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29 agosto 2013

Fermare l'intervento armato in Siria. Non tagliamo la corda!
Un ponte per...


La minaccia di un intervento militare anglo-americano e francese in Siria, a cui ci opponiamo con forza, ha attirato oggi l'attenzione dell'opinione pubblica, ma da due anni ormai chi ama la pace chiede che si ponga fine alla guerra in Siria. La comunità internazionale non l'ha fatto e ha anzi pesanti responsabilità per aver armato e sostenuto militarmente le parti in conflitto, dando loro la continua illusione che una soluzione militare fosse raggiungibile.

Così il numero delle vittime è salito a 100.000, quello dei rifugiati a oltre 2 milioni, quello degli sfollati interni a 4,5 milioni. In quello che è ormai l'esodo più grande nella storia del Medio Oriente, Un ponte per... ha dato priorità sinora all'assistenza ai profughi siriani nei paesi circostanti, con particolare attenzione alle categorie più vulnerabili come le donne sole con bambini. Non sono servite armi chimiche per arrivare a questa catastrofe umanitaria, sono bastate quelle convenzionali, incluse le armi leggere esportate massicciamente dall'Italia ai paesi circostanti negli ultimi anni, e i sistemi di puntamento per i carri armati che l'Italia ha fornito ad al-Assad fino al 2009, diventando il primo fornitore europeo di armi alla Siria.

Oggi il presidente Obama pensa di dover infliggere una stoccata militare al governo di Damasco, pur sapendo che questa mossa non avrebbe effetti reali sulla tenuta del regime e rischierebbe di innescare terribili reazioni a catena, inclusi nuovi attentati nei paesi circostanti. L'Iraq è già in fiamme da mesi anche a causa del contagio siriano, con quasi 4000 vittime civili dall'aprile 2013 provocate dai ripetuti attentati terroristici, numeri che si avvicinano pericolosamente al biennio di sangue del 2006-7.

Proprio l'Iraq ci insegna che gli USA non hanno alcuna autorità né credibilità per esibire la “pistola fumante” sulle armi chimiche, nonostante sia certo che sono state usate. Dall'ex-Jugoslavia e dalla questione Kossovo in poi, coalizioni di volenterosi aggirano il Consiglio di Sicurezza dell'ONU con attacchi militari che lasciano profonde ferite sulla pelle dei civili, tracce nel DNA delle prossime generazioni, e che acuiscono le divisioni etniche e confessionali alimentando terrorismo e fondamentalismo. Esattamente l'opposto servirebbe per la Siria.

E' quindi urgente che l'opinione pubblica si faccia sentire per scongiurare il rischio di un attacco militare internazionale, ma anche per chiedere alle istituzioni un forte intervento umanitario a sostegno della popolazione civile, uno stretto embargo sugli armamenti, e un'energica azione della diplomazia. Non è facile preparare una conferenza di pace con un regime sanguinario da una parte e un'opposizione estremamente frammentata dall'altra, con interessi contrapposti e le fazioni più forti responsabili di gravi atrocità. Ma il dialogo è d'obbligo e non c'è altra via a quella diplomatica, come sostiene fortunatamente per ora anche il Governo italiano.


Un ponte per... intende lavorare per dare voce, in un processo di diplomazia popolare e di solidarietà tra popoli, alla società civile democratica siriana che ha animato le manifestazioni contro il regime nel 2011, che già prima lavorava nell'ombra per la promozione dei diritti, ma tace ora impotente di fronte all'escalation militare. Loro, donne e uomini, atei e credenti di diverse confessioni, dovranno essere i protagonisti di un futuro processo di transizione democratica e di riconciliazione, e per questo dovranno essere parte attiva della tanto auspicata conferenza di pace a Ginevra.

Dobbiamo questo sforzo anche a Padre Paolo Dall'Oglio, promotore nella sua Siria del dialogo interreligioso e testimone di giustizia, di cui si sono perse le tracce dopo il sequestro da parte di milizie vicine ad Al-Qaeda. Lo crediamo vivo e speriamo nella sua liberazione. Citiamo da un suo scritto dell'ottobre 2012 su Popoli: "L'azione non violenta resta la più urgente. Pensiamo da adesso a come estrarre i giovani da sotto le macerie della violenza alla quale sono stati costretti, per riabilitarli a una società di fraternità solidale".

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