Da La Repubblica

5 ottobre 2018

 

Francesca Borri intervista Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza

 

Quando dico che ho incontrato Yahya Sinwar, la prima domanda è: E dove? In un tunnel? No. Nel suo ufficio. Ma anche in altri uffici, in giro per ministeri o per negozi, officine, ospedali, in caffè, in case di famiglie qualsiasi. Per mezz'ora o tre ore. Da solo o con altri. Per cinque giorni. Libera di parlare di tutto. E con chiunque altro, nel resto del tempo. 
Nessuna restrizione.
E né ho avuto paura. Mai. Mai un momento in cui mi sia sentita a rischio. 
Siamo arrivati a questa intervista dopo una lunga trattativa. Come è normale, però - anche perché negli ultimi anni mi sono occupata soprattutto di Siria, e avevo un po' perso i rapporti con Hamas. Mi hanno quindi aiutato altri palestinesi, e in particolare uno dei leader di lungo corso, che non è di Hamas, e anzi: è della sinistra laica. Ma è uno dei mediatori dei governi di unità nazionale. E l'unità nazionale, qui, è quella che vogliono tutti. Mi hanno seguito e sostenuto in tanti, palestinesi noti ma anche palestinesi comuni, che mi hanno chiamato, scritto, fermato per strada: perché volevano che Hamas, finalmente, parlasse, si aprisse, ma anche perché volevano che fosse ascoltata. Che fossimo noi ad aprirci. Yahya Sinwar dice più volte: Siamo parte di questa società, indipendentemente dai numeri. Ed è vero. Anche i palestinesi che mai voterebbero Hamas, criticano l'isolamento di Hamas. Ti dicono: Hanno vinto le elezioni. E' la democrazia.
E mi hanno aiutato anche islamisti di altri paesi. Che qui non citerò: ma che ci ricordano quanto la questione palestinese, oggi un po' in secondo piano, per noi, con tutti i riflettori puntati sui jihadisti, resti primaria per tutti i musulmani. Emotivamente, non solo politicamente.
Dico "aiutato" non perché sia stato necessario convincere Hamas che non sono del Mossad. Il mio lavoro, per fortuna, parla da sé. No. Ma è stato necessario convincere Hamas che conoscevo Hamas. Che conoscevo la sua storia: e che quindi, non avrei frainteso niente. Ero in un ufficio di Hamas, a giugno, e al muro, c'era la foto del suo fondatore, Ahmed Yassin. C'era anche un altro giornalista. E ha detto: Certo che qui al-Qaeda resta un punto di riferimento.
L'ha scambiato per Ayman al-Zawahiri.
E però una volta raggiunta l'intesa, non mi sono mai sentita a rischio. Mai. E onestamente, su questo non avevo dubbi. So bene che alcuni a Gaza sono contrari al cessate il fuoco che Hamas, la Hamas di Yahya Sinwar, propone. Ma con gli islamisti, e forse, in fondo, con chiunque, è solo questione di trasparenza. Se sei onesto, se rispetti le regole, non hai problemi. E anzi, a quel punto, prima che un giornalista, sei un ospite: ti difenderanno da tutto e tutti. 
Sono uomini di fede. E come tutti gli uomini di fede, sono uomini di parola.
Quello che mi ha colpito è stato piuttosto rileggere i libri su Hamas che ho studiato all'università. Dieci anni fa. Avevano appena vinto le elezioni, ed erano i mesi dell'embargo, e degli scontri strada a strada con Fatah, i mesi dei raid contro le radio, contro la musica, l'alcol, le sigarette. I mesi della Polizia del vizio e della virtù. E in quei libri, non si parlava che di sharia. Di un futuro cupo di mani mozzate ai ladri. Donne segregate. Niente che, adesso, mi fosse minimamente utile. Erano tutti libri sull'Islam. Sulla compatibilità tra l'Islam e la democrazia. E invece, dieci anni dopo, non abbiamo parlato che dell'occupazione.
E della sua compatibilità con la vita.
Sono arrivata con un hijab, è vero. In segno di rispetto. Ma insistevano tutti: e alla fine, ho dovuto arrendermi e toglierlo. In segno del rispetto di Gaza per me.
Gaza è cambiata profondamente. E in realtà, se non fosse che è al collasso non solo fisico, ormai, ma psicologico, è splendida. Perché ha il mare, il sole. E in certe strade, la sabbia, le palme, e i rampicanti in fiore: a ogni passo, ti ricorda quello che potrebbe essere. E ha uno dei caffè più belli in cui sia mai stata. Che non è che un carretto di legno, alla fine, con un bollitore e vecchie lanterne in ferro, e vecchie bottiglie di liquore, e un ritratto di Che Guevara, in mezzo a tutte le foto di Umm Kulthum, e le candele in barattoli di latta, perché non c'è elettricità, e c'è solo il Nescafè, su tavolini di plastica da un dollaro l'uno: ma ha l'atmosfera di un caffè di Parigi - perché è frequentato da tutti questi ventenni che non sono mai stati fuori di qui, e però, non so come, hanno imparato un inglese perfetto, e hanno mille progetti, mille idee: e ogni volta, vogliono incontrarmi non nonostante io sia tradotta in ebraico, ma proprio per questo. Israele qui significa carrarmati e bombardamenti. Nient'altro. Molti non hanno mai visto un israeliano. Questa non è Ramallah. Si vive male, qui. Ma male davvero. Ti imbatti ovunque in feriti, amputati. E questa povertà micidiale. Avrebbero ogni diritto di non volermi. E invece, certo, non è un dettaglio che io sia italiana, non israeliana: però poi ti dicono: Non è mica l'Italia ad assediarci. E vogliono tutti parlarmi. 
Vogliono tutti parlarvi.
E Yahya Sinwar è esattamente come Gaza: normale, nonostante tutto. Nelle poche foto che avevo trovato su internet, ha sempre un'aria dura. E invece no: è uno come tanti. Uno semplice, sempre in camicia. In camicia grigia. Se ha un segno particolare, è che non ha segni particolari. Un po' come tutti i suoi consiglieri più stretti. Girano molte voci sui tunnel. Sulle ricchezze accumulate con il contrabbando. E Gaza ha imprenditori milionari. Ma mentre ero con alcuni leader di Hamas, un giorno, e parlavo proprio di questo, si sono alzati tutti di scatto. Pensavo fosse un raid dell'esercito: e invece era tornata l'elettricità. E si erano tutti precipitati a ricaricare il telefono.
Perché come tutti, non hanno l'elettricità. L'acqua. Niente.
Una precisazione. So bene che per molti lettori questa è una lettura difficile, che tocca sentimenti privati e profondi. E io non sono né araba né ebrea: sono tra voi con l'umiltà della straniera che non dimentica che non potrà mai provare quello che provate. Di alcune questioni, abbiamo parlato più in dettaglio. Ma a volte, ho scelto di scrivere meno di quello che avrei potuto, e avrei voluto, per non interferire con i negoziati in corso. Perché credo che la priorità, per tutti, sia il cessate il fuoco. E un giorno, possibilmente, la pace.
E non c'è scoop che valga il rischio di intralciarla.
E se ho scelto così, forse è anche perché, a pensarci, Yahya Sinwar ha un segno particolare. Ascolta molto. Non decide mai da solo. Però poi, quando decide, decide davvero: è uno che ha coraggio. Che ha fermezza. Determinazione. Uno pronto a passi importanti.
E ha insistito perché l'intervista si concludesse con la parola con cui si conclude.
E a proposito di parole. Ho notato che non ha mai detto: Israele. Potrei sbagliarmi. Ma mi sembra che abbia sempre usato sinonimi come: Netanyahu. Oppure: L'esercito. L'altra parte. E soprattutto: L'occupazione. Di certo, però, non gli ho mai sentito dire: L'entità sionista. Gli ebrei.
Solo: L'occupazione. L'occupazione. L'occupazione. 

Non so molto di lei. Da quanto dicono, è abbastanza introverso. Un uomo di poche parole. Non incontra spesso la stampa. E anzi: questa è la sua prima volta con la stampa occidentale. E però è a capo di Hamas da più di un anno. Perché parla proprio adesso?

Perché è adesso che c'è un'opportunità di cambiamento. 

Un'opportunità? Adesso?

Adesso. Sì. 

Onestamente, la cosa più probabile, a Gaza, sembra una nuova guerra. Ero qui, a giugno, ed era tutto come sempre. Proiettili vaganti, lacrimogeni. Feriti ovunque. E poi bombardamenti, razzi. Altri bombardamenti. Un'opportunità storica per finire in ospedale. In quest'ultima ondata di proteste, si sono avuti quasi 200 morti.

Mentre dall'altra parte, un morto solo. E allora, intanto direi che 'guerra' è un termine fuorviante: non è che a Gaza, a un certo punto, c'è una guerra, e gli altri giorni invece c'è la pace. Siamo sempre sotto occupazione: l'aggressione è quotidiana. Varia di intensità. Tutto qui. E comunque, la verità è che una nuova guerra non è nell'interesse di nessuno. Di certo, non è nel nostro: chi ha voglia di fronteggiare una potenza nucleare con due fionde? E però, se è vero che non possiamo vincere, per Netanyahu vincere sarebbe anche peggio che perdere. Perché questa sarebbe la quarta guerra. Non può concludersi come la terza, che già si è conclusa come la seconda, che già si è conclusa come la prima. Dovrebbero riconquistare Gaza. E non penso che Netanyahu, che sta già tentando di tutto per sbarazzarsi dei palestinesi della West Bank, e mantenere una maggioranza ebraica, desideri altri due milioni di arabi. No. Con la guerra non si ottiene niente.

Suona un po' strano, detto da uno che viene dall'ala militare di Hamas.

Non sono a capo di una milizia. Sono di Hamas. Hamas e basta. Sono il leader di Hamas a Gaza. Che è una cosa decisamente più complessa di una milizia: è un movimento di liberazione nazionale. E il mio primo obbligo è agire nell'interesse del mio popolo: difenderlo, e difendere il suo diritto a libertà e a indipendenza. Sei una corrispondente di guerra. Hai voglia di guerra?

No.

E allora perché dovrei averne io? Chi conosce la guerra, non ama la guerra.

Ma lei ha combattuto tutta la vita.

E infatti non sto dicendo che non combatterò più. Sto dicendo che non voglio più guerre. Voglio la fine dell'assedio. Qui vai in spiaggia, la sera, al tramonto, e vedi questi ragazzini, sulla battigia, che chiacchierano: e si chiedono com'è il mondo di là dal mare. Com'è la vita. Ascoltarli ti spezza. E dovrebbe spezzare chiunque. Voglio che siano liberi.

I confini di Gaza sono più o meno chiusi da 11 anni. Non c'è più neppure l'acqua. Solo acqua di mare. Acqua salata. Com'è vivere qui?

E come credi che sia? Il 55 percento della popolazione ha meno di 15 anni. Non stiamo parlando di terroristi: stiamo parlando di bambini. Non hanno nessuna tessera di partito. Hanno paura. Paura e basta. Voglio che siano liberi.

L'80 percento della popolazione vive di aiuti umanitari. E il 50 percento è "food insecure" - il 50 percento, qui, ha fame. L'ONU dice che Gaza a breve non sarà più adatta alla vita. Però Hamas in questi anni ha trovato le risorse per costruire i suoi tunnel.

E per fortuna. Altrimenti saremmo morti tutti. Quello che dici, è pari pari la propaganda sionista. Non è che abbiamo costruito i tunnel, e la risposta è stato l'assedio, e con l'assedio iniziata la crisi. No. E' iniziato l'assedio, è iniziata la crisi: e per sopravvivere, a noi non è rimasto che costruire i tunnel. In certi momenti, qui non entrava manco il latte.

Ha capito cosa intendo. Non pensa di avere responsabilità?

La responsabilità è di chi ha chiuso i confini. Non di chi ha provato a aprirli. La mia responsabilità è cooperare con chiunque possa aiutarci a finirla con questo assedio ingiusto e brutale: e mi riferisco soprattutto alla comunità internazionale. Perché Gaza non può andare avanti così. La situazione non è più sostenibile. Così, un'esplosione [una escalation, ndr] è inevitabile.
E invece che armi, allora, non poteva comprare il latte?
Se siamo ancora vivi, evidentemente l'abbiamo comprato. Il latte e molto altro. Cibo, medicine. Siamo 2 milioni. Hai idea di cosa significhi, cibo e medicine per 2 milioni di persone? I tunnel sono solo in minima parte per la resistenza - e perché altrimenti, non muori di fame, è vero: ma muori bombardato. E per la resistenza, Hamas usa fondi propri. Non pubblici.

Quindi Hamas ha governato bene.

Ma cosa pensi, che governare Gaza sia come governare Parigi? Erano anni che eravamo al governo in molte municipalità, proprio perché siamo noti per efficienza e onestà. Poi nel 2006 abbiamo vinto le elezioni generali: e il mondo ci ha isolato. Non c'è elettricità, è vero. E questo ha ripercussioni su tutto il resto. Ma pensi che non abbiamo ingegneri? Che non siamo capaci di costruire una turbina? Certo che siamo capaci. Ma come? Con la sabbia? Puoi avere anche il migliore dei chirurghi: ma gli stai chiedendo di operare con forchetta e coltello. Ma guarda la tua pelle: è già tutta bruciata. Uno che arriva da fuori, uno che arriva dal mondo, qui si ammala subito. Quello che dovrebbe colpirvi, è che a Gaza siamo ancora vivi. 

E quindi, a quanto sembra, Hamas è dell'idea di un cessate il fuoco con Israele. I mediatori, in questi giorni, sono tutti al lavoro. Cosa intende per cessate il fuoco?

Un cessate il fuoco. Calma. 

Calma in cambio di calma?

No. No. Calma in cambio di calma, e della fine dell'assedio. L'assedio non è calma.

Ma calma... Per quanto tempo?

Non è questo il punto, onestamente. Quello che conta realmente è cosa succede, intanto, sul terreno. Perché se il cessate il fuoco significa che non veniamo bombardati, sì, ma continuiamo a non avere acqua, elettricità, niente, continuiamo a vivere sotto assedio, non ha senso. Perché l'assedio è una forma di guerra: l'assedio è una guerra combattuta con altri mezzi. E tra l'altro, è un crimine, per il diritto internazionale. Non c'è cessate il fuoco sotto assedio. Ma se Gaza torna normale, invece, se arrivano non solo aiuti umanitari, ma investimenti, imprese, sviluppo, perché non siamo mendicanti, vogliamo lavorare, studiare, viaggiare, come tutti: vogliamo vivere, e vivere con le nostre forze - se iniziamo a percepire una differenza, allora possiamo andare avanti. E quello che so, è che Hamas si impegnerà al suo meglio. Ma non c'è sicurezza, non c'è stabilità, né qui né in Medio Oriente, senza giustizia. Senza libertà e giustizia. Non voglio la pace della tomba.

D'accordo, ma... Magari in realtà non è che un pretesto per riorganizzarvi. E tra sei mesi, tornare alle armi. Perché gli israeliani dovrebbero fidarsi?

Tanto per cominciare, io non sono mai andato in guerra: è stata la guerra a venire da me. E la mia domanda, onestamente, è la domanda opposta. Perché dovrei fidarmi di loro? Hanno lasciato Gaza nel 2005: ma hanno solo ristrutturato l'occupazione. Prima stavano dentro: ora bloccano i confini. Chi mi garantisce cosa hanno in mente davvero? E però, in fondo, la questione della fiducia è tutta qui, no? Ed è questo, forse, il nostro errore. Ragionare sempre in termini di: il primo passo. Chi è che fa il primo passo, io o tu? 

D'accordo, ma... Di nuovo. Se il cessate il fuoco non dovesse funzionare...

Ma per una volta, possiamo prima immaginare cosa succede invece se funziona? Perché potrebbe essere una potente motivazione per impegnarci a farlo funzionare, non credi? Se per un momento immaginassimo Gaza come in fondo era, un tempo - hai mai visto delle foto degli anni Cinquanta? Quando d'estate, venivano tutti in vacanza qui? 

E Gaza aveva tutti i caffè, i negozi. Le palme. Ho visto quelle foto. Sì. 

Ma anche adesso: hai visto quanto sono brillanti i nostri ragazzi? Pieni di talento, nonostante tutto, di energia, di creatività? Usando vecchi fax, vecchi computer, un gruppo di ventenni si è costruito una stampante in 3D: per fabbricare quelle attrezzature mediche che mancano. Questa è Gaza. Non è solo povertà. Solo bambini scalzi. Gaza può essere come Singapore. Come Dubai. E lasciamo che il tempo passi. Che il tempo guarisca le ferite. Sono stato in carcere 25 anni. Lui [indica uno dei suoi consiglieri, ndr] ha perso un figlio, ucciso in un raid. Il tuo interprete: ha perso due fratelli. L'uomo che ci ha servito il tè: sua moglie è morta per un'infezione, per una cosa minima, un taglio: ma non c'erano antibiotici. Ed è morta così. Per una cosa che per curarla basta il farmacista. Pensi che sia facile, per noi? Ma iniziamo con questo cessate il fuoco. Diamo ai nostri figli quella vita che non abbiamo mai avuto. E diventeranno migliori di noi. Se avranno una vita diversa, costruiranno un futuro diverso.

Si sta arrendendo?

E' una vita che mi batto per avere una vita normale. Non mi sto arrendendo: sto insistendo. Stiamo insistendo. Prima persona plurale. 

E Hamas, durante questo cessate il fuoco, terrebbe le sue armi? O accettereste, non so, una protezione internazionale, tipo i caschi blu?

Tipo Srebrenica?

Deduco che sia un no.

Deduci bene.

Ma quindi, scusi se mi ripeto: ma se questo cessate il fuoco non funziona? Non per gufare, ma i precedenti, sa, qui non sono dei migliori. Finora ogni tentativo di accordo è stato sabotato da estremisti di una delle due parti. 

Finora, intanto, hai molta fiducia: ma questo accordo di cui sei così certa ancora non c'è. Siamo pronti a firmarlo, Hamas e quasi tutti gli altri gruppi palestinesi, pronti a firmarlo e onorarlo: ma per ora, qui c'è solo l'occupazione. E nuovi morti. Ogni venerdì. Ma detto questo: se saremo attaccati, è ovvio, ci difenderemo. Come sempre. E avremo un'altra guerra. Ma poi, tra un anno, sarai di nuovo qui. E io di nuovo sarò qui a dirti: con la guerra non si ottiene niente.

Il simbolo del vostro arsenale sono i razzi. Razzi abbastanza artigianali, che spesso neppure forano lo scudo dell'Iron Dome. E a cui Israele risponde con missili infinitamente più potenti. Sono morti migliaia di palestinesi. Pensa che i razzi siano stati utili?

Chiariamoci subito: la resistenza armata è un nostro diritto, in base al diritto internazionale. E però, premesso questo, non abbiamo solo i razzi. Abbiamo mille mezzi di resistenza. Da sempre. Questa domanda, onestamente, è una domanda più per te che per me: per tutti voi giornalisti. Diventiamo notizia solo con il sangue. E non solo qui. Se non c'è sangue, non c'è notizia. Ma il problema non è la resistenza: il problema è l'occupazione. Senza occupazione, non avremmo i razzi. Non avremmo le pietre, le molotov. Niente. Avremmo tutti una vita normale.

Ma pensa siano stati utili? 

Certo che no. Altrimenti non saremmo qui. Ma l'occupazione, allora? A che è servita? A crescere degli assassini? Ma l'hai visto, il video di quel soldato che ci sparava come fossimo birilli? E rideva, rideva. Un tempo erano gente come Freud, come Einstein. Kakfa. Erano famosi per la matematica, la filosofia. Oggi sono famosi per i droni. Per le esecuzioni extragiudiziali. 

In questi giorni avete un nuovo simbolo: gli aquiloni. In Israele non si parla d'altro. Perché sfuggono all'Iron Dome. E né si possono abbattere a fucilate.

Gli aquiloni non sono un'arma. Al più, incendiano stoppie. Basta un estintore. Non sono un'arma, sono un messaggio. Perché non sono che carta e spago, e uno straccio imbevuto di gasolio: mentre ogni batteria dell'Iron Dome costa 100 milioni di dollari. Quegli aquiloni dicono: siete infinitamente più forti, sì. Ma non vincerete mai. Ma proprio mai.

In tutto questo, però, la West Bank, a fronte della stessa occupazione, ha scelto una strada molto diversa. Quella dell'appello all'ONU. Alla comunità internazionale. 

Ed è una strada essenziale. Tutto è essenziale. Ogni strada possibile. Però, se posso permettermi: la comunità internazionale, in Palestina, è parte del problema. Quando abbiamo vinto le elezioni, e abbiamo vinto libere e regolari elezioni, la risposta è stata l'embargo. Subito. Abbiamo proposto un governo insieme a Fatah, e non una volta, ma cento volte: ma niente. La risposta è stata l'embargo e basta. Se è andata come è andata, è anche per vostra responsabilità. E anche adesso. Dite a Hamas: trattiamo solo se c'è anche Fatah. Poi dite a Fatah: trattiamo solo se non c'è Hamas. I dissidi interni per cui siamo così contestati, sono anche un effetto dell'embargo. Un effetto delle vostre pressioni. Che spesso, sono vere e proprie intimidazioni. Con un governo di unità nazionale, a Ramallah non riceverebbero più un dollaro. Rischierebbero la bancarotta. 

L'embargo è perché la comunità internazionale considera Hamas una forza antisistema. Una forza anticostituzionale, in un certo senso. Che non sta alle regole del gioco.

Quale gioco? L'occupazione?

Oslo. I due stati.

Ma se Oslo ormai non esiste più? Credo sia l'unica cosa su cui concordiamo tutti, qui. Ma proprio tutti. Non è stato che una scusa per distrarre il mondo con dei negoziati infiniti, e intanto, costruire insediamenti ovunque: e cancellare materialmente ogni possibilità di uno stato palestinese. Sono passati 25 anni. E cosa abbiamo ottenuto? Niente. Ma poi, perché insistere sempre e solo su Oslo? Perché non parlare anche di quello che è venuto dopo? Come il Documento di unità nazionale, per esempio. Che si basa sul famoso Documento dei prigionieri del 2006. E con cui abbiamo delineato quella che è oggi la nostra strategia comune, Hamas, Fatah, tutti: uno stato lungo i confini del 1967 con Gerusalemme capitale. E con il diritto al ritorno dei rifugiati, ovviamente. Sono passati 12 anni. E continuate a chiederci: perché non accettate uno stato lungo i confini del 1967? Ho l'impressione che il problema non sia nostro.

La comunità internazionale spende milioni di dollari per i palestinesi.

Spende. Appunto. Spende e nient'altro. E spende male. Avete premiato gli accordi di Oslo con il Nobel per la pace: e siete spariti. Nessuno ha vigilato sulla loro attuazione. La domanda cruciale è: Erano la strategia giusta per aiutare i palestinesi a fondare il loro stato, e tutte le sue istituzioni? E tra l'altro, vorrei ricordarti che la IV Convenzione di Ginevra è chiaro: il costo dell'occupazione è a carico di chi occupa. Non tocca a voi costruire strade. Scuole. E soprattutto, ricostruire quello che viene demolito. Altrimenti, invece di opporvi all'occupazione, finite per renderla più facile.

Comunque, a quanto sembra chi si oppone a questo cessate il fuoco non è tanto Israele, che è tutto concentrato sull'Iran: ma Fatah. Che teme sia un successo di Hamas. 

Un successo? Questo cessate il fuoco non è per Hamas o per Fatah: è per Gaza. E poi, guarda. Per me quello che conta è che si capisca che Hamas c'è. Esiste. Che non c'è futuro senza Hamas, non c'è intesa possibile, perché siamo parte della società: dovessimo anche perdere le prossime elezioni. Ma Hamas esprime un pezzo di Palestina. Di più: esprime un pezzo di storia di tutto il mondo arabo musulmano. Che include islamisti, laici, nazionalisti. Socialisti. E però, detto questo: per cortesia, evitiamo la parola successo. Perché è offensiva per tutti i malati terminali che in questo momento stanno al confine a sperare che apra. Per tutti i padri che stasera non avranno il coraggio di guardare i figli: perché non avranno niente per cena. Ma quale successo? 

Lei è entrato in carcere a 27 anni. Ed è uscito a 50. 
Come è stato riabituarsi al mondo?

Sono entrato che era il 1988. Che c'era ancora la guerra fredda. E qui, l'Intifada: e per diffondere le ultime notizie avevamo il ciclostile e i volantini. Sono uscito che c'era internet. Ma onestamente, non sono mai uscito. Ho solo cambiato prigione. E nonostante tutto, la vecchia era molto meglio di questa. Avevo l'acqua, l'elettricità. Mille libri. Stare a Gaza è molto più duro. 

Cosa ha imparato in carcere?

Molto. Il carcere ti forma. Soprattutto se sei palestinese: perché vivi in mezzo a muri, checkpoint, restrizioni di ogni genere, e solo in carcere incontri finalmente gli altri palestinesi, e hai tempo per discutere, riflettere. Riflettere anche su te stesso. Su quello in cui credi, sul prezzo che sei disposto a pagare. Ma è come se ora ti chiedessi: cosa hai imparato in guerra? Mi diresti: Molto. Mi diresti: La guerra ti forma. Ma certo non vorresti mai esserci stata. Ho imparato tanto, sì. Ma non auguro il carcere a nessuno. Ma proprio a nessuno. Neppure a chi, di là da quel filo spinato, oggi ci abbatte come birilli e ride: e non sa che un giorno potrebbe finire per 25 anni all'Aja. 

Alla Corte penale internazionale.

Certo. Perché ti ripeto: non c'è futuro senza giustizia. E cercheremo giustizia all'Aja.

Sa però che all'Aja potreste finirci anche voi.

Per il diritto internazionale, abbiamo ogni diritto a resistere all'occupazione. Ma la Corte è la Corte, naturalmente. E indagherà su tutto quello che riterrà opportuno indagare. E però il suo è un ruolo essenziale. E non solo perché per fermare i crimini, è essenziale punire i criminali. Il suo è un ruolo essenziale anche per le vittime. Perché solo un processo consente di ricostruire gli avvenimenti, e quindi, di rielaborarli. E superarli. In questo, nessuna terza parte può sostituirsi alle vittime. Nessun accordo politico può archiviare la loro sofferenza. E aprire una nuova pagina.

Lei è stato rilasciato nell'ambito dello scambio Shalit. E al momento, Hamas ha due israeliani, più i resti di due soldati uccisi nell'ultima guerra. In un eventuale cessate il fuoco, immagino che per lei lo scambio di prigionieri sarebbe una clausola importante.

Più che importante. Imprescindibile. Non è una questione politica: per me è una questione morale. Perché probabilmente i tuoi lettori pensano che se sei in carcere, sei un terrorista, o comunque un delinquente. Un ladro d'auto. No. Qui veniamo tutti arrestati, prima o poi. Ma letteralmente. Tutti. Leggiti l'Ordinanza 101. Senza un'autorizzazione dell'esercito, è un reato anche solo sventolare una bandiera, o ritrovarsi in più di dieci in una stanza a bere un tè e chiacchierare di politica. Magari stai parlando di Trump: ma rischi fino a 10 anni di carcere. Per noi è un po' il passaggio all'età adulta. Perché se c'è una cosa che ci unisce, e ci rende tutti uguali, tutti palestinesi, è il carcere. E per me è un obbligo: tenterò di tutto per liberare chi è ancora dentro.

In un certo senso, avete ottenuto più con i sequestri che con i razzi.

Quali sequestri?

Tipo Gilad Shalit.

E Gilad Shalit mica era un ostaggio: era un prigioniero di guerra. Capisci perché poi uno parla poco con i giornalisti? Viene ucciso un soldato, e pubblicate una sua foto mentre è in spiaggia: e i vostri lettori pensano che siamo andati a sparargli a Tel Aviv. No. Quel ragazzo è stato ucciso non mentre era in bermuda e tavola da surf, ma in divisa e M16 a spararci addosso. 

E con il cessate il fuoco?

Con il cessate il fuoco nessuno ci sparerà addosso, no? E quindi nessuno sarà prigioniero.

A proposito di carcere. E passaggio all'età adulta. Quest'anno Hamas compie 30 anni. Come siete cambiati?

Tu che idea avevi di tutto questo, trent'anni fa?

Trent'anni fa avevo 8 anni.

Ecco: siamo cambiati quanto sei cambiata tu. Quanto sono cambiati tutti. Era il 1988. E appunto: erano gli anni della guerra fredda. E il mondo era molto più ideologico di ora. Molto più in bianco e nero. Amici e nemici. E anche il nostro era un po' così. Poi, nel tempo, impari che trovi amici, e nemici, anche dove meno ti aspetti. 
La Carta di Hamas resta abbastanza in bianco e nero.
Quello è il nostro primo documento. Però, che dici?, forse sono più importanti gli ultimi. Perché mi chiedi della Carta di trent'anni fa, e non di tutto quello che è venuto poi? E che riflette l'evoluzione di Hamas? Sono decine e decine di documenti. E c'è tutto, dentro. Il nostro rapporto con la società civile, e con gli altri gruppi politici, il contesto regionale. Quello internazionale. E l'occupazione, naturalmente. La risposta a ogni tua domanda è lì. E onestamente, pensavamo che avreste recepito il segnale: e aperto un dialogo con Hamas. Perché ancora: non siamo un fenomento transitorio. Non c'è futuro senza Hamas. E invece continuate a chiedermi di una cosa di trent'anni fa. Come per Oslo. E allora, come per Oslo: ho l'impressione che qui il problema non sia nostro.

E di chi è?

Di tutti quelli che si ostinano a considerarci un gruppo armato. E nient'altro. Non avete idea di cosa sia davvero Hamas. Un dato solo: i nostri dipendenti per metà sono donne. L'avreste mai detto? Guardate alla resistenza, che è il mezzo, e non all'obiettivo: che è uno stato basato su democrazia, pluralismo, cooperazione. Uno stato che tuteli diritti e libertà. E in cui le differenze si affrontino con le parole. Non con le armi. Hamas è molto più delle sue operazioni militari. E non sono io a dirlo, ma la nostra storia. Che è una storia di un movimento sociale, prima che politico. Che organizza mense, scuole, cliniche. Da sempre. Perché per fare la tua parte, non hai bisogno di essere ministro del Welfare. Se sei di Hamas, sei un cittadino, prima che un elettore.

Molti, però, pensano ad Hamas, e non pensano alle mense. Pensano alla seconda Intifada. Agli attentati suicidi. E per gli israeliani lei è un terrorista.

Che è quello che loro sono per me - alla luce dei loro crimini nei nostri confronti.

Ma per i suoi figli, invece, in che vita spera?

In una vita da palestinesi, ovviamente. A testa alta. Sempre. Spero che, nonostante tutto, abbiano la forza di non cedere: fino al giorno in cui avranno libertà e indipendenza. Perché voglio che i nostri figli sognino di diventare medici non per curare i feriti, ma il cancro. Come tutti i figli del mondo. Che possano essere palestinesi, così da essere molto più che palestinesi. 

Ho dimenticato di chiederle del Deal of the Century. Del piano di pace di Trump. Anche se non è molto chiaro di cosa si tratti. Non c'è niente di scritto.

Si tratta dell'eliminazione di ogni nostra prospettiva di libertà e indipendenza. Non c'è sovranità, non c'è Gerusalemme. Non c'è il diritto al ritorno... Mi è più semplice dirti quello che c'è: il nostro no. E non solo di Hamas. Su questo, siamo tutti uniti. No.

E quindi per ora continuerete con le manifestazioni. Queste che organizzate da aprile. Ogni venerdì. Lungo il confine. Lei è spesso lì. 

E ti dico solo due nomi: Ibrahim Abu Thuraja e Fadi Abu Salah. Avevano 29 anni. Entrambi. Ed erano entrambi in sedia a rotelle. Due dei tanti amputati delle ultime guerre. E allora capisci che qui non vieni ucciso perché sei un pericolo - perché che pericolo sei, in sedia a rotelle, per un esercito che sta oltre un filo spinato, a centinaia di metri da te? No. Qui non vieni ucciso per quello che fai, ma per quello che sei. Vieni ucciso perché sei palestinese. E basta. Non hai scampo.

Dovesse riassumermi tutto questo in una frase... Tutto quello che mi ha spiegato. In una frase sola. Qual è il messaggio che vorrebbe restasse più impresso ai lettori? 

E' tempo di cambiare. Tempo di finirla, con questo assedio. Con questa occupazione.

E pensa che sarà creduto?

Senti. Sei stata qui a giugno. Come decine e decine di altri giornalisti. E il tuo reportage è stato il più duro di tutti, nei nostri confronti. E sei anche regolarmente tradotta in ebraico. Eppure sei qui. Ancora. Perché hai un rispetto profondo per noi: e noi un rispetto profondo per te. Il messaggero, a volte, è anche un po' il messaggio. Andrai via, adesso, e racconterai tutto questo. Sarai letta? Sarai ascoltata? Non lo so. Ma io ho fatto il mio passo.

Lei ha molta fiducia.

Sono realistico, nient'altro. So solo che è tempo di cambiare.

 

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