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24 feb 13

Il muro israeliano della follia
di Andre Vltchek e Lynda Burnstein Brayer

Se qualcuno dicesse: “Israele, Palestina e Alture del Golan! E hai solo due secondi per descrivere la prima cosa che ti viene in mente”, allora io metterei immediatamente in parole due immagini che irromperebbero nella mia mente: “Manicomio e un’enorme borsa piena di cavi professionali ingarbugliati”.

Manicomio, perché come altro descrivere quei lunghi decenni di bugie, mezze verità e sotterfugi? Come descrivere altrimenti lo stato delle cose quando il linguaggio perde il suo significato, le parole di trasformano in squiitii spezzettati e gli urli e le persone non sembrano arrivare gli uni alle altre?

I cavi mi verrebbero in mente perché non sono solo uno scrittore ma anche un regista e un fotografo. Non per scelta, ma semplicemente perché a volte, in realtà molto spesso, sento anche che le parole non sono sufficienti per descrivere la realtà. Lavorando devo usare cavi, molti. E odio i cavi: tutti quegli alimentatori e cavi Firewire, i cavi USB e tutto il resto. Li metti in una borsa e si aggrovigliano; non riesci mai a separarli, a raddrizzarli, a trovare le due estremità.

E questo è ciò che è diventata questa parte del mondo: un’enorme rete di cavi, rivestiti di follia.

Non parliamo di politica, per un momento. Affrontiamo i problemi più pratici: come si va dal punto A al punto B?

Come faccio ad arrivare da Rafah a Ramallah? Vedete, anche in questo momento, il mio correttore ortografico di Word mi segnala due errori ortografici relativi a nomi sbagliati, perciò forse le due località non esistono realmente o non hanno alcun significato.

Come si spostano i palestinesi da Betlemme a Gaza City?

Come fanno gli uomini e le donne delle Alture del Golan occupate da Israele a recarsi nella loro patria, la Siria, e come fanno a incontrare i loro parenti? E non facciamo errori tecnici: secondo la legge internazionale la gente delle Alture di Golan in realtà, de jure, risiede in Siria, poiché nessun governo ha riconosciuto l’occupazione israeliana. E’ anche incorporata in Israele non diversamente dagli abitanti di Gaza e della West Bank.

Ma sappiamo tutti, ovviamente, che per raggiungere Majdal al-Shams, la città più grande delle Alture del Golan non si vola a Damasco, bensì a Tel Aviv.

Vi sta già venendo il mal di testa? Fate un respiro profondo perché andrà molto peggio.

In quale paese entrano i giordani o i sauditi se decidono di visitare la West Bank? Entrano in Palestina o in Israele? I sauditi a malapena addirittura pronuncerebbero quella parola, ‘Israele’, (una parola sconcia, anche se, paradossalmente, uno dei loro stretti alleati di fatto nella regione), per non parlare di andarci. E potrebbero, almeno teoricamente, entrare nella West Bank?

Se avete un timbro israeliano sul passaporto non potrete mai visitare la maggior parte dei paesi arabi.  Ma la West Bank è Palestina, anche se è tuttora occupata e frammentata e controllata da Israele. Perciò quale timbro vi verrà apposto sul passaporto? Un visitatore saudita si ritroverebbe timbrata la Stella di David sulle pagine raffinate del suo passaporto?

In quanto straniero io posso atterrare a Tel Aviv e recarmi a Gaza o nella West Bank. I cittadini israeliani no!

Ricordo che all’inizio dell’ultima intifada noleggiai un’auto guidata da un autista israeliano comunista, un brillante studente di storia, che mi scaricò al confine fortificato con Gaza dove cominciò subito la sua epica lotta con le guardie di confine israeliane, prendendoli a male parole e ripetendo un unico, semplice e legittimo punto in inglese, certamente per mio spasso. Il tono era circa questo: “Stronzi, stiamo bombardando questo posto con i soldi delle tasse miei e dei miei genitori. Ho il diritto di andare a vedere come il mio esercito sta assassinando civili!”

La conversazione poi proseguì in ebraico; non ero in grado di seguirla. Ma colsi il punto.

Le guardie di confine israeliane alla fine mi lasciarono passare. Non che a Gaza siano poi state rose e fiori, attenzione! Non molto dopo il passaggio del confine, il mio taxi condiviso finì sotto il fuoco di un elicottero israeliano e solo poche ore dopo mi trovai a lavorare nel famigerato ospedale di Shifa, pieno di uomini colpiti ai testicoli, in testa e agli arti.

Diversi giorni dopo riuscii a passare nel Sinai egiziano, mentre i poveri palestinesi di Gaza restavano nei guai, sigillati e impossibilitati a recarsi in qualsiasi luogo. Il loro aeroporto nuovo di zecca fu prima chiuso e poi distrutto.

 Mentre gli israeliani non possono recarsi nella West Bank, salvo che nei loro veicoli blindati e con le armi puntate in ogni direzione, gli abitanti di Gaza e della West Bank possono, almeno in teoria, recarsi in Israele. Ma solo se riescono ad assicurarsi i permessi necessari. E ottenerli, per gli abitanti della West Bank, è difficile e umiliante, mentre per la popolazione di Gaza la procedura è sadica, offensiva e l’esito è quasi impossibile.

“Hanno reso i palestinesi del tutto dipendenti da Israele”, ha spiegato Tami Sheleff, che aiuta i palestinesi a ottenere i permessi di lavoro israeliani. E’ una volontaria di un’organizzazione ebrea di volontariato chiamata Border Watch [Osservatorio del confine].  “Vivere o morire dipende spesso dal lavorare o no in Israele. Un povero mi ha detto di recente: ‘So che non dovrei passare il confine illegalmente. Se mi prendono sono finito. Ma non ho altra scelta.” E anche quando si ottiene il permesso, la vita non diventa sempre facile. I lavoratori sono alla mercé dei loro capi, sia israeliani sia arabi, e gli arabi non necessariamente sono padroni migliori. I collaboratori arabi sono quelli che assumono i lavoratori palestinesi. Poi hanno un potere assoluto su di loro.”

E’ un caos totale. I miei fastidiosi cavi immaginari sono sostituiti, nella vita reale, da fili spinati taglienti come rasoi, da numerosi strati di cavi ad alta tensione, dai cavi che “decorano” le alte pareti di cemento che dividono intere comunità, che dividono le scuole dai paesi, i paesi tra loro, i campi dai paesi.

Ho scritto che agli israeliani è vietato entrare nei territori occupati, salvo che arrivino a bordo dei loro blindati. Ma naturalmente anche per i civili israeliani c’è un’eccezione: possono recarsi in Palestina se si impossessano di terre palestinesi e diventano ‘coloni’, cosa che molti di loro scelgono di fare. In tal caso possono utilizzare strade speciali e esibire le loro carte d’identità speciali.

***

Mentre guidiamo sulla strada a pedaggio numero 6 da Haifa a Gerusalemme la mia collega di CounterPunch e avvocato dei diritti umani Lynda Brayer sta evidentemente cullando qualche desiderio segreto di uccidermi a mani nude.

Vedo i paesi palestinesi sulla sinistra e sto pretendendo che abbandoniamo l’autostrada e ci spostiamo sulla strada locale. La mia tesi è che ho bisogno di passare attraverso i paesi palestinesi, in continuazione, per farmi un’idea più accurata della situazione. La tesi di Lynda è che “non ce la faremo mai ad arrivare a Gerusalemme”, poiché ci sono infiniti posti di controllo sulle strade secondarie che attraversano la West Bank.

Litighiamo. Linda urla: “I miei figli hanno fatto una ricerca su Google su di te e mi hanno avvertito che se collaboravo con te probabilmente sarei tornata a casa in un sacco per cadaveri”. Soddisfatto nel constatare che la mia buona reputazione è arrivata sino in Israele e in Palestina adotto un approccio conciliativo. Chiedo: “Perché mai non possiamo prendere la strada locale, sul serio?”

“Io non posso andarci”, mi risponde. “Tu puoi, ma io no”.

A un certo punto abbandoniamo la Strada 6 e entriamo nella Strada 423. E io ottengo ciò che chiedevo: le visioni della follia dell’occupazione. La strada è schiacciata tra due alte pareti di cemento, così alte che il Muro di Berlino sembrerebbe un nano al confronto. Le torri di guardia sono dovunque – alte e volgari – e il filo spinato è come la ciliegina sulla torta, a decorare tutte quelle mostruosità.

Dobbiamo superare un posto di controllo. Poi, pochi minuti dopo, Lynda spiega: “Qui, la scuola che vedi a sinistra … i bambini devono passare attraverso un tunnel sotterraneo per arrivarci da casa loro. In mezzo ci sono insediamenti ebraici e ai bambini non è permesso attraversarli.”

Vedo altri cavi, cavi dappertutto. A fatica riesco a individuare la scuola.

 Dalla terrazza dell’Istituto Ecumenico Tantur di Gerusalemme si possono godere due brillanti viste: una sul quartier generale dei servizi segreti israeliani e l’altra sul mostruoso muro che circonda la città palestinese di Betlemme.

A questo punto sono stanco di muri, nauseato dai muri, i muri mi fanno venir voglia di vomitare.

Per diversi giorni abbiamo visitato le Alture del Golan occupate da Israele, non vedendo quasi altro che muri e cavi. Ci sono diversi strati di filo spinato percorso da corrente elettrica ad alta tensione tra il Golan occupato e la Siria, tra Israele e il Libano. Ci sono fili e campi minati; alcuni sono vecchi fili spinati arrugginiti, altri sono nuovi di zecca; ogni genere di fili. L’industria israeliana dell’acciaio deve passarsela tremendamente bene!

Dopo giorni e giorni a imbatterti in fili, cominci a chiederti dove stiano le persone; sembrano così piccole, si nascondono da qualche parte dietro ai fili; sono umiliate dai fili, intimidite dai fili, separate dai fili.

A un certo punto tutti questi fili ti fanno diventare matto; ti chiedi come sarebbe sposare un cavo, fare l’amore con un cavo, avere qualche cavo intelligente come animale da compagnia.

Poi ti rendi conto che è ora di lasciare Israele e i territori occupati, e di andartene molto alla svelta. Naturalmente tu puoi farlo, ma i palestinesi no! Sono bloccati da questi maledetti cavi!

Nel corso dell’ultima serata che ho trascorso in questa parte del mondo, prima di tornare al Cairo, sono andato in giro per la città vecchia di Gerusalemme. Come sempre, la città era magnifica, una delle più belle aree urbane della terra.

Gerusalemme o Al-Quds? Secondo il Word del mio computer, si trattava decisamente di Gerusalemme, perché ‘Al-Quds’, come tutte le città palestinesi, mi è stato sottolineato in rosso come errore.

Ma persino Gerusalemme era divisa. Qui i fili sono immaginari, non reali, o almeno la maggior parte di essi.

Ho chiesto a un negoziante arabo la direzione per la Moschea di A-Aqsa. Mi ha chiesto se fossi mussulmano. Ho risposto che non ho religione ma che volevo vedere la moschea. Ha cominciato a urlare insulti in arabo. Poi sono stato avvicinato da un ragazzino che si è offerto di accompagnarmi al Monte del Tempio e alla Chiesa della Roccia. Una vecchia ci ha sentito e ha cominciato a rimproverare il ragazzo spiegandogli che accompagnarmi sarebbe stato haram.

Alla fine mi sono mosso da solo, chiedendo indicazioni. Ho trovato l’ingresso principale, sorvegliato da due guardie israeliane: “E’ mussulmano?” mi hanno chiesto. “No”, ho detto, “Nessuna religione”. “Non può entrare,” hanno replicato. “E’ solo per loro”.

Ho telefonato a miei amici. “Non ti lasceranno passare”, mi hanno spiegato. “Qualche giorno fa un gruppo di ebrei è entrato nella moschea di Al-Aqsa è ha cercato di pregarvi.”

“Sarebbe stato normale durante il Califfato di Cordoba,” sono stato per dire, ma ho cambiato idea. Quelli erano tempi molto diversi.

Ho avvertito diffidenza e un’atmosfera pesante, tesa su tutta la città vecchia.

A un certo punto ho raggiunto uno dei varchi che conducono al Monte del Tempio. Una guardia comprensiva mi ha permesso di avvicinarmi all’ingresso. “Non attraversi. Non entri.” C’erano perimetri dappertutto, alcuni immaginari, alcuni reali; e divieti, uno sopra l’altro.

Per raggiungere il Muro Occidentale, o Muro del Pianto, si devono superare elaborati metal detector, passare attraverso le misure di sicurezza reali.

Camminando mi chiedo se questa città abbia mai vissuto in pace, se mai ci si potrà trovare a proprio agio qui.

Nelle vicinanze del Muro, in un piccolo caffè, chiedo indicazioni. Devo incontrare Lynda in via Salah ad Din, a Gerusalemme Est. Il proprietario mi lancia un’occhiataccia. “Non ho idea di dove sia,” risponde con tono rude.

Cammino e poi chiedo indicazioni a un venditore dall’aspetto di arabo. “Continui diritto, fino in fondo, per quindici minuti,” risponde. “Esca attraverso la Porta di Damasco e segua il muro antico.”

Seguo il suo consiglio. Esco, attraverso la Porta di Damasco e poi vedo il Muro, magnifico e storico. Ma non mi interessa. A questo punto, per me, un muro è un muro. Mi fanno tutti sentir male, nauseato. Il mio stomaco si ribella. Mi vien da vomitare.

Abbasso lo sguardo; mi scuso con questo magnifico muro che fa parte del sito dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Ma non posso farci nulla; questo muro è uno dei troppi. Cammino rapidamente lungo la strada che ha preso il nome dal grande sultano anti-imperialista che, molti secoli fa, cacciò gli europei da queste terre tragiche, il sultano Salah al Din.

  “Scappiamo a Betlemme, in Palestina”, suggerisco a Lynda quando mi raccoglie con l’auto di fronte alla stazione di polizia.

“Non posso,” dice. Poi, dopo qualche momento di esitazione: “OK, andiamo; conosco vie secondarie.”

E’ buio e dobbiamo fermarci sull’autostrada a un altro di questi sofisticati posti di controllo. Facciamo un’inversione a U, poi usciamo dall’autostrada e ci dirigiamo su per la collina. La polizia ci ferma. Lynda parla ebreo. Un cappello elaborato copre il suo velo. Pensano che siamo due coloni ebrei e ci lasciano passare.

“Ho vissuto qui,” spiega Lynda. “Sono stata l’avvocato che ha creato la ‘Società di S. Yves – Centro Cattolico dei Diritti Umani”

Ce l’abbiamo fatta. Ora attraversiamo Betlemme è Lynda sta imprecando: “Hanno cambiato tutto. Tutte queste strade sono a senso unico adesso. Non riconosco niente.”

Ma adesso io semplicemente rido. Dopo giorni nelle Alture del Golan, dopo tutti quei muri, i resti dell’occupazione e dopo i più recenti gadget dell’occupazione, finire il mio lavoro di notte qui, in Palestina, è la cosa più logica da fare.”

“Adesso sperpereremo,” mi informa Lynda. “Iniettiamo qualcosa nell’economia palestinese. E’ la mia sorpresa. Visitiamo il magnifico hotel Jacir Palace, costruito durante l’Impero Ottomano e  vecchio di più di cent’anni.”

Mi mostra il suo Centro dei Diritti Umani dal quale la Chiesa Cattolica Romana l’ha bruscamente licenziata perché Israele riteneva che lei fosse “ostile”! E ci fermiamo per alcuni secondi a una rotatoria.

Poi lo vedo. “Dannazione!” urlo. C’è IL MURO, il muro israeliano, dal lato palestinese. E’ enorme, disumanamente grande, e nauseante più di qualsiasi altro muro io abbia mai visto. Vi è inserita una torre di guardia. In qualche modo sembra un piranha, solo senza i denti.

C’è un graffito: “Questo è territorio occupato illegalmente. Stato palestinese. 194.”

Poi alcune altre scritte come: “Lasciate la Palestina. Basta con il terrore!”

E. “La rivoluzione è cominciata qui! E continuerà …”

Penso all’Egitto, a Porto Said, a piazza Tahrir e agli scontri davanti al palazzo presidenziale del Cairo. Penso al presidente Morsi e al suo governo che, con assoluta indifferenza per il popolo palestinese, ha proprio recentemente inondato la galleria che collega Gaza e il Sinai. Ha distrutto l’unica ancora di salvezza sulla quale contava la gente di Gaza. “Che solidarietà!” penso. La rivoluzione è cominciata qui!

Nel Jacir Palace, che ora appartiene alla catena Intercontinental, un cameriere – Hassan – cerca di porre in prospettiva tutta questa follia, le restrizioni, i divieti e le divisioni dell’occupazione.

“Quando mi sposto, viaggio con il mio passaporto palestinese”, risponde alla nostra domanda. “Non posso recarmi in Israele senza il permesso.”

E nella capitale della Palestina, Ramallah?

“Posso andarci, passando per Wadi Naar, la “Valle del fuoco”, attraverso posti di controllo israeliani. Ci possono facilmente volere più di due ore, anche se è molto vicina a volo d’uccello.”

Lynda borbotta che solo per arrivare da Ramallah a Gerusalemme, per quelli che hanno il permesso, a volte ci possono volere tre ore! A senso unico!

E quando si vuole andare a Gaza?

“Quella naturalmente è tutta un’altra faccenda. Non possiamo andarci a meno di ottenere il permesso da Israele, il che è quasi impossibile.”

“Noi, israeliani, non possiamo andarci affatto,”  dice Lynda. “Ci si può andare, in teoria, ma si deve avere un permesso e per quello ci vuole una fatica da Sisifo.”

“Sai di qualcuno di qui, di Betlemme, che sia riuscito a recarsi a Gaza?” chiedo.

“No,” risponde il cameriere.

Ci viene detto che durante l’alta stazione, questo magnifico hotel in stile ottomano è pieno di turisti russi, coreani e giapponesi. Ma difficilmente ci vengono arabi. Possono venire o non possono?

Mi gira la testa per tutti questi cavi, muri e divieti.

Passiamo vicino a due agenti della polizia palestinese.

“Fai una foto”, dice Lynda. Fotografo due ragazzi in uniforme, con l’elmetto in mano. Sorridono, persino si mettono in posa per noi.

“Benvenuti in Palestina”, sorridono.

“Grazie,” rispondiamo, mentre gli occhi ci cadono sulla mostruosa torre di guardia a solo pochi passi di distanza.

Più tardi, a notte, dentro l’auto, ci avviciniamo a un posto di controllo israeliano prima di entrare a Gerusalemme. Chiedo a Lynda:

“Quando sei a Tel Aviv o ad Haifa puoi escluderti da tutta questa realtà e vivere in uno dei paesi più ricchi e più confortevoli del mondo, vero?”

“E’ vero,” risponde. “Se dimentichi quello che Israele sta facendo alla Palestina e ad altri, puoi avere la tua elevata cultura, sofisticazione e benessere.”

“La gente sa? Le interessa?”

“La maggior parte vive nel negazionismo,” risponde. “Preferisce vivere in quella che è chiamata “la bolla”! Li considero egoisti. Preferiscono non vedere. Non sapere.”

Per un po’ guidiamo in silenzio.

“Tutti quei muri che abbiamo visto,” dico. “Tutti quei fili … non sarà facile smantellarli.”

“Per niente facile”, concorda.

“E’ lì che il realismo fallisce,” suggerisco. “Così tanti sanno, in teoria, che questo è sbagliato. Possiamo fornire loro numeri, analisi, risoluzioni dell’ONU appoggiate dal mondo intero ma bloccate dagli Stati Uniti … Possiamo dichiarare e ripetere tutte queste conclusioni morali, in continuazione … Ma un approccio di questo tipo fallisce da anni e decenni. Non cambia nulla.”

“E allora cosa servirebbe?”

“Non ne ho idea. Poesie, canzoni, film, romanzi … “ penso ad alta voce. “Il muro. I Muri; non sembrano reali, vero? Non esistono, vero? Se esistessero sarebbero una follia. Forse dovremmo cercare di dimostrare che esistono solo nella nostra immaginazione, che non sono reali, che sono solo un incubo. E se riuscissimo a dimostrarlo, alla fine potrebbero sparire.”

“Provaci”, dice.

“E’ solo un’idea,” dico io. “Cominciamo a essere al verde di schemi, vero?”

 Lasciando Israele mi sono sentito improvvisamente amato, compreso e apprezzato.

Due agenti del Mossad (o di qualsiasi altro organismo fossero) hanno voluto sapere tutto della mia vita. Quanti figli ho, i miei matrimoni e divorzi.

Hanno voluto sapere tutto. Hanno studiato il mio passaporto, la mia tessera della stampa, i miei certificati di residenza, le mie patenti di guida e i miei permessi sul territorio.

“In questa” ha detto uno con un sorriso malinconico, indicando la tessera d’identità del Circolo dei Corrispondenti Esteri della Tailandia, “non sembri tu.”

“Sai,” ho confessato. “E’ stata scattata nove anni fa … sono invecchiato.”

“Oh no,” cominciano a consolarmi entrambi. “Sei in gran forma! E’ solo che la foto in qualche modo non corrisponde …”

Abbiamo parlato della mia infanzia, della mia giovinezza, dei miei libri e dei miei film.

Hanno posto domande e hanno ascoltato. Non mi è mai capitato di avere una relazione con una donna che mi ponesse tante domande personali e importanti e che ascoltasse così attentamente tutte le mie risposte. E questi prendevano anche appunti!

Il tutto è durato almeno mezz’ora. Poi è arrivato il loro capo e mi ha posto altre domande. Ci siamo raccontati delle barzellette. Si sono comportati come se fossero stati miei colleghi.

Una volta concluso che ne avevano saputo abbastanza su di me, mi hanno permesso di proseguire al banco della Royal Jordanian. Mi sono sentito un po’ deluso; stavo cominciando a godermi la nostra conversazione a proposito dei miei libri e dei miei film. Ma a quel questo già mi sentivo puro, commosso quasi fino alle lacrime. Come dopo una confessione. Non che io ne sappia granché delle confessioni, non avendo religione … Ma è così che mi sono immaginato ci si debba sentire…

“Ora,” ho pensato, “tutto è detto e perdonato. Tutti i peccati sono svaniti nel nulla …”

Dunque ora, ragazzi, possiamo ricominciare daccapo. Vi prenderò a calci nel sedere, con tutta la mia forza, fino a quando non libererete le vostre colonie. Fino a quando non ci incontreremo di nuovo; fino alla prossima confessione.

“Puoi restituire l’auto” ho scritto un messaggio a Lynda, la mia collega di CounterPunch, la mia “madre ebrea”. “E dì ai tuoi figli che stai tornando a casa tutta d’un pezzo e non in sacco per cadaveri.”


Andre Vltchek è un romanziere, regista e giornalista d’inchiesta. Si è occupato delle guerre e dei conflitti in dozzine di paesi. Il suo libro sull’imperialismo occidente nel Pacifico del sud – Oceania – è pubblicato da Lulu. Il suo libro provocatorio sull’Indonesia post-Suharto e il modello fondamentalista del mercato s’intitola “Indonesia – The Archipelago of Fear”  [Indonesia – l’arcipelago della paura] e sarà [è stato – n.d.t.] pubblicato dalla Pluto Publishing House nell’agosto 2012. Dopo aver vissuto per molti anni in America Latina e in Oceania, Vltchek attualmente risiede e lavora nell’Asia Orientale e in Africa.

Lynda Burstein Brayer, laureata alla Facoltà di Legge dell’Università Ebraica di Gerusalemme, avvocato esperto di diritti umani in Palestina/Israele, risiede ad Haifa, Palestina, e ora scrive saggi politici e critici di legge. Oggi è consapevole che i diritti umani sono stati inventati al fine di aggirare diritti politici ed economici inalienabili ed è una dissidente antisionista […] Può essere raggiunta all’indirizzo jamillainbari@yahoo.com.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: http://www.counterpunch.org/2013/02/22/israels-wall-of-madness/

Originale: Counterpunch

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