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20/6/2017

 

“Gaza sta morendo nel silenzio complice della comunità internazionale”

 

“Gaza sta morendo nel silenzio complice della comunità internazionale. Oltre 1.800 milioni di persone, il 56% minorenni, sopravvivono in una immensa prigione a cielo aperto, completamente isolata dal mondo. È una condizione disumana che nulla ha a che vedere con il diritto alla difesa invocato e praticato da Israele per giustificare un embargo che dura ormai da oltre dieci anni. Le punizioni collettive sono contrarie al diritto internazionale e alla stessa Convenzione di Ginevra. Faccio appello alle Nazioni Unite perché intervengano per porre fine all’embargo. Solo così Gaza potrà tornare a vivere e i suoi giovani a immaginare un futuro”. A parlare, in questa intervista esclusiva rilasciata all’Huffington Post, è Mairead Corrigan Maguire, Premio Nobel per la Pace nordirlandese, presidente della Nobel Women’s Iniziative, l’organizzazione composta dalle done che hanno ricevuto questo prestigioso riconoscimento. “Negli occhi dei bambini di Gaza – dice Maguire all’HP – ho visto dolore, smarrimento, paura. In tanti hanno conosciuto solo guerra, morte, distruzione. A questi bambini è stata rubata l’infanzia e a molti di loro la vita stessa. In questo contesto, come si può pensare di predicare il dialogo e scegliere la pace?”.

 

Le Ong che operano ancora a Gaza hanno lanciato un appello disperato: a Gaza manca tutto, l’elettricità, i medicinali, con l’arrivo dell’estate si fa sempre più immanente il rischio di epidemie di tifo…

“È una situazione disperata, prodotta in massima parte dall’embargo imposto da Israele e che dura ormai da oltre dieci anni. Dieci anni d’inferno, di guerre, di distruzione. Israele ha il diritto a difendersi, ma ciò che sta subendo la popolazione civile della Striscia di Gaza va ben al di là di un eccesso di legittima difesa. Siamo di fronte a punizioni collettive che vengono inflitte indistintamente a civili e miliziani, e che colpiscono soprattutto i più deboli: i bambini, gli anziani, i malati. A Gaza è razionata l’elettricità, le fogne sono a cielo aperto, negli ospedali comincia a scarseggiare il plasma e per i più piccoli il latte in polvere. Questo non è diritto di difesa, questo è un crimine contro cui ogni coscienza libera dovrebbe ribellarsi in nome dell’umanesimo che è un valore che appartiene a tutti e che tutti dovrebbero praticare, come più volte ha ripetuto Papa Francesco”.

 

Israele imputa ad Hamas la responsabilità di questa situazione.

“Sono da sempre fautrice della disobbedienza civile e della resistenza non violenta. Ho vissuto gli anni terribili della guerra in Ulster e la mia famiglia ha pagato un prezzo pesantissimo in quel conflitto. Ho imparato allora la potenza del dialogo, dell’unirsi per chiedere pace, perché l’altro da sé non venisse visto come un nemico ma come qualcuno con cui incontrarsi a metà strada. Ma Israele sta abusando della sua forza, e nel farlo commette un grave errore…”.

 

Quale?

“Quello di illudersi che la pace e la sicurezza possano essere garantite e preservata dalla forza militare. Non è così. La pace, per essere davvero tale, deve coniugarsi con la giustizia. Senza giustizia non c’è pace. E non c’è pace quando un popolo è sotto occupazione, quando viene derubato della sua terra o segregato in villaggi-prigione. Quello palestinese è un popolo giovane, e intere generazioni sono nate e cresciuto sotto occupazione, passando da un conflitto all’altro, senza speranza, con la sola rabbia come compagna. E dove c’è rabbia, dove la quotidianità è sofferenza, è impossibile che cresca la speranza”.

 

Lei ha visitato più volte Gaza e altre volte è stata respinta da Israele. Come ci si sente nei panni di “nemica d’Israele”?

“Quei ‘panni’, per usare la sua metafora, io non li ho mai indossati. Ho imparato sulla mia pelle cosa significhi discriminazione e odio. Io mi sento amica d’Israele e un amico vero è quello che prova a convincerti che stai sbagliando, che proseguendo su una certa strada finirai male. E’ questo che provo a dire agli israeliani: riconoscere il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente, al fianco del vostro Stato, porre fine all’embargo a Gaza e alle inumane punizioni collettive, è fare onore a voi stessi, alla vostra storia. È investire su un futuro di pace che non potrà mai essere realizzato con le armi. Lo ripeto: non si può spacciare l’oppressione come difesa. Questo è immorale. La colonizzazione non favorisce la pace, ma alimenta l’ingiustizia. Da tempo nei Territori vige un sistema di apartheid e denunciarlo non significa essere “nemica d’Israele” e tanto meno anti semita. Significa guardare in faccia la realtà”.

 

La questione palestinese sembra essere uscita dall’agenda dei leader mondiali, concentrati sulla lotta al terrorismo dell’Isis.

“È terribile il solo pensare che per ‘far notizia’ si debba usare l’arma del terrore. E’ una cosa terribile, contro cui continuerò a battermi in ogni dove. La violenza è un vicolo cieco, un cammino insanguinato. Ma cinque milioni di palestinesi non sono diventati tutto ad un tratto dei ‘fantasmi’. Non si sono volatilizzati. Continuano a vivere sotto occupazione e sotto un’apparente ‘tranquillità’ cresce la rabbia, la frustrazione, sentimenti sui quali possono far presa gruppi estremisti. Per questo occorre rilanciare il dialogo dal basso, favorire le azioni non violente, la disobbedienza civile, e in questa pratica unire palestinesi e israeliani, musulmani, cristiani, ebrei, come riuscimmo a fare noi in Irlanda del Nord, marciando insieme cattolici e protestanti. E poi c’è la diplomazia, la politica, che è fatta anche di atti simbolici che possono avere in prospettiva un grande peso”.

 

Un atto del genere quale potrebbe essere a suo avviso?

“Il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un atto politicamente forte, che faccia rivivere l’idea di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Sarebbe un bel segnale se fosse l’Europa, come Unione e non solo come singoli Paesi membri, a rilanciare questa prospettiva. In nome di una pace nella giustizia. La pace vera. Un mondo senza guerra e violenza è possibile”.

 

C’è chi per quest’ultima affermazione le darebbe dell'”utopista”.

“Senza utopia il mondo sarebbe ancora peggiore di quello che è. Senza le “utopiste” le donne avrebbero atteso chissà quanto altro tempo prima di conquistare il diritto di voto nella “civile” Europa…Ma quando parlo, in giro per il mondo, di solidarietà verso i più deboli, quando sostengo che può esistere un mondo senza guerra e violenza, ecco, in quel mondo non mi sento un’utopista ma una realista. La guerra non è mai la soluzione, la guerra è il problema. Questo vale per la Palestina come per la martoriata Siria, dove un popolo intero è ostaggio di una guerra imposta da potenze regionali che hanno favorito, non per il bene dei siriani ma per i propri interessi, la crescita del terrorismo sanguinario dell’Isis. Non saranno le bombe che daranno pace al popolo siriano, che ha diritto di scegliere liberamente chi dovrà guidarli, senza imposizioni esterne”.

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