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novembre 3, 2012

Hebron, uno smarrito desiderio di comprensione
di Carla Biavati

Eccoci ad Al Kalil, ovvero Hebron,la città di 800mila Palestinesi  che ospita, suo malgrado, circa 500 Coloni protetti da cinquemila soldati dell’esercito Israeliano.

Ci aspetta Ahmed, un giovane volontario dell’associazione Youth against settlement che ci racconterà la storia dell’occupazione e ci mostrerà i luoghi piu’ significativi per comprenderla.

Attraversati i quartieri che circondano la città vecchia ,chiassosi e popolati da miriadi di negozi e bancarelle. Giungiamo ad un check point un po’ malridotto che dopo una superficiale ispezione, ci introduce nel cuore antico e bellissimo di questa particolare città. Ecco le case di pietra, i camminamenti a volta, le anguste botteghe disabitate ed una interminabile processione di portoni di ferro sigillati dall’esercito. Dopo il chiasso, ci colpisce il silenzio, impalpabile ma assoluto di luoghi fantasma, grondanti secoli, in un sonno artificiale.

Dopo una discesa giungiamo a Shuada street, il lungo viale delle botteghe orafe ora deserto. Anche qui una serie di barriere di ferro ed un check point. E’ il secondo dei 100 che circondano il centro storico e interrompono più volte il lungo viale.

Ahmed ci spiega che dobbiamo separarci perché oltre le barriere loro i Palestinesi non possono andare. Davanti si affacciano come oasi nel deserto due negozi di souvenir, colorati e atipici chiaramente non Israeliani. Ahmed ci illustra, in inglese ed a voce alta,la moschea di Abramo che sorge a lato e ci racconta dell’eccidio di Baruch Goldstein che nel 1994 che uccise durante la preghiera 29 Palestinesi e ne feri circa 300. Gentilmente chiediamo di passare e spieghiamo di essere turisti, cioè gli unici ammessi  ad entrare oltre a piccoli gruppi di coloni vestiti a festa – oggi è Shabbat – a donne col capo coperto e gruppi di bambini di varie età.

Indifferenti i due soldati ci lasciano passare, ma quando Ahmed si avvicina cercando soltanto di accompagnarci al limite consentito, un soldato aggressivo ai limiti dell’isteria lo trattiene e  lo umilia aprendo persino il suo pacchetto di sigarette alla ricerca di chissà quali armi segrete.

Ci apostrofa  urlando  “andatevene” e dopo qualche minuto rilascia anche Ahmed .

Ci fermiamo al negozio di souvenir, l’unico palestinese di Shuada street. Per uscire attraversiamo di nuovo il check point e distrattamente saluto i soldati con uno “shalom” di circostanza. A questo punto il soldato aggressivo che aveva trattenuto Ahmed si affaccia dal gabbiotto e mi risponde con un altro “shalom” dicendosi dispiaciuto per l’accaduto e scusandosi ulteriormente.

Resto allibita e corro a raccontarlo agli amici del gruppo, ma dentro di me mi interrogo circa la estrema fragilità dimostrata dal soldato che con un comportamento aggressivo manifesta invece una insicurezza devastante.

Mi appare chiaro quanto in questo folle gioco delle parti conti per loro una giustificazione logica ad un abuso evidente. Dispiegare 5000 soldati per proteggere un pugno di coloni ultra religiosi fanatici che affermano diritti di proprietà risalenti ad epoche ancestrali costringendo ad abbandonare le case dei legittimi proprietari producendo  artatamente la fine economica e storica della più popolosa città palestinese è anch’esso un assurdità fin troppo visibile..

Ed infine quanto sia debole questa pretesa se davanti ad un gruppetto di turisti il termine “pace” come saluto produca un improbabile e smarrito desiderio  di comprensione.

Carla.

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