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21 agosto 2010

La scommessa di Obama sul Medio Oriente
di Lucio Caracciolo

Adesso per Obama o la va o la spacca. O riesce a ottenere entro un anno da Netanyahu e da Abu Mazen un accordo di pace, o perde la faccia. E con essa, fra due anni, forse anche la Casa Bianca.

La decisione di convocare il primo ministro israeliano e il presidente dell'Autorità nazionale palestinese a Washington il 2 settembre, per avviare il negoziato che dovrebbe sfociare entro un anno nell'ormai mitica soluzione "due Stati per due popoli", è un atto di coraggio del leader americano. Il coraggio della disperazione. Perché le possibilità di successo appaiono molto modeste. Tutto, sul terreno, sembra cospirare contro la pace. Eppure il presidente ha deciso di giocare il jolly, spingendo israeliani e palestinesi a discutere dello status finale dei Territori occupati. Comprese le questioni apparentemente irresolubili, a cominciare da Gerusalemme. 
Della buona fede di Obama non merita dubitare. Così come della sua convinzione che il contenzioso israelo-palestinese sia il cuore di tutte le crisi mediorientali. Sicché risolverlo è priorità di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti. Solo disinnescando quella mina permanente, che alimenta il jihadismo e l'antimericanismo nel mondo islamico, si potrà stabilizzare il Medio Oriente e riaffermarvi il primato di Washington. Teorema forse troppo cartesiano, ma di cui questa Casa Bianca pare convinta. 

L'impegno di Obama per la pace in Terrasanta scaturisce quindi dalla necessità di proteggere vitali interessi americani. Il presidente e la sua squadra diplomatica non intendono limitarsi a incoraggiare il dialogo a due. Si considerano mediatori attivi, con il sostegno di una variopinta coalizione di "amici e alleati", arabi filoccidentali in testa. Una rivendicazione importante, perché, se intesa seriamente, implica che per sbloccare lo stallo fra le parti gli Usa avanzeranno proprie proposte di soluzione. Con il rischio di vedersele rigettare e di fungere quindi da capro espiatorio del fallimento prodotto dalle altrui intransigenze. Distruggendo la residua credibilità di cui ancora dispongono in una regione dove negli ultimi anni sono passati da un disastro (Iraq) all'altro (Afghanistan).

La scommessa di Obama non ha perciò nulla a che vedere con il "processo di Annapolis" allestito in extremis da Bush figlio e abortito dopo pochi mesi. In quel caso il mantra dei "due Stati" non intendeva spingere Gerusalemme a concessioni di fondo, ma a costruire una coalizione fra israeliani e arabi sunniti contro l'Iran. Oggi, oltre a sciogliere il nodo israelo - palestinese, si tratta semmai di prendere altro tempo nella partita persiana, evitando un attacco preventivo dello Stato ebraico contro Teheran, dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.

Il problema oggi non sta più nella volontà della leadership americana, ma nel logoramento complessivo della superpotenza e nella personale debolezza di Obama, il cui declinante prestigio interno ed esterno parrebbe inadeguato all'altezza della sfida. Per gli israeliani  -  e soprattutto per buona parte dell'opinione pubblica Usa, che continua a identificarsi con lo Stato ebraico  -  il presidente non è un mediatore equilibrato. Molti lo dipingono come un cripto-musulmano. 

Netanyahu poi non è solo il primo ministro di Israele, ma un attore della vita politica americana, da sempre schierato con i "falchi" repubblicani. Dunque un avversario interno di Obama. Ossia un amico di chi conta di mandarlo a casa nel 2012. Operazione cui Netanyahu darebbe volentieri il suo contributo. Mentre alla Casa Bianca brinderebbero se Netanyahu cadesse, o almeno accettasse di liquidare l'ala più oltranzista del suo governo (Lieberman) per formare una coalizione di "unità nazionale" allargata ai centristi di Tzipi Livni. 
Ma il vero punto critico dell'architettura che la Casa Bianca sta allestendo è l'inesistenza di un credibile interlocutore palestinese. Nessuno considera Abu Mazen il rappresentante di tutto il suo popolo, nemmeno di una sua maggioranza. Qualsiasi accordo da lui firmato non varrebbe la carta su cui è scritto. Se si vuole davvero la pace, prima o poi sarà inevitabile coinvolgere Hamas. In un modo o nell'altro, la frattura tra Cisgiordania e Gaza dovrà essere sanata. Almeno una parte dell'amministrazione americana ne sembra convinta  -  oltre, per quel che (non) contano, a diversi leader europei. Ma mettere insieme le diverse bande e mafie che scorrazzano per la Palestina anche grazie alle regalie europee e alle manipolazioni israeliane e americane, è forse più difficile che imporre la pace allo Stato ebraico e ai suoi vicini arabi.

Per creare la Palestina mancano dunque le condizioni. Non c'è territorio sufficiente, perché Gaza resta in mano a Hamas mentre in Cisgiordania avanzano i coloni israeliani, contro i quali Netanyahu non ha certo intenzione di scatenare la guerra civile. Non c'è unità politica, né tantomeno una leadership presentabile. Esiste un popolo palestinese, sofferente e largamente in diaspora, non una nazione. Mentre ci sono, nel mondo arabo e in quello musulmano (Iran in testa), potenze e milizie pronte a far deragliare qualsiasi convoglio muova verso la pace.

Né pare possibile un'operazione di mero illusionismo, ossia il battesimo di una pseudo-Palestina con uno pseudo-governo, priva di fatto degli attributi della sovranità, come (forse) Netanyahu sarebbe disposto ad accettare e (forse) Abu Mazen ad autoproclamare. Un pasticcio del genere non reggerebbe. E soprattutto non risolverebbe il problema di sicurezza nazionale che interessa Obama. Perché fra arabi e musulmani  -  non solo jihadisti  -  una Palestina finta non avrebbe la minima credibilità. Anzi, rischierebbe di produrre l'effetto opposto, delegittimando ulteriormente gli Stati Uniti e i loro alleati mediorientali e occidentali che si prestassero a tale mascherata. 

Parrà un paradosso, ma la vera forza di Obama in questa decisiva partita è di essersi tagliato tutti i ponti dietro le spalle. Il presidente degli Stati Uniti ha posto l'asticella talmente in alto che se la passerà sarà un trionfo. Altrimenti un disastro. Non solo personale. Se il negoziato abortirà, non si tornerà al precario equilibrio attuale. Nuove guerre in Medio Oriente sarebbero la probabile conseguenza della pace mancata. 

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