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15 Maggio 2018 

 

Israele fa strage di palestinesi, ma i veri ciechi siamo noi occidentali

di Tommaso Canetta

 

Più di 50 morti, migliaia di feriti. A Gaza Israele conferma che il suo non è più “l’esercito più morale del mondo”. E sullo sfondo c’è il conflitto con il nemico di sempre, l’Iran. L’Occidente? Non sa, e non fa nulla

 

Il giorno in cui Israele compie 70 anni, il giorno della “Nabka” (la catastrofe per i palestinesi), il giorno in cui Trump ufficializza l’apertura dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, è un giorno di sangue in Medio Oriente.Sono già più di 50 i palestinesi morti nel corso della giornata, tra questi alcuni minori e diversi giornalisti. Migliaia i feriti.

Le forze di sicurezza israeliane hanno risposto con forza bruta ai tentativi dei manifestanti palestinesi – infiltrati e in parte manovrati da Hamas – di oltrepassare il confine a Gaza ed entrare nel territorio dello Stato ebraico, e viene da chiedersi il “perché” di tanta violenza. Perché quello che una volta si sforzava di essere “l’esercito più morale al mondo” nel Paese che si proclama “l’unica democrazia liberale del Medio Oriente” sia arrivato a tanto. La risposta, amara, è “perché Israele può, perché a Israele piace”.

Può, perché le democrazie occidentali che sostengono lo Stato ebraico – in primis gli Usa, ma anche la Ue – hanno dimostrato di non potere, o non volere, limitare le derive più criticabili e violente di Tel Aviv. Può perché mai come negli ultimi dieci anni è emerso il totale disinteresse degli Stati mediorientali verso la causa palestinese. Può, infine, perché “il nemico” – cioè i palestinesi – sono alle corde, se non al tappeto, ormai da anni, incapaci di rispondere ai colpi che ricevono se non nel modo più idiota possibile: esponendosi a ulteriori ritorsioni brutali e a quel punto giustificate.

 

Gli “piace”, poi, nel senso che a una parte cospicua, e probabilmente ormai maggioritaria, dell’opinione pubblica israeliana piace il pugno di ferro nei confronti dei palestinesi. Piace il sogno della “Grande Israele”. Piace “punire i terroristi”, come vengono catalogati indiscriminatamente i manifestanti – lo ripetiamo, sicuramente in parte strumentalizzati da Hamas – che in questi giorni hanno tentato di violare i confini dello Stato ebraico. Piace sentirsi forti, in un mondo che fa ancora paura – complici certe narrazioni interessate della destra israeliana – e dove si teme l’eterno ritorno di un passato impossibile da superare.

 

Un tempo lo Stato ebraico non era così, ma oggi è inutile rimpiangere l’Israele laica, socialista e fondamentalmente europea che ormai non esiste più. Oggi l’Israele nazionalista, spaventata e spaventosa, aggressiva e con poche remore è la punta di lancia di una somma di diversi interessi in Medio Oriente, e dunque fa comodo a molti. Ha in primo luogo il sostegno convinto dell’America di Trump, così come delle monarchie saudite, che sperano l’esercito con la stella di Davide riesca là dove i loro petrol-dollari hanno fallito nell’ultimo decennio: limitare l’espansione iraniana nella regione, danneggiarne i punti d’appoggio (l’Hezbollah libanese, il regime di Assad e la galassia di milizie sciite finanziate dagli Ayatollah), porre un argine alla crescita – economica, diplomatica e militare – del nemico sciita.

 

Non è allora un caso che le proteste più veementi al momento, per quanto sta succedendo in Palestina, arrivino da Teheran. Con gli Stati Uniti tornati su una linea dura anti-iraniana e con Israele mai come ora amica dei Saud, l’Iran è nella posizione ideale per intestarsi il ruolo di paladina dei palestinesi. La Repubblica Islamica ha pochissimo da perdere e molto da guadagnare da un forte appoggio – quantomeno verbale – alle ragioni dei palestinesi. Teheran può infatti ambire così a far uscire la sua influenza dal recinto angusto dei soli musulmani sciiti, proiettando la propria egemonia politico-religiosa anche sulle comunità sunnite che per decenni hanno sostenuto (di nuovo, più a parole che coi fatti) la causa palestinese. Il tutto, ovviamente, a discapito di Riad e degli Stati sunniti.

 

In questa operazione l’Iran ha però un concorrente – quasi isolato – nel mondo sunnita: la Turchia. Ankara è infatti una potenza sunnita ma si è allontanata, durante gli ultimi anni della guerra in Siria, da Riad per avvicinarsi, via Mosca, a Teheran. Erdogan spera forse di “rifarsi una verginità” agli occhi delle opinioni pubbliche musulmane, di far dimenticare il tradimento della causa siriana quando decise che l’accordo con Mosca in funzione anti-curda valeva ben il sacrificio del sogno di abbattere la dittatura filo-sciita di Assad. Ma l’Iran, complice la sponda qatariota emersa inaspettatamente dalla crisi tra Doha e Riad, sembra avere più filo da tessere della Turchia.

 

Con simili “amici” la causa palestinese, secondo molti già morta, sembra in ogni caso destinata a decomporsi definitivamente. Usata come pedina nel Grande Gioco in Medio Oriente, sarà sempre perdente contro il suo diretto avversario israeliano e servirà al massimo, col suo doloroso fallimento, a smuovere le opinioni pubbliche in altri Stati, in altre regioni.

E se si possono comprendere, ma non condividere, le ragioni dei diretti interessati e dei loro “sponsor” l’un contro l’altro armati, stupisce la miopia dell’Occidente, pronto a regalare al terrorismo nuove munizioni e ad abdicare ai propri valori in nome di un calcolo miope di breve periodo. Se un domani Trump - con le sue scelte su Gerusalemme capitale, appoggio incondizionato ai Saud, uscita dal nuclear deal con l’Iran e simili - avrà regalato a Teheran (e alle sue milizie sciite) le simpatie di mezzo mondo islamico con una mano, mentre con l’altra confinava nuovamente Teheran nel ruolo del “nemico” degli Stati Uniti, come potrà giudicarlo la Storia?

 

 

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