http://it.peacereporter.net
14/03/2011

Guerra è pace
di Francesca Borri

Perché è arrivato il momento di archiviare Oslo

  

Niente è più intuitivo, tra israeliani e palestinesi: due popoli per due stati. Ma sono sessant'anni, ormai: e forse allora, ha ragione Mark Twain - esiste sempre una soluzione semplice ai problemi complessi: quella sbagliata.

Per gli israeliani, si sostiene, è la sola soluzione possibile: lo stato unico significa la fine della maggioranza ebraica. Per i palestinesi, d'altra parte, è certo un compromesso: è il 22 percento, e anche meno, della terra ai tempi degli inglesi: ma considerato lo squilibrio militare, si ripete, è la sola soluzione realistica. L'opzione su cui israeliani e palestinesi dunque hanno entrambi interesse a convergere - due popoli per due stati: a dirlo è la razionalità.

Eppure, l'apparente inequivocità della soluzione, della direzione da intraprendere, e formalmente intrapresa a Oslo, è in singolare contrasto con le politiche di Israele: e proprio da Oslo in poi. Se l'assioma, in effetti, è che il ritiro dai Territori e la fondazione di un autentico stato palestinese è condizione necessaria e sufficiente a garantire l'esistenza di Israele, e soprattutto, la sua natura ebraica, allora è innegabile: le iniziative di Israele, a cominciare dagli insediamenti, non hanno senso. Israele, si spiega, è ostaggio di una minoranza messianica di coloni. Ma la diagnosi, così, anticipa l'analisi: non è che una forma, a questo punto, di autolesionismo: casa a casa, mattone a mattone, cementare uno stato unico: minare la maggioranza ebraica. Ma forse invece, come Sun Tzu: la strategia è la via del paradosso: chi è abile consiglia, si mostri maldestro, chi è utile si mostri inutile. E per avere la guerra, preparare la pace.

Si dice: gli accordi di Oslo - in realtà, non è che il processo di Oslo. Il principio, infatti, è quello del security first e di un contesto preliminare di fiducia reciproca: dopo quarant'anni di occupazione, e sessanta di scontro, consolidare sicurezza e economia prima di negoziare le questioni più ruvide: i confini, l'amministrazione di Gerusalemme, il futuro di coloni e rifugiati. Il metodo è quindi quello di un ritiro israeliano scaglionato, parziale e soprattutto condizionato - e cioè sempre reversibile. Scaglionato nel senso di progressivo, e parziale nel senso di una ripartizione, invece che restituzione, delle competenze civili e militari: ma anche un ritiro condizionato nel senso che la sicurezza è nozione, è sensazione soggetta alla valutazione esclusiva di Israele - autorizzato a ripristinare il proprio controllo in qualsiasi momento, come avvenuto nella seconda Intifada. In un processo che può così avanzare e regredire all'infinito.

Ma se realmente l'obiettivo è blindare la sicurezza di Israele, è indubbio - e sostenuto dai suoi stessi vertici militari, che hanno per esempio contestato il Muro come indifendibile: la strategia migliore è un'altra: è esattamente l'opposta: forze schierate a presidio di confini certi e definiti. E soprattutto, se realmente l'obiettivo è consentire due stati per due popoli, si dovrebbe intanto registrare il congelamento degli insediamenti: più che raddoppiati invece, negli ultimi anni. L'azione di Israele, cioè, è sistematicamente il contrario di quella più logica. E proprio a partire da Oslo: è il serrarsi di quella che Jeff Halper ha definito una matrix of control, ovvero una ragnatela di barriere fisiche e amministrative che frantuma la Cisgiordania in un arcipelago di carceri non contigue, e incaglia la vita - in un'occupazione in cui una licenza edilizia, un certificato anagrafico, un permesso di lavoro sono ormai armi potenti quanto ruspe e mitragliatrici. E parallelamente, si è perseguito quello che Sara Roy ha definito il de-development dell'economia palestinese, la sua dipendenza strutturale cioè da Israele e dagli aiuti internazionali: insieme a un de-sviluppo istituzionale, con una Autorità Palestinese dai poteri limitati, dalle risorse insufficienti - un terzo del suo bilancio è destinato alla polizia: non è che il guardiano, e complice, dell'occupazione, autorità perché autoritaria, non perché autorevole. 
Non certo due stati per due popoli: è piuttosto quella che Eyal Weizman ha definito, con sinistra eco, la strategia della gazification: uno strangolamento controllato, attentamente mantenuto entro l'accettabilità occidentale.

E l'indizio più chiaro dell'incoerenza tra obiettivi dichiarati e obiettivi perseguiti è l'assenza, in vent'anni di processo di pace, di ogni minima riflessione sul cosiddetto status finale: come fosse irresolvibile. Eppure la questione dei confini e la questione di Gerusalemme, tecnicamente, non sono affatto complesse: e quanto ai coloni e i rifugiati, lo scoglio vero, è singolare che nessuno abbia ancora proposto la cosa più istintiva: capire le loro preferenze. Perché i coloni è noto, non sono tutti nazionalisti religiosi: al contrario, sono spesso immigrati poveri indotti non dalla Bibbia, ma dalla necessità di una casa e un lavoro a fortificare luoghi inospitali, prima ancora che palestinesi, sperduti in cima a colline brulle. E così i rifugiati: un mondo variegato ormai alla terza generazione: lontano dai giornalisti, molti ambiscono non al ritorno ma semplicemente alla vita. Davvero i coloni vogliono tutti rimanere, e sotto sovranità israeliana, e i rifugiati tutti tornare, e sotto sovranità palestinese? E perché comunque non affidarsi alle statistiche, invece che alle ipotesi?
Forse perché l'incertezza è strutturale, in Israele: mai incidentale: è il principale strumento di governo e dominio.

Sono in molti a concordare: la crisi, la paralisi di questi anni, si dice, fino ai palestinesi consumati dalla malnutrizione, è esito non dell'implosione, ma dell'attuazione del processo di pace. Israele, in realtà, mirava a riformulare l'occupazione: a svincolarsi dai suoi oneri, subappaltando la sicurezza all'Autorità Palestinese, l'economia alla comunità internazionale. E però tutti insistono sui due stati - l'errore è stato il metodo, non l'obiettivo: a dirlo è la razionalità.

In realtà non è solo lo stato unico: sono anche i due stati a significare la fine, per Israele, della sua maggioranza ebraica. Perché la partita vera, contrariamente alle apparenze, non si gioca affatto nei Territori. Si gioca invece tra i rifugiati, per cominciare, perché il diritto al ritorno è un diritto individuale e inalienabile: qualunque accordo si firmi, non è possibile, giuridicamente possibile, rinunciare al diritto al ritorno in nome di terzi. L'unica, per Israele, è il tempo: confidare che prima o poi, esausti, i rifugiati si ricostruiscano una vita altrove. E la minoranza araba poi, già oggi un quinto di Israele: un problema ancora più complesso: perché una volta istituito uno stato palestinese, e eliminata così l'ambiguità sulla sua identità, non potrebbe che rivendicare con forza piena eguaglianza e cittadinanza. Nell'incertezza, invece, è confinata a una vita di seconda classe: e indotta a lasciare più o meno volontariamente Israele da una discriminazione così efficace, anche se spesso invisibile, che gli equilibri demografici, negli anni, sono rimasti inchiodati alle direttive di Ben Gurion - 80 contro 20, nonostante la diversità dei tassi di crescita.

La strada per garantirsi la maggioranza ebraica, per Israele, non è né impedire uno stato palestinese, l'incubo dello stato unico, né però, questo è il problema, consentire la sua formazione: due stati per due popoli. Non rimane che il rinvio a tempo indefinito di un assetto stabile: la gestione, invece che risoluzione del conflitto. Come Harry Truman: se non puoi convincerli, suggeriva, confondili - perché la pace, non la guerra, è la fine dell'ebraicità di Israele.

Non si discute che dello stato palestinese: la sua funzionalità e sostenibilità: ma non meno problematica è la funzionalità e sostenibilità di quello israeliano, incapace di coniugare la sua legittima aspirazione all'ebraicità con l'universalità dei diritti fondamentali e il principio di eguaglianza. Il problema non è lo status finale: è la premessa iniziale: è il sionismo, questa interpretazione tristemente quantitativa dell'ebraicità. Radicata più nel nazionalismo e colonialismo ottocentesco che nella Bibbia: ed è arrivato il momento di ricordare agli israeliani che siamo più liberi di quanto crediamo, perché il vero e l'evidente è stato costruito in realtà in un determinato periodo storico, e può essere dunque criticato e cambiato, e adeguato ai tempi. Diceva uno dei loro padri fondatori, Martin Buber: dobbiamo istituire il nuovo alla luce della parola di Dio, e non fare il già fatto, ma quello ancora da fare. E come il rabbino Sussja, quando in punto di morte esclamò: nel mondo futuro non mi si chiederà Perché non sei stato Mosè?, mi si chiederà invece: Perché non sei stato Sussja?