Corriere della sera

14 giugno 2016

 

A napoli de magistris contro il referendum schiera la giunta. Delibera sul «rischio di deriva autoritaria»

di Fulvio Bufi

 

Napoli. È contenuto nella delibera della giunta comunale di Napoli numero 332 del 5 maggio 2016 l’ atto politico più concreto del sindaco Luigi de Magistris in qualità di aspirante leader antirenziano che guarda più al referendum di ottobre che alle elezioni del 2018.

Ben oltre le parole, pure forti, usate in campagna elettorale. Quel «Renzi ti devi cacare sotto», urlato dal palco nel giorno della presentazione delle liste; oppure «Napoli capofila di un movimento europeo di città ribelli contro un sistema mafioso, clientelare e corrotto», sintesi del suo programma di governo per i prossimi cinque anni, sono appunto slogan buoni per raccogliere consensi e voti, e arrivare facilmente alla riconferma del mandato. Una delibera, invece, è un atto ufficiale. E in quella del 5 maggio non solo il sindaco ma l’ intera giunta comunale di Napoli si schiera ufficialmente contro il referendum costituzionale.

 

Non si può dire che sia la città di Napoli a mettersi contro la proposta di riforma, e quindi contro il governo Renzi, perché si tratta di un atto di giunta e non del consiglio comunale. Ma è comunque una presa di posizione forte. Che arriva al punto E del documento che ha per oggetto la «adesione del Comune di Napoli alle campagne referendarie in corso». Di per sé parrebbe un atto quasi formale: ogni Comune, quando ci sono in corso campagne referendarie, deve deliberare di impegnarsi, per quanto di sua competenza (attivando propri uffici, stampando e distribuendo moduli, ecc.), a fare in modo che queste campagne possano svolgersi regolarmente e che i cittadini possano essere informati su quali sono le proposte dei comitati promotori.

 

Ma stavolta a proposito del referendum costituzionale, la delibera entra nel merito: «L’ amministrazione comunale intende sensibilizzare l’ opinione pubblica in vista delle ragioni del no, esprimendo un fortissimo allarme per la deriva autoritaria introdotta dalla legge costituzionale in questione, la quale stravolge l’ impianto istituzionale democratico voluto dai costituenti. La stabilità del governo non può produrre una alterazione così profonda del principio di rappresentanza democratica sul quale si fonda l’ intera architettura dell’ ordinamento costituzionale vigente».

 

«Che cosa c’ entri un’ amministrazione comunale con l’ appuntamento di ottobre non è dato sapere», si chiede il giornalista Claudio Velardi (una delle voci sempre critiche nei confronti di de Magistris) in un articolo pubblicato sul sito ilrottamatore.it.

 

La risposta è nella parte finale del documento, quello appunto in cui sono elencate le deliberazioni della giunta. Che a proposito dei referendum non si limita a garantire il corretto svolgimento di tutte le campagne (si fa riferimento anche alle azioni in corso per l’ abrogazione della legge sul jobs act, quella sulla buona scuola e altre), ma decide anche di aderirvi. «Questo significa – spiega l’ assessore al Lavoro Enrico Panini, che ha redatto la delibera insieme all’ ex assessore Alessandra Clemente – che l’ amministrazione comunale diventa soggetto attivo di queste campagna. E cioè che oltre a quanto è tenuta a fare per compito istituzionale, organizza anche propri punti per la raccolta delle firme, perché sceglie di sostenere così un atto che condivide».

 

Si tratta di una eventualità prevista e regolamentata, e quindi non è una fuga in avanti della giunta de Magistris. Però un commento politico come quello in cui si parla di «deriva autoritaria», è difficile trovarlo in una delibera di una qualsiasi amministrazione comunale.

 

«De Magistris confonde Palazzo San Giacomo con la sede di un comitato per il No», si lamenta Elisabetta Gambardella, presidente del Pd metropolitano di Napoli. Ma a lei e alle critiche in generale, risponde ancora l’assessore Panini: «Una delibera è un atto di politica istituzionale, e noi non abbiamo fatto altro che riprendere il punto di critica principale che cinquanta costituzionalisti hanno fatto a queste riforme».

 

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