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6 nov 2012

Diritto al ritorno: Abu Mazen si arrende?
di Michael Warschawki

Alternative Information Center

Nel contesto coloniale della mentalità israeliana, ogni passo indietro palestinese rafforza la posizione di coloro – la maggioranza in Israele – che aspirano a distruggere la Palestina. La storia degli ultimi trent’anni di negoziati dimostra al di là di ogni dubbio che, nell’attuale relazione di forze, il compromesso conduce ad ulteriori compromessi.

L’unica contro-strategia efficace dovrebbe essere: nessuno compromesso sui diritti, anche se ci richiederà anni per ottenere la libertà e il ritorno. Cambiare la relazione di forze e solo allora negoziare, altrimenti non si tratterà di un negoziato ma di un diktat.

In un’intervista all’israeliano Canale 2, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato che rinuncerà al suo diritto al ritorno nella città di Safed, dove è nato e da dove è stato espulso, divenendo un rifugiato. Nei fatti, il presidente palestinese ha espresso più di una dichiarazione personale; come in precedenti occasioni, Abu Mazen ha tentato di calmare l’opinione pubblica israeliana in merito alla questione centrale dei diritti dei rifugiati palestinesi e di ridurre il conflitto israelo-palestinese ad un conflitto per il territorio, i confini e la sovranità.

Se la destra israeliana non si farà sedurre dalla dichiarazione di Abbas, la sinistra cercherà di usarla per mostrare che la leadership palestinese prende in considerazione la paura israeliana della “minaccia demografica” e accetta Israele come Stato ebraico.

E se Abu Mazen ha il diritto di rinunciare al suo sogno di tornare a Safed e di vivere a Tel Aviv (se e quando la legge israeliana lo permetterà), non può parlare a nome dei milioni di rifugiati che non hanno abdicato a tale diritto. Questo per tre ragioni: primo, il diritto al ritorno è un diritto individuale e ogni singolo palestinese deciderà cosa fare della sua proprietà rubata e se vivere o meno in quella proprietà, se venderla o affittarla. Secondo, il diritto al ritorno è un diritto umano fondamentale. Terzo, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi è riconosciuto dal diritto internazionale e da numerose risoluzioni Onu; si può rinunciare al diritto individuale, ma non al diritto in sé. Anche lo Stato di Israele è stato costretto ad esprimere assenso alla risoluzione Onu 194, per poter diventare Stato membro delle Nazioni Unite.

La dichiarazione di Abu Mazen può essere soddisfatta (sebbene non completamente, come sempre accade quando uno da un dito per salvare la mano), ma il prezzo che paga è estremamente alto: la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica palestinese è arrabbiata, compreso lo stesso partito di Abbas e per molti il presidente ha superato la linea della fedeltà al proprio popolo.

Da israeliano, non sono io a decidere cos’è la fedeltà al popolo palestinese e ai suoi diritti inalienabili. Tuttavia, da israeliano posso valutare il calcolo errato del presidente palestinese: nel contesto coloniale della mentalità israeliana, ogni passo indietro palestinese rafforza la posizione di coloro – la maggioranza in Israele – che aspirano a distruggere la Palestina. “Più pressioni, più compromessi” – questa è stata la strategia sionista per decenni. La storia degli ultimi trent’anni di negoziati dimostra al di là di ogni dubbio che, nell’attuale relazione di forze, il compromesso conduce ad ulteriori compromessi.

L’unica contro-strategia efficace dovrebbe essere: nessuno compromesso sui diritti, anche se ci richiederà anni per ottenere la libertà e il ritorno. Non si tratta di una strategia massimalista, “tutto o niente”, ma una questione di realismo politico, di pragmatismo: cambiare la relazione di forze e solo allora negoziare, altrimenti non si tratterà di un negoziato ma di un diktat.