IPRI rete CCP
14 luglio 2012

Grazie Lina,

Il tuo intervento e’ importante, per noi che da tanti anni lavoriamo e partecipiamo da “esterni “ alla lotta Palestinese contro l’occupazione Israeliana.

Io lavoro in un istituto di ricerche per la pace che sostiene la necessita’ di dotare la societa’ civile in tutti i paesi del mondo di uno strumento organizzato chiamato Corpi civili di pace. Lavoriamo per l’empowerment delle societa’ civili ed i loro diritti con strumenti nonviolenti per il cambiamento sociale. Non siamo sostenuti da fondi pubblici e politici ed i fondi per le nostre azioni sono personali o frutto  di crowd funding.

La realizzazione dei corpi civili come nuova prospettiva di difesa a supporto delle popolazioni, in alternativa all’uso di eserciti armati, e’ una lunga storia che se interessa si puo’ conoscere sul nostro sito tematico (www.reteccp.org), ma non mi addentro perche’ voglio invece discutere delle tue affermazioni e sollecitazioni.

La presentazione era necessaria perche’ ci definisce e definisce strumenti e scopi.

Quando si e’ cominciato a costruire un movimento in Palestina ci siamo subito precipitati per capire e supportare il Popular struggle, ma il sostegno alla causa Palestinese era gia’ attivo da anni. La novita’ sul terreno ci ha portato a lavorare nei nostri paesi per illustrare  le richieste dei comitati ed in Palestina a partecipare fisicamente alle manifestazioni e alle campagne locali.

Le tue analisi sono molto vere anche se per alcune ho argomenti differenti da sottoporti.

La stagnazione in Palestina della lotta popolare e’ un fatto, ma per le motivazioni ti sottopongo alcune riflessioni.

Anche durante la prima Intifada le organizzazioni avevano ottenuto una grandissima base popolare ma la successiva politicizzazione ne ha differenziato in grande misura il seguito.

Certo, è  da quelle rivolte che si e’ costituita la coscienza del mondo sulla questione Palestinese. Ne parlo da esterna perche’ non posso  portare una testimonianza “onesta”sulla costruzione dell’ Identita’ palestinese da altri punti di vista.

La lotta di allora e’ stata soffocata da una repressione  feroce in loco e da una serie di trattative disoneste portate avanti da Israele con l’avvallo della comunita’ internazionale, un percorso che non ha risolto ma bensì peggiorato la situazione di Occupazione.

Quindi dopo la fine della seconda Tragica Intifada, la costruzione del Muro di Rapina del territorio e la limitazione alla libera circolazione ci ha impegnato nella diffusione di documenti circa la realtà del muro. Le lotte contro gli espropri hanno fatto nascere spontaneamente in alcune zone proteste che hanno poi costituito i comitati popolari. La novità era il manifestare in modo da non permettere a Israele di continuare a mistificare la propria legittima difesa l’antisemitismo e cosi’ via. Quindi la scelta della nonviolenza ha permesso a molti internazionali e Israeliani di partecipare a questa lotta.

Il secondo passo per strategizzarla e diffonderla capillarmente in tutta la west bank non si e’ ancora realizzato, se non in parte e i motivi sono vari e complessi.

Quelli interni comprendono ovviamente la repressione molto violenta e sproporzionata da Parte Israeliana, lo stillicidio di arresti, l’occupazione dei villaggi, la esosa richiesta di pagamenti per la liberazione di attivisti arrestati senza imputazioni, ecc... La corsa dei politici locali a mettere un cappello sulle iniziative dei comitati popolari. La rivalita’ e la competizione circa la visibilita’ tra ONG Palestinesi e comitati locali. I diversi linguaggi e le  appartenenze, ed infine il gap generazionale.

Mentre esternamente, la lotta popolare ha raggiunto un obbiettivo piu’ ampio. Ha ricostruito l’immagine di territorio occupato, ha sperimentato nuovi stili comunicativi

che hanno permesso a blogger e film maker locali e stranieri di diffondere immagini attraverso social network impossibili da eliminare o controllare, da parte Israeliana, come invece era stato fatto con i media ufficiali.

Ha inoltre risvegliato una coscienza civile internazionale, raffreddata dalla propaganda Israeliana, durante la seconda intifada, che ha permesso una rinnovata strategia di partecipazione internazionale, anche questa difficile da individuare da parte delle forze di polizia frontaliere. Lo studio e l’attuazione di alcune azioni come i walk raiders, la flytilla negli aeroporti, la flottylla per Gaza ecc… hanno svelato al mondo le trappole della presunta democrazia di Israele.  La rinascita di questa coscienza diffusa ha permesso di ottenere molti altri riconoscimenti ufficiali internazionali. Ed è proprio questo lo scopo della lotta nonviolenta. La costituzione della campagna BDS ha inoltre favorito simpatizzanti e attivisti internazionali in un lavoro capillare di connessione e di denuncia in tutto il mondo.

D’altro canto la risposta Israeliana e’ stata così sproporzionata all’interno e così ricattatoria e manipolatoria della verità all’esterno, da dissanguare l’entusiasmo e da frammentare la sinergia dei palestinesi nei territori.

A mio avviso è proprio questo il limite dell’attuale strategia: il costo economico e la lunga durata in termini di tempo della lotta nonviolenta. E’ soprattutto nelle giovani generazioni, che si stà diffondendo una insofferenza dovuta alla lentezza della realizzazione di una vera liberazione dall’occupazione. Le difficoltà e la lentezza però, hanno anche permesso uno studio più approfondito da parte di alcune organizzazioni civili Palestinesi, circa i metodi e le strategie più fruttuose da praticare nei confronti degli Occupanti. Issa Amro di Hebron, stà lavorando assai bene in una zona strategica come la valle e le vicinanze della città e alcune prospettive di resistenza sono molto sofisticate e inattaccabili anche dall’astuto estabilshment isreliano.

Comprendo anche la delusione per la frammentazione della risposta degli attivisti Israeliani, che non sono riusciti a costruire un movimento di opinione in Israele, ma per citare una buona analisi fatta da Warshanski dell’AIC, “Se per la costruzione della macchina governativo–difensiva di Israele si può parlare di un formidabile successo, per  la costruzione di un popolo  Israeliano coeso e compatto sulla nazione l’insuccesso (taciuto) e’ altrettanto formidabile. La complessa realtà degli abitanti di Israele, è molto settaria e corporativa, nonchè razzista ed escludente, e gli ultimi episodi di intolleranza interna tra i vari gruppi, lo dimostrano ampiamente.

Bisognerebbe lavorare insieme agli attivisti Israeliani e Israeliani-Palestinesi per lanciare iniziative proprio su queste contraddizioni. Io mi stò sforzando di trovare gruppi e personalità che mi aiutino a sviluppare una ricerca degli effetti delle strategie mafiose nello sfruttamento degli insediamenti illegali. La mia ricerca è nata comparando gli studi e le politiche antimafia in Italia con alcune preoccupanti triangolazioni in Israele.

Infine non bisogna sottovalutare l’interesse Israeliano, nel lavorare occultamente, non per appoggiare la cosiddetta normalizzazione come da te denunciato, bensì per rivitalizzare una risposta armata Palestinese, pur anche legittima, ma capace di disperdere in un attimo gran parte di quella solidarietà aggiunta, guadagnata delegittimando la mistificazione israeliana della legittima difesa e dell’antisemitismo.

Ecco lo spunto per una riflessione, circa approfondimenti su nuovi e più efficaci strumenti di denuncia che possono coinvolgere noi internazionali e le popolazioni dei territori per  sviluppare strategie mirate più efficaci e partecipate e per animare una discussione che grazie al tuo intervento spero possa partire e svilupparsi in un dialogo sincero e costruttivo.

Carla Biavati

top