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30 gennaio 2018

 

Kant, il capitale e il lager

di Italo Nobile

 

In occasione della giornata della memoria abbiamo assistito all’abituale esegesi celebrative dell’Olocausto a cui – da sempre – si accompagna la perniciosa narrazione che tende ad assolutizzare ed astrarre questa tragedia dal contesto storico in cui si è consumata.

Con la assurda precisione a cui avremmo più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l’appello. Alla fine “Wieviel Stuck?”domandò il maresciallo. E il caporale salutò di scatto e rispose che i pezzi erano 650, e che tutto era in ordine. Allora ci caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi. E la cosa fu così nuova ed insensata che non provammo dolore, né nel corpo, né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera? (Primo Levi) 

Come si può percuotere un uomo senza collera? E’ molto semplice. Quegli uomini non stavano percuotendo un uomo. Potremmo dire che stavano percuotendo degli oggetti. E perciò potremmo insistere sulla reificazione delle persone, su di una sorta di materialismo che non riconosce le persone, sulla manipolabilità degli altri soggetti. Una strada già battuta. Io vorrei seguire invece un’altra strada, anch’essa già battuta, ma non sino in fondo, dalla Hannah Arendt che seguiva il processo Eichmann.

Quegli uomini non stavano percuotendo delle persone. Stavano eseguendo un ordine. La loro non era un’azione, ma una meta-azione. Essi non seguono una regola, ma una meta-regola. E qui bisogna risalire ad un principio fondamentale, che è stato portato a compimento da Kant, ma che è in nuce in tutta la grande filosofia occidentale: lo chiameremo il formalismo nell’etica.

Perché Socrate non accetta di scappare? Perché deve rispettare la legge ateniese. Perché rispettare la regola del seguire la regola è più importante di discutere quale questa regola sia. Kant con il dovere per il dovere porta a compimento questa tendenza. Il “Tu devi” è il principio (per molti versi condivisibile) per cui bisogna applicare la regola vigente (e presumibilmente condivisa), altrimenti non ci sarebbe la ragionevole speranza di applicare la regola che si ritiene giusta, una volta che questa sia elevata a regola vigente. “Pacta sunt servanda” è un’altra versione della stesso principio meta-etico e meta-giuridico.

Però questa priorità della meta-regola rispetto alle regole di contenuto ha un risvolto diabolico che ci porta a dubitare massimamente di essa. Tale risvolto è esemplificato dal brano di Primo Levi. Perciò la meta-regola può essere applicata solo quando si sono individuate le regole che attengono al contenuto. Non ci può essere un momento intermedio dove si dice “Abbiamo una morale sostanziale provvisoria che non è del tutto plausibile, ma che nel frattempo dobbiamo rispettare altrimenti finiremo nell’arbitrio, giacchè è necessario rispettare la meta-regola”. Questo momento è già l’arbitrio, nonostante il rispetto della meta-regola. C’è poi una concretizzazione storica frequente di questo principio che avvalora il sospetto sulla sua natura fittizia e perciò ideologica. Con la morale provvisoria permanentemente adottata, le classi dominanti hanno sempre legittimato il loro imperio sulle classi dominate. La ribellione contro l’ordine costituito è stata sempre censurata, proprio perchè si realizza con la violazione delle meta-regole e perciò prepara un orizzonte di assoluta anarchia.

Anche l’etica del lavoro (basata su di una variante del pacta sunt servanda) statuisce il principio che, quale che sia il lavoro, esso deve essere fatto. Fa niente che si tratta di costruire armi, fa niente che si vendano prodotti in barba alla volontà dell’acquirente, fa niente che si sfruttino i lavoratori, fa niente che si versino liquami tossici in luoghi di pubblico interesse. It’s my job. Non c’è differenza sostanziale tra il dominio capitalistico sul lavoro, il formalismo etico e il lager. Il primo è una applicazione del secondo ed il terzo una semplice iperbole delle prime due. Ma la struttura fondamentale è isomorfa.

La reificazione dell’altro non è tanto conseguenza del razionalismo o del materialismo, ma del fatto che un ordine di un terzo (che ci domina) ci consente di non guardare al nostro prossimo. L’ordine è come un’intercapedine tra l’uomo e l’altro uomo. Così come il capitale, dominandoci, ci rende concorrenti degli altri lavoratori e pur mettendoci insieme, ci rende più fortemente delle isole.

La logica burocratica è una variante di questo atteggiamento. La procedura è lo strumento con cui dichiariamo la nostra sottomissione all’istituzione nella quale siamo incastonati come una vite in un meccanismo. Il nostro interlocutore non è il cittadino o l’utente, ma sempre il nostro superiore gerarchico. L’ingresso di criteri aziendali nella pubblica amministrazione è solo un cambio di strumento, ma non una trasformazione dei fini dell’istituzione, la quale non si deve rivolgere ai cittadini, ma deve vendere un prodotto, deve rispettare un budget, un budget del quale il nostro interlocutore umano è un’appendice a volte fastidiosa, ma di cui non ci curiamo. E’ la sponda di una carambola, dove la buca è il raggiungimento del target. E’ per questo che si può percuotere un uomo senza collera. I mafiosi dicono “Non ce l’abbiamo con te. Si tratta di affari”. Non scherzano.

 

 

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