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11 oct 2012

Dentro Israele: né libero né equo
di Patrick O. Strickland, Fair Observer

Tra molti osservatori pro-palestinesi, in particolare tra i sostenitori della moribonda soluzione a due stati, prevale un curioso consenso: all’interno della Linea Verde, Israele è uno Stato sicuramente democratico che assicura uguaglianza a tutti i suoi cittadini. Il fallimento dello Stato nel garantire giustizia per le famiglie delle vittime dell’ottobre 2000 è uno dei tanti esempi che mostrano come tale convincimento sia infondato.

Lo scorso lunedì, migliaia di palestinesi israeliani hanno marciato in tutto il Paese per commemorare i tragici eventi dell’ottobre 2000. Agli albori della Seconda Intifada, mentre si tenevano manifestazioni pacifiche nelle città e nei villaggi arabi in Israele, la polizia ha aperto il fuoco e ucciso 13 giovani disarmati. Ad oggi, nessuno è stato condannato né portato di fronte ad un tribunale, perché Israele ha sempre rifiutato di accusare i propri ufficiali.

Ma basterebbe anche un veloce sguardo al trattamento che Israele riserva alla sua più corposa minoranza, 1,5 milioni di palestinesi israeliani, per distruggere il mito “dell’unica democrazia del Medio Oriente”.

I palestinesi israeliani sono discendenti degli arabi che accettarono la cittadinanza israeliana dopo la guerra del 1948 e in genere vivono in aree a maggioranza araba dentro Israele o in città miste come Haifa e Acco. Il governo israeliano si riferisce a loro come “arabi israeliani”, definizione che la maggior parte dei palestinesi interpreta come il tentativo politico di negare la loro eredità culturale. Decenni di repressione di Stato, comprese tragedie come le uccisioni nel Giorno della Terra del 1976 e le morti nell’ottobre 2000, hanno spinto molti di loro a rifiutare l’identità israeliana nella sua interezza. Definiscono se stessi come palestinesi.

La risposta statale all’autoaffermazione palestinesi, non importa da quale parte della Linea Verde abbia luogo, è sempre stata la forza bruta. Le conseguenze per i dissidenti ebraici, dall’altra parte, sono notoriamente più leggere. Quando i manifestanti J14 hanno tentato di piantare tende a Tel Aviv per ridare vigore al movimento per la giustizia sociale, sono stati arrestati. A differenza dei loro omologhi arabi, a nessuno di loro è stato sparato e i diritti di ognuno sono stati rispettati.

Lo scorso dicembre, in un caso ancora più terrificante di asimmetrica applicazione della legge, nessun arresto è stato compiuto dopo che oltre cento coloni fanatici hanno calpestato la decisione dello Stato di evacuare un insediamento illegale, attaccando una base militare israeliana.

Tale disparità è profondamente radicata nella natura di uno Stato esclusivamente ebraico che rende nel concreto le sue minoranze dei dettagli di poco conto.

 

I villaggi beduini.

La scorsa settimana, mentre i palestinesi israeliani commemoravano il 12esimo anniversario della tragedia dell’ottobre 2000, ufficiali israeliani stavano per demolire altri villaggi beduini in Negev. I residenti di Umm al-Hiran, nel Nord del Negev, hanno ricevuto all’inizio della settimana la notizia che il loro villaggio e le loro case saranno demolite per fare spazio ad una colonia ebraica per “famiglie religiose”.

Umm al-Hiran non è un caso isolato. In Negev ci sono oltre 40 villaggi “non riconosciuti” in cui vivono più di 53mila beduini palestinesi. A loro sono negati i servizi di base – acqua, elettricità e gas – e vivono nella costante minaccia di distruzione e trasferimento forzato. Sebbene molti di questi villaggi esistessero ben prima della creazione dello Stato di Israele e altri siano stati costruiti dallo Stato stesso come forma di compensazione per la confisca di terre nel 1948, il governo israeliano afferma che la loro presenza è illegale.

Il noto villaggio beduino di Al-Araqib è stato distrutto 41 volte dal 2010. Oggi solo tre famiglie resistono nelle loro terre. Il governo israeliano, nel palese tentativo di concentrare i residenti beduini espulsi in enclavi simili a bantustan, insiste perché abbandonino il loro tradizionale stile di vita e si trasferiscano in città vicine. Al loro posto, il Jewish National Fund, organizzazione quasi governativa, creerà una riserva naturale.

Ma la demolizione di case non è limitata al Negev. Come riportato da Human Rights Watch lo scorso anno, Israele nega sistematicamente i permessi di costruzione alle famiglie arabe, dichiara le loro case illegali e procede alla distruzione. In Israele “decine di migliaia di case palestinesi non possiedono il necessario permesso e sono a rischio di demolizione”.

Come in Negev, il progetto colonizzatore ebraico si erige sulle rovine delle case palestinesi. Nel 2011, il ministro dell’Interno Eli Yishai ha dichiarato il suo appoggio per la costruzione di una yeshiva, un college religioso ebraico, con la speranza “di portare 50mila ebrei a Led e salvare la città”.

Questo processo di allocazione delle abitazioni su basi etniche non è una novità, ma una componente storica. Dal 1948 i cittadini palestinesi sono stati confinati in quartieri e villaggi precedenti allo Stato, mentre innumerevoli comunità ebraiche sono nate e cresciute.

Nel 1996, come sottolineato da Ben White, “il 57% degli edifici senza licenza appartengono a palestinesi, ma costituiscono il 90% delle demolizioni”.

Basta questo per comprendere le discriminazioni che subisce la più grande minoranza in Israele. Tuttavia, la distruzione di case in tutto il Paese, la concentrazione sistematica dei beduini in bantustan e i 13 palestinesi israeliani uccisi non sono che la minima parte, in uno Stato fondato sulla disuguaglianza etnica e religiosa, la discriminazione e la segregazione. Non sono echi di apartheid; ne sono la natura.


Patrick O. Strickland è un giornalista freelance che vive tra Israele e Cisgiordania. È corrispondente settimanale da Israele e Palestina per Bikya Masr e collabora con Counterpunch.org, Palestinechronicle.com, Socialistworker.org e NYTexaminer.com.

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