Fonte: "Le Monde Diplomatique"
http://www.palestinarossa.it/
26 giugno 2012

I palestinesi nella trappola carceraria
di Stéphanie Latte Abdallah

Ricercatrice al Cnrs (Iremam, Aix-en-Provence), ha curato, assieme a Cédric Parizot, l’opera "A l’ombre du mur". Israéliens et Palestiniens entre séparation et occupation, Actes Sud, Arles, 2011  

Al termine di un lungo sciopero della fame, per alcuni durato oltre due mesi, i prigionieri politici palestinesi hanno ottenuto a metà maggio un accordo che stabilisce in particolare la fine dell’isolamento, la limitazione delle detenzioni amministrative e l’implementazione del diritto di visita dei familiari. Ma il sistema carcerario israeliano resta uno strumento essenziale del controllo dei territori occupati e della loro popolazione.

In Palestina, li chiamano prigionieri di guerra (asra) o prigionieri politici; il servizio penitenziario israeliano (Shabas) parla invece di «detenuti per ragioni di sicurezza», una qualifica che non corrisponde a nessuna realtà legale e che dipende dalle decisioni dell’esercito, dei servizi segreti (Shin Beth), e dell’amministrazione carceraria. Questa categoria è riservata ai palestinesi, che abbiano o meno la cittadinanza israeliana. Più dure di quelle riservate agli altri detenuti, le condizioni d’interrogatorio, di accesso alla difesa e di detenzione autorizzate da questo regime vengono costantemente riviste in funzione della situazione politica e di quella della sicurezza. Le pene sono pesanti: condanna a ergastoli multipli secondo il numero dei morti israeliani che l’azione incriminata ha direttamente o indirettamente causato; assenza pressoché totale di alleggerimenti o di condoni della pena.

Il sistema carcerario destinato ai palestinesi non è stato elaborato solo come un modo per punire reati accertati e provati: legato al sistema giudiziario militare, è stato uno dei modi di governo di una popolazione. Dal 1967, quasi il 40% degli uomini è così passato per le carceri israeliane. Dopo la firma degli accordi di Oslo, nel 1993, la maggioranza dei prigionieri erano stati liberati. A partire dal settembre 2000 e dalla seconda Intifada, gli arresti sono diventati nuovamente di massa, e la popolazione carceraria è arrivata a più di 8000 persone alla metà degli anni 2000. Erano 4386 (1) al 30 marzo 2012, poco dopo il rilascio di 1027 prigionieri in cambio della liberazione del soldato Gilad Shalit, a fine 2011.

A partire dal 2002, insieme alle catture, alle incursioni regolari dell’esercito, e agli assassinii mirati, questi arresti hanno permesso la gestione a distanza dei territori palestinesi. La Cisgiordania è stata effettivamente divisa di nuovo in un centinaio di enclavi, controllate da un sistema di check point, fissi e mobili, attorno a città e villaggi palestinesi.

Principale dispositivo di conoscenza e di sorveglianza della popolazione occupata, questo tessuto carcerario, regolato dalla giustizia militare, funziona a partire dai servizi segreti. Il sistema si basa su un regime della prova, a sua volta fondato sulle confessioni degli interessati o di terzi. Confessioni che gli interrogatori cercano dunque di ottenere a qualsiasi prezzo, il che ha giustificato l’utilizzo di forti pressioni fisiche e psicologiche assimilate alla tortura, finché una decisione della Corte suprema israeliana, nel 1999, vi ha messo un limite.

Questo elemento si rivela tanto più essenziale dal momento che il 95% dei processi non si fanno: i casi si risolvono tramite un patteggiamento della pena fra avvocati e giudici, cosa che necessita di una confessione preliminare da parte dell’imputato. Le autorità giudiziarie militari spingono per queste negoziazioni che permettono di evitare un processo, e coloro che si rifiutano ricevono condanne più pesanti, dopo procedure interminabili. La quasi totalità degli imputati viene dichiarata colpevole (2), il che giustifica agli occhi dell’opinione pubblica israeliana e internazionale gli arresti di massa e le modalità – eccepibili – del funzionamento di questa giustizia militare.

Così, nel 2008, dopo tre anni passati in detenzione, il franco-palestinese Salah Hamouri era stato dichiarato colpevole del progetto di assassinare il rabbino Ovadia Yossef, dirigente del partito ultraortodosso Shass, e condannato, in seguito a un patteggiamento, a sette anni di carcere: aveva confessato la sua attività di militante nella gioventù del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp). Una volta emessa la sentenza, le autorità francesi, invocando il rispetto della motivazione della stessa, non si sono più mobilitate molto.

I reati detti «di sicurezza», definiti dall’esercito come «attività terroristica ostile», rappresentavano il 47% delle imputazioni nel 2007. La maggior parte tuttavia non corrispondevano ad azioni omicide, né a preparativi di attentati, ma semplicemente al fatto di avere avuto legami con una «organizzazione illegale», vale a dire tutti i partiti politici palestinesi nonché una serie di associazioni e di organizzazioni non governative (Ong). L’elenco non ha smesso di allungarsi. Fatah, artefice degli accordi di Oslo, dichiarata «organizzazione terrorista» nel 1986, vi figura ancora. Ormai, i militanti impegnati nelle mobilitazioni pacifiche dei comitati di resistenza popolare (Nailin, Beilin, Nabi Saleh, etc.) vengono frequentemente imprigionati.

Questo sistema permette di arrestare, e persino di incarcerare, quasi tutti, uomini e donne, a partire dai 12 anni di età. I minori vengono presi in carico dalla giustizia militare e messi in detenzione come adulti a partire dai 16 anni, e non dai 18, come prescrivono il diritto civile israeliano e il diritto internazionale. Questa specificità della giustizia militare ha cominciato di nuovo a essere messa in discussione a fine 2011. Al 1° maggio 2012, 218 minori si trovavano in carcere, 33 dei quali sono sotto ai 16 anni (3).

Reale e virtuale al tempo stesso, la rete carceraria infrange ogni temporalità. Si può essere arrestati per le proprie azioni o per i propri legami familiari, sociali, e politici, presenti, passati o... futuri. Le disposizioni della detenzione amministrativa autorizzano a tenere una persona in stato di detenzione per sei mesi rinnovabili più volte, a discrezione dello Shin Beth, senza che sia necessario alcun capo d’accusa: era la situazione di 308 persone a inizio maggio 2012. Altre possono restare in carcere dopo il decesso, in appositi obitori o cimiteri. Attraverso questi arresti continui, i servizi segreti reclutano collaboratori, infiltrano la società, negoziano favori, e alimentano una fonte notevole di informazione sulla vita politica, sociale, e sul quotidiano dei palestinesi.

Dopo gli accordi di Oslo, le carceri, un tempo collocate nei territori occupati, sono state spostate in Israele. A questo spostamento si è aggiunta, dal 2003, la loro integrazione nel sistema carcerario civile israeliano, sotto l’autorità unica dello Shabas. Questi cambiamenti contribuiscono a cancellare le frontiere tra Israele e i territori palestinesi; essi perpetuano l’occupazione militare normalizzandola, rendendola invisibile. Sono in contrasto inoltre con la quarta Convenzione di Ginevra, secondo la quale le popolazioni occupate non possono essere detenute fuori dal proprio territorio. Il ministro palestinese dei prigionieri è intenzionato a portare di fronte alle istanze internazionali questa questione dello status giuridico finora indefinito dei palestinesi incarcerati.

Il passaggio delle prigioni militari sotto la tutela del servizio penitenziario è stato giustificato con la riduzione del costo della politica del «carcere facile», con le competenze professionali dello Shabas, e con motivazioni umanitarie di miglioramento delle condizioni di detenzione. I servizi segreti hanno tuttavia giocato un ruolo chiave in questa deliberazione. Membri di diritto del consiglio di amministrazione dello Shabas, essi partecipano ormai alle decisioni e hanno largamente ispirato la nuova gestione carceraria inaugurata nel 2003.

La riduzione dei costi di detenzione è stata facilitata dall’Autorità palestinese: con la ripresa delle incarcerazioni di massa, il ruolo del ministero dei prigionieri di guerra e degli exdetenuti, creato nel 1998, è cresciuto, così come il suo investimento finanziario. L’Autorità trasferisce ogni mese all’incirca dai 20 ai 25 milioni di shekel (circa 4,5 milioni di euro) a Israele, partecipando così, assieme ai suoi finanziatori europei e internazionali, ai costi di detenzione dei suoi amministrati. Il ministero concede un’assistenza giuridica e paga la somma destinata agli acquisti allo spaccio del carcere.

Nell’agosto 2004, lo Shabas ha notevolmente ridotto il vitto e i generi di prima necessità forniti ai detenuti (detersivi, sapone, abiti essenziali, scarpe, etc.). Sono diventati allora necessari acquisti quotidiani allo spaccio del carcere – i cui prezzi sono aumentati dalla sua privatizzazione. L’Autorità palestinese versa inoltre una somma mensile a tutti i detenuti «di sicurezza» palestinesi o arabi. All’occorrenza, essa finanzia i loro studi all’Università aperta di Tel Aviv, l’unica autorizzata dallo Shabas, che è privata e tiene i corsi in ebraico.

Dal 2011, fra le misure repressive prese a causa del fatto che il soldato Shalit continuava a essere tenuto prigioniero, gli studi superiori e la possibilità di dare esami di maturità sono stati sospesi, così come la messa a disposizione di libri e materiale per scrivere. Inoltre, lo Shabas ha recentemente instaurato, in aggiunta alle punizioni abituali (isolamento, isolamento prolungato, a volte per molti anni, privazione di visite, etc.), un sistema di ammende. Le sanzioni finanziarie sono diventate sistematiche in questi ultimi anni e, per impedirne una moltiplicazione ulteriore, l’Autorità palestinese ha limitato il suo contributo al pagamento delle ammende dei tribunali a 4000 shekel per prigioniero.

Le autorità penitenziarie hanno tentato di aggravare la scissione del 2007 fra Hamas e Fatah. Hanno messo in settori diversi i detenuti affiliati ai partiti religiosi – Hamas e Jihad islamica – e i membri di partiti politici – Fatah, Fplp, Fronte democratico per la liberazione della Palestina (Fdlp) e comunisti. I prigionieri sono stati così separati in funzione della loro cittadinanza o del loro status, secondo le stesse linee di frammentazione e di isolamento in vigore nei territori occupati, in un parallelo sempre più marcato fra l’interno e l’esterno. I palestinesi detti «del 1948» – cittadini di Israele e di Gerusalemme Est – sono stati trattati nello stesso modo, e spesso isolati dagli altri, il che è parte della prospettiva israeliana di annessione totale della Città santa. Considerati in carcere come detenuti di sicurezza, essi sono, in quanto «nemici interni», condannati a pene più pesanti dei palestinesi dei territori.
Secondo la testimonianza di Walid Dacca, incarcerato da più di vent’anni (4), in alcune strutture, lo Shabas ha moltiplicato le separazioni sulla base di distinzioni geografiche o anche familiari: i residenti delle città sono stati così allontanati da quelli delle campagne e dei villaggi; quelli originari di Ramallah sono stati distinti da quelli di Nablus, Jenin o Hebron.

La riorganizzazione delle strutture in Israele ha ridotto le visite dei familiari (limitate dal 1996 ai parenti di primo grado: genitori, figli, fratelli e sorelle), che ora necessitano di un permesso d’ingresso sul territorio israeliano, spesso rifiutato per motivi di «sicurezza». A far visita ai detenuti sono soprattutto donne, o bambini da soli.

Questi meccanismi che aumentano l’isolamento si basano anche su una logica neoliberista di miglioramento della situazione materiale dei detenuti, destinata a incoraggiare l’individualismo e la passività. In alcune carceri, le condizioni, che erano deplorevoli, sono cambiate radicalmente con l’integrazione nell’amministrazione dello Shabas e la ristrutturazione o la costruzione di nuovi edifici. La tecnologia rende meno evidenti il controllo e la privazione di libertà. Qui, sono gli stessi detenuti a chiudere la loro porta, prima che un guardiano azioni il sistema centralizzato di chiusura di un centinaio di celle; altri vivono in uno spazio «indipendente», senza vedere sorveglianti, badando «liberamente» alle proprie occupazioni. Questa normalizzazione attraverso il comfort materiale ha riguardato soprattutto – ma non soltanto – le figure di primo piano del carcere, dato che la disuguaglianza di trattamento può essere un fattore attivo di dissidi fra detenuti.

Questa politica intende favorire il ripiegamento su se stessi. Lo sport, gli intrattenimenti televisivi hanno ridotto il tempo destinato alle attività di formazione politica e culturale o alla lettura, che erano state finora l’asse centrale della socializzazione dei prigionieri.

La banalità dell’esperienza carceraria, il va e vieni fra il dentro e il fuori creano una sempre maggiore porosità fra la vita in carcere e quella all’esterno. I detenuti intendono esistere oltre e malgrado la detenzione: ne sono testimonianza il moltiplicarsi per cinque dei corsi universitari nelle prigioni nel periodo successivo a Oslo e le incentivazioni al matrimonio. Di fronte alla parcellizzazione indotta dal carcere, le tecnologie della comunicazione ritessono altrimenti legami affettivi e di militanza: a partire dal 2002-2003, telefoni cellulari sono entrati in alcune carceri maschili e hanno facilitato il dialogo con l’esterno, creando un mercato nero e uno strumento di sorveglianza per le autorità penitenziarie. L’accesso a Internet e la creazione di profili Facebook, alimentati da amici e parenti o da Ong, permettono così di esistere in modo virtuale all’esterno e danno una nuova risonanza collettiva alle mobilitazioni dei detenuti.

 (1) Fonte: www.btselem.org (questi numeri non includono i palestinesi del 1948, cittadini di Israele).


(2) «Guilty. Membership and activity in unlawful associations. Military courts 2008», Machsom Watch, Tel Aviv, 2008, www.machsomwatch.org

(3) www.addameer.or
Citato in Abeer Baker e Anat Matar (a cura di), Threat: Palestinian Political Prisoners in Israel, Pluto Press, Londra, 2011.