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07/01/2011

La banalità dell'occupazione
di Francesca Borri


"Una delle icone della nostra storia è il massacro del 1929, quando a Hebron furono uccisi sessantasette ebrei - e altri quattrocento, per la verità, furono protetti dai vicini arabi. Un giorno sono di pattuglia, e vedo questa vecchia venire giù dalle colline. Dei piccoli coloni cominciano a tirarle pietre. E afferro un bambino, allora: non più di dieci anni: gli dico Ma cosa fai?, lui mi risponde: Sai questa donna, nel 1929? Forse qualcosa, qui, è in cortocircuito".
Yehuda Shaul ha venticinque anni che ingannano. Densi di libri e intensi di vita, intrisi di libertà di pensiero e coraggio di iniziativa ma anche minimali, scolpiti diretti e decisi, anni bianchi su sfondo nero come le pagine delle testimonianze raccolte da Breaking the Silence, l'associazione di veterani della seconda Intifada che ha fondato dice, "per portare Hebron a Tel Aviv" - 'cause we were there, which is here". E però insieme, venticinque anni improvvisamente fragili e feriti mentre riaffiorano tutti, inavvertiti, in una ambiguità e come ferma al guado, lui che è comunque, ancora, riservista dell'esercito e che non parla mai dei palestinesi, l'unico agguato che il suo sguardo non sa sostenere: e ma intanto duella tenace con il cameriere, perché ha chiesto una spremuta di arance - e non vuole arrivi dagli insediamenti.

Dopo tre anni nei Territori, torni a casa dicendo: Questa è una battaglia per l'integrità psichica. Ma tra giovani israeliani, cosa si racconta del servizio militare? Davvero non immaginavi niente?
Sei a un checkpoint, e l'ordine è semplicemente fermare i palestinesi e rispedirli indietro. Ieri potevano passare oggi no. Punto. Rispedirli indietro tutti. Ma sai anche che si può aggirare il checkpoint da una strada secondaria. E quindi perché è proibito passare? Qualsiasi terrorista conosce l'altra strada. Semplicemente, non si passa perché non si passa. Punto. Se vuoi venire a esploderti, gira a destra e poi in fondo a sinistra: ma se non sei un terrorista, allunga di chilometri e ore per andare dove devi andare, o non andarci affatto, a noi non interessa - qui non si passa. Brillante, no? La verità è che i checkpoint sono pensati per tenere lontano da Israele non Hamas, ma l'occupazione. Il servizio militare è il nostro rito di passaggio. Per me che sono un ortodosso di origine statunitense - e quindi un outsider, uno cresciuto senza amici laici in un ambiente profondamente religioso, tutto coloni e insediamenti, mio padre che per lavorare si svegliava alle quattro del mattino ma ogni sera, fino alle otto, studiava la Torah - insomma: per me era l'accesso alla società. L'esercito è un pilastro della nostra identità. Diventi davvero israeliano attraverso il servizio militare. Non mi sono mai chiesto se volessi andare nei Territori: è automatico. Eppure al ritorno nessuno ne parla - è il rimosso di Israele.

Ma quale era il tuo rapporto con i palestinesi?
I palestinesi?



Abiti a Gerusalemme. A Gerusalemme è palestinese uno su tre.
Sì, cioè... Ovvio, preghi al Muro del Pianto e - la città vecchia, sì vedi... Vedi questi arabi, ma... Ma non è che vedi degli arabi, vedi un problema politico: non delle persone. La prima volta che ho incontrato dei palestinesi è stata Hebron.

"Incontrato". Eri appostato in una scuola con un lanciagranate. Nascosto su un tetto a colpire a caso contro una città: ma come poteva non essere un crimine di guerra? A cosa pensavi mentre sparavi?
L'ordine era semplicemente rispondere al fuoco. Cosa che presuppone identificare la sorgente del fuoco. Ma in pratica questo non accade mai. In genere è impossibile capire il fuoco da dove arriva. E per cui a cosa spari? A qualunque cosa vedi, qualunque luce. Trecentosessanta gradi. La prima volta pensai: Ma sono matti? Avevo Hebron davanti - un alveare di case e persone. Se sparo da qui, pensai, sdraio tutti. Una granata non è un proiettile: colpisce e esplode, uccide chiunque nel raggio di otto metri e ferisce chiunque nel raggio di sedici: e tra l'altro è un'arma molto imprecisa, se sei bravo colpisci il bersaglio la quinta volta. La verità è che spari e poi vedi - un po' più a sinistra, no, forse un po' più a destra - spari: e chi trovi trovi. La prima volta non ha senso. Ma che puoi fare?, è un ordine, e obbedisci: e speri di non prendere nessuno, premi il grilletto e lo rilasci più rapido che puoi - perché ogni minuto sono sessanta granate. Ma dopo una settimana è diventato il momento più eccitante della giornata. Non hai niente da fare, sei stanco di stare sigillato lì dentro: e poi è il tuo lavoro, vuoi solo sparare. Sei alla playstation sulla collina di una città. E non pensi niente, mentre hai la tua arma tra le mani, nell'esercito non pensi mai niente: ti limiti a fare quello che ti dicono di fare - come tutti gli altri, tra parentesi, intorno a te. Non pensi: è chiaro che non aveva senso. E infatti una volta andai dal comandante e gli dissi Guardi, è proprio uno spreco di denaro. Non è inutile? Non gli dissi che dei civili vivevano lì, bambini, gente del tutto estranea - d'altra parte questo era ovvio a tutti. Dissi solo - Costa una fortuna. Per cui consigliai di usare cecchini, invece che lanciagranate. Invece che tutte quelle munizioni. Così potevamo tirarli giù uno a uno.

"Non sapevamo mai cosa colpivamo. Ed era il solo modo per obbedire: non era una violazione, ma una esecuzione degli ordini". Ma quali sono le regole sull'uso delle armi? Non vi addestrano alle Convenzioni di Ginevra? E non esistono poi dei controlli interni?
Sono stato addestrato all'occupazione, non alla gentilezza. Le Convenzioni di Ginevra sono una piacevole lettura, ma la guerra è un'altra storia. Una volta è venuto un giurista, con il suo laptop di ultima generazione, il powerpoint... Impeccabile, ragazzo. Ma prima voglio vederti a un checkpoint insieme a me. Vieni: vieni all'inferno. Hebron ha vari livelli cosiddetti di 'sterilizzazione'. Ma quando chiusero ai palestinesi anche la strada principale, capimmo che la vera urgenza era difendere loro dai coloni, non il contrario. Capimmo che difendevamo gli aggressori. Quando i coloni attaccavano non potevamo intervenire, potevamo solo chiamare la polizia. E la polizia non arrivava mai. E per cui discutevamo, certo. Ogni giorno, dalle quattro alle cinque: cosa fare. I nostri valori, la nostra moralità. Ma poi esci per un pattugliamento - e improvviso: vedi questo oggetto metallico per strada. E non sai cosa sia. E allora prendi un arabo, e gli dici di togliere quella cosa di mezzo. Non chiami un artificiere: no: la verità è che prendi il primo arabo che trovi, e lo usi come scudo umano. Un'ora prima filosofavi di etica. Quanto ai controlli... E perché mai, poi - qualcuno ha sbagliato, qui? Nessun ordine scritto. Vuoi demolire questa casa? Nessuno ti chiede perché questa e non quella accanto. Ti sembra che questo arabo sia strano? Puoi detenerlo quanto vuoi: tutto è permesso. Può sembrare incomprensibile, ma devi ragionare con la testa di un soldato per capire. Se sbaglio salto in aria: è la mia vita non è un esame di diritto internazionale - è solo la mia vita qui, o la fottuta vita di un fottuto Mohammed. Una volta avemmo un'idea brillante - oggi la insegnano in tutte le accademie militari: perché camminare per strada esposti ai cecchini? Perché non passare invece di casa in casa, tirando giù muri con l'esplosivo? Non pensare da civile. Pensa da soldato: è geniale. Casa a casa, stanza a stanza. A colpi di esplosivo. Poi magari lì dietro un bambino dorme. Non puoi saperlo. Ma che importa?, è geniale.

"Non tutte le critiche sono ostili". L'obiettivo, sostieni, è tracciare la linea rossa: il limite morale che una democrazia deve imporsi. Dunque l'obiettivo è recuperare quella purity of arms stemma e orgoglio dell'esercito israeliano, e che oggi sembra persa? Credi sia possibile un'occupazione ‘illuminata'?
No. No non è questione di investigare meglio, punire di più: migliorare no, non stiamo parlando di poche mele marce. Questa non è la storia del mio battaglione, ma della mia generazione. Parlo con un soldato, guardiamo una foto di Jenin, mi dice Oh, ma sai che ho scattato una foto uguale a Nablus? Non significa che siamo tutti responsabili e che quindi alla fine nessuno è responsabile: ma significa che il problema non è dell'esercito: è della società israeliana. L'esercito non agisce nel vuoto, è la società civile a spedirci nei Territori. Siamo una generazione insieme di vittime e carnefici. Pensi sempre - io sono diverso: a me non succede. Io non sono un assassino. Non sono un beduino, sono un ragazzo colto e di sani princìpi. A me non succede. Ma dopo una settimana la tua capacità di distinguere il bene dal male è in un frullatore. Tutto è in un frullatore: sei con il tuo lanciagranate che dormi tra i cespugli, un giorno qui un giorno lì, piove, fango e tu sei sperduto con il mondo che ti gira intorno, sei lì che vivi selvatico e non capisci niente - vai dritto e spari. Non esiste una buona occupazione: è tutto solo un susseguirsi di ordini assurdi e illegittimi, entrare di notte in una casa, separare uomini e donne devastare tutto, e senza neppure sapere perché - sparare a chiunque sia per strada dalle due alle quattro del mattino, sparare per uccidere, direttamente: e poi quando vai a 'verificare l'uccisione', per dirla tecnicamente - con una sventagliata di proiettili - chi era? era il fornaio con il pane. E allora cominci a pensare che negli Stati Uniti, se non altro, le condanne a morte sono una storia seria: i processi, le sentenze gli appelli, l'opinione pubblica, le manifestazioni. Qui solo un ragazzo che spara. Contro chiunque, ogni notte: dalle due alle quattro. Decisi di diventare sergente proprio per migliorare l'esercito. Durante il corso, a Betlemme, uno di noi arresta un ragazzino: lo sento dire Ehi, sei grande per giocare con le pietre: a quest'ora dovresti già essere esploso a Tel Aviv. Era il comandante. Capii che se anche fossi stato io a dare ordini, non sarebbe cambiato niente. Non importa quanto cerchi di essere morale, umanitario e educato: se gli ordini sono uccidere sei dei loro, sei qualunque, perché sono stati uccisi sei dei nostri - se gli ordini sono arrestare palestinesi e indurli a confessare con ogni mezzo, qualunque cosa, e nessuno tra noi però parla arabo, e nessuno capirebbe le risposte se anche fosse capace di formulare le domande - ma come vuoi che sia un'occupazione illuminata? Sono a un checkpoint e impedisco alla gente di passare: gente che evidentemente ha bisogno di passare, altrimenti non sarebbe lì, gente che deve tornare a casa, ma non può passare, perché ci sono io di mezzo, con il mio checkpoint, e non importa quanto gentile cerco di essere - non ho bisogno di essere crudele per essere ingiusto. Comunque loro non torneranno a casa. Che differenza fa se sono gentile o li umilio?, è il checkpoint stesso a umiliarli. Ed è il solo modo per condurre un'occupazione. Solo un sistema di paura, abusi e brutalità può fermare tre milioni di persone. Devi terrorizzarli. E per terrorizzarli devi essere feroce: feroce e gratuito, è il solo modo.

"La questione palestinese è una semplice questione di sicurezza. La vera minaccia esistenziale è smarrire i nostri valori". Cosa intendi per sicurezza? E che significa oggi essere ebreo - quali sono questi valori?
Io sono un israeliano, i palestinesi non mi riguardano. Sono un problema politico: è Israele il luogo in cui vivo e è Israele quello che mi interessa. Ti chiamano Hamas con la kippah, ti accusano di ignorare il terrorismo: ma anche per i manuali dell'esercito il terrorismo è solo una 'security disturbance'. La nostra non è una collezione accidentale di testimonianze: è la sintesi di un'era. E allora il vero problema qui, è: difendiamo cosa?, quale società? Qual è il costo morale di questa occupazione? I palestinesi non mi riguardano. Non mi giudico in base alle loro azioni, mi giudico in base ai miei valori. Mi interessa Israele. Voglio che la madre comprenda che se suo figlio torna a casa tranquillo non è comunque la stessa persona: che nessuno torna innocente, perché anche se il corpo è intatto, due mani due gambe, non significa niente - è la mente a non essere intatta. Il potere intossica. Qualcuno arriva al checkpoint, ha un permesso per una visita medica, e tu devi decidere se lasciarlo passare o no: guardi serio le lastre in controluce, come se davvero capissi qualcosa, e non sai neppure qual è la forma di un osso ma tutti aspettano che apri, e sai che qualsiasi cosa dirai, accadrà - sei qualcuno, sei un uomo: e sei quello che comanda. Contiamo i morti ogni giorno, ma la perdita vera è un'altra: è la perdita della nostra umanità. Non è una questione di odio, ma l'esperienza di un potere illimitato e incontrollato su un nemico senza volto privo di ogni diritto - una miscela di indifferenza e conformismo alimentata da questo muro che separa irrimediabilmente noi da loro. Crediamo che tutto questo accada in un indefinito ‘laggiù': ma sono solo tre chilometri da qui. Ebraismo oggi significa mille cose diverse. Ma se un popolo che ha attraversato l'Olocausto scrive sui muri A morte gli Arabi, allora qualcosa è cambiato nella nostra idea di essere ebrei.

La definite "la nostra Abu Ghraib", ma evitate le immagini più violente. Volete mostrare "la più insidiosa realtà quotidiana". La banalità delle immagini... Del male: è il capovolgersi della storia? "Hebron non è un'eccezione, ma il laboratorio per quello che poi accade altrove. Un sistema di abusi e occultamenti". Tutto questo è una degenerazione o è già nella genetica dell'ambizione sionista a uno stato esclusivamente ebraico?
Noi raccontiamo l'occupazione: poi ognuno decide da solo. Noi diciamo questo è il prezzo, in termini di diritti umani, di moralità di stato di diritto, di democrazia - questo è il prezzo per tenere a Hebron una manciata di coloni. Poi ognuno è libero. Se sei un fondamentalista, se sei un terrorista e ti va bene così, se sei Hamas con la kippah, d'accordo - continua così: l'importante è che sei consapevole di cosa significa questa occupazione. Per te: non solo per i palestinesi. Non ho problemi con chi la pensa diversa, ma con chi nega la realtà. Qualunque idea, qualunque proposta per questa guerra - ma deve partire dalla realtà, non dalla rimozione. Non sono qui con una soluzione. Però intanto posso spiegare cosa significa questa occupazione. Decine di progetti sono sul tavolo, e ognuno ha le sue opinioni - ma quella che manca dal tavolo è la verità. Siamo israeliani, e vogliamo che Israele sia sicuro. Ma anche morale.

Alla fine racconti, riveli critichi, denunci: ma se qui, libero. Nessuno ti processerà. Non è un'auto-assoluzione? "Rompere il silenzio è un'assunzione di responsabilità" - ma la responsabilità non dovrebbe essere in primo luogo nei confronti dei palestinesi? "Non è un cane, non è un animale", dice un soldato in una delle testimonianze, "semplicemente non conta" - tutto questo non nega ancora una volta l'esistenza stessa dei palestinesi? Certo che sono un criminale di guerra. E allora? Qui non è questione di giudici e tribunali, è questione di una società intera. Per me è più importante che si parli di tutto questo, piuttosto che uno su mille tra noi finisce all'ergastolo: è più importante il dibattito pubblico, la consapevolezza collettiva. Come in Sudafrica. Ma la verità viene prima della riconciliazione. Perché alla fine non è questione di arabi ed ebrei. Sei responsabile non perché sei un soldato, e neppure perché sei un israeliano. Sei responsabile perché sei un essere umano, e perché questa occupazione non ha niente di giusto. Ma è una storia molto più grande di quella che entra in una sentenza di tribunale.

Una tua parola ricorrente è blend, miscela - l'incapacità dopo un po' di distinguere tra bene e male: civili e combattenti, sicurezza e democrazia la realtà dalla playstation: quello che pensi di essere, quello che davvero sei. Ma la miscela qui è anche un'altra: una terra dove arabi ed ebrei vivono profondamente interconnessi e interdipendenti. "Per difendere 600 coloni, a Hebron abbiamo considerato tutto - tranne i 160mila palestinesi". 
Non ho capito.


Chi sono i palestinesi per te?
Questo è un silenzio che non so rompere.

Questa è una delle interviste raccolte nel libro di Francesca Borri, manifestolibri editore, Qualcuno con cui parlare 

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