo a numero chiuso, in cui non possono essere arruolate nuove persone e dal fatto che la cartena di comando vede al vertice non un nostro ministro, ma ancora la Nato.

Arriverà il momento in cui il suo movimento Vetevendosje! si trasformerà in partito politico? 
Forse quando la situazione si normalizzerà, cioè quando si potrà parlare del Kosovo come paese autosufficiente. Al momento noi vogliamo rimanere al di fuori del sistema politico, per presentare delle problematiche, far riflettere la gente e i politici.

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