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19 Maggio 2018

 

La democrazia ha fallito, il futuro è la panarchia

di Andrea Coccia

 

Nata da intuizioni visionarie nella metà dell'Ottocento e sopravvissuta al Novecento, l'utopia panarchica di un mondo senza stati né confini in cui ognuno è libero di autodeterminarsi su base volontaristica sta avendo nuova fortuna e nuovi consensi 

 

Immaginatevi di essere al supermercato e che abbiate bisogno di un pacco di carta igienica. Arrivate nel reparto igiene e salute e davanti a voi vi si para una muraglia di confezioni tutte diverse, di decine di marche differenti che offrono, a prezzi diversi, carte adatte ad ogni tipo di chiappe, di consistenze, colori, lunghezze diverse. Davanti a quella muraglia, ognuno di voi sceglie, come d'altronde fa in praticamente ogni atto della propria vita, a seconda dei propri gusti e, giustamente, non si capaciterebbe mai se si trovasse, al posto di quella varietà meravigliosa di carte igieniche, una muraglia monomarca scelta sulla base del comportamenteo della maggioranza. La maggioranza comprava quella marca? D'ora in poi si venderà solo quella.

Se questa scena ambientata in un supermercato vi sembra assurda, pensate che, in maniera molto semplificata, è sostanzialmente così che funziona la nostra vita politica sotto il regime odierno, ovvero la Democrazia rappresentativa parlamentare partitocratica a base territoriale e di stampo riformista liberale. Detto per esteso, il nome fa impressione, ma che significa? Semplicemente che quando andiamo a votare ognuno ha il diritto di scegliere i propri rappresentanti per formare un parlamento, la cui vita viene regolata dai partiti, che ha il compito di legiferare e formare un governo che metta quelle leggi le metta in pratica. La chiamiamo "Democrazia", e se usiamo la maiuscola è per distinguerla dalla sua versione minoritaria, la "democrazia".

La prima, quella maiuscola, è infatti quella a stampo maggioritario, ovvero quella che dà il potere di governo al partito che ha preso la maggioranza dei voti alle elezioni e, di conseguenza e a seconda del grado di maggioritario costituzionalmente accettato dal paese in questione, rende quasi ininfluente l'esistenza e le idee delle minoranze. Forse chiamarla dittatura della maggioranza è un po' troppo, ma di certo è un sistema che di realmente democratico ha conservato poco.

La seconda, quella minuscola, più che ai nostri sistemi di rappresentanza politica racconta meglio le dinamiche che stanno alla base dei nostri scambi commerciali. Esattamente come nella scelta della carta con cui pulirsi le chiappe, la democrazia minuscola garantisce che ogni volontà espressa possa essere accontentata: se non vuoi la carta igienica che compra la maggior parte dei tuoi concittadini puoi semplicemente sceglierne un'altra. È un libero mercato. Non è un monopolio, né un cartello, e nessuno di noi sarebbe mai disposto a fare cambio con il suo opposto.

Ma allora, come mai pretendiamo di poter scegliere individualmente con che carta pulirci il culo, mentre invece accettiamo di buon grado il fatto che a governarci non sia il partito che abbiamo scelto o, ancor di più, viviamo come naturale lo stato di monopolio politico in cui viviamo?

È sostanzialmente questa la provocazione che muove dall'idea di Panarchia, un metodo — mi raccomando, non chiamatela ideologia politica — che ha una storia travagliata e dispersa in mezzo mondo nell'ultimo secolo e mezzo, che negli ultimi anni si sta risvegliando, interessando sempre più studiosi, intellettuali e appassionati di teoria politica e che, giusto giusto un anno fa si è concretizzata in una antologia curata da Gian Piero de Bellis per la collana Eschaton di D Editore, curata da Raffaele Alberto Ventura.

In Panarchia c'è tutta la storia dell'idea: dalla sua nascita, nel pieno del Diciannovesimo secolo in Francia per opera di Gustave de Molinari e Paul Emile de Puydt, alla sua riscoperta, avvenuta in ambienti anarchici all'inizio del Novecento, fino alla sua ripresa e diffusione, negli anni Ottanta, grazie al lavoro dell'austriaco John Zube, dal misterioso e semisconosciuto californiano Le Grand E. Day (che sembrerebbe quasi inventato da un Roberto Bolaño qualsiasi) e dallo stesso Gian Piero de Bellis, curatore dell'antologia. E c'è da ammettere che, a leggere uno dopo l'altro i ragionamenti di questa schiera di sconosciuti libertari sparsi per gli ultimi quindici decenni, si oscilla spesso tra il pensare di aver di fronte una mandria di pazzi e o una banda di geni.

Tra le proposte più interessanti di questa bizzarra idea di società multiculturale, volontaristica e ipertollerante, ce ne sono alcune visionarie ma decisamente al passo con i cambiamenti epocali che la nostra società sta vivendo: dalla constatazione dell'inutilità economica e politica degli antiquati stati nazione, alla intuizione della necessità di moltiplicare i non-stati, le comunità, gli associazionismi, ovvero strutture liquide e puntiformi, come stati senza territorio di un mondo senza frontiere fisiche, un po' come lo sono le religioni, le assicurazioni, le squadre di calcio.

E se qualche nuvolona nera e inquietante sulla strada utopica che porta alla Panarchia c'è eccome — dalla sua fiducia disinvolta verso il libero mercato ereditata dall'anarco-capitalismo fino alla mancanza di idee concrete su come si possa realmente perseguire la disarticolazione dei vecchi cari stati nazione in direzione panarchica— è altrettanto certo che dalle pagine di questa antologia emerge un richiamo al valore più importante ma che paradossalmente è messo più a repentaglio in questa nostra epoca dell'egocentrismo, l'unico vero ingrediente necessario e imprescindibile per uscire dall'impasse in cui sono finite le democrazie liberali e che minaccia la loro stessa esistenza: la tolleranza, una tolleranza che prende le mosse da quella illuminista verso la religione e che viene rilanciata sulla politica.

E sulla scia di questa convinzione, di questo amore totalizzante per la libertà e per la tolleranza che, nel 1980, l'attivista libertario Karl Hess scrisse il saggio incluso nel volume, Anarchia senza additivi ideologici, un saggio che decise di chiudere in questo modo, con una delle più belle definizioni di libertà:

«Io sono un anarchico. Ho bisogno di sapere che lo sono, e che anche tu lo sappia. E poi, io sono uno scrittore e un operaio saldatore che vice in una certa località, con certi ritrovi, e con certe persone. E anche questo tu puoi saperlo. Ma non c'è alcuna aggiunta al mio essere anarchico. La libertà, in sostanza, non è una una scatola dentro al quale forzare gli individui. La libertà è uno spazio aperto in cui le persone possono vivere. Non dice come esse devono vivere. Dice solo, da sempre, che noi possiamo vivere in libertà».

In attesa di capire se questa panarchia sia la più folle e sgangherata delle utopie politiche o se sia invece il più geniale e rivoluzionario modo che l'essere umano ha per guadagnarsi finalmente la vera libertà e la completa emancipazione e autodeterminazione, facciamo i conti con questa frase. E cerchiamo di capire una volta per tutte che diavolo sia realmente la libertà che andiamo cercando.

 

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