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27 dicembre 2017

I bambini palestinesi si rifiutano di essere abusati democraticamente

di  Ali Darwish    


Fonte: L'intellettuale dissidente

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/

06/05/2018

 

Il vero antisemitismo è contro i palestinesi

di Daniele Perra

 

Un lituano (Netanyahu) che, non pago di aver affermato solo qualche anno fa che Hitler non aveva alcuna intenzione di sterminare gli ebrei (forse consapevole del fatto che lo stesso sionismo non fu estraneo a legami col nazismo) ma che venne istigato nel farlo dal Gran Muftì di Gerusalemme, accusa di antisemitismo un arabo (Abu Mazen, tra l’altro a sua volta non estraneo ad una infruttuosa collaborazione col regime occupante) colpevole di aver citato tesi di scrittori ebraici e di aver riportato fatti storici incontrovertibili (la natura coloniale del supposto “Stato ebraico”). Un moldavo (Lieberman) che plaude ai cecchini israeliani che sparano su civili palestinesi disarmati (una pratica diffusa in Israele sin dagli albori della sua storia quando l’Unita 101, sotto la guida di Ariel Sharon, sparava sui contadini arabi il cui unico “crimine” era quello di raccogliere i frutti della propria terra). Manifestazioni popolari che inneggiano apertamente al genocidio nell’assordante silenzio dei mezzi di informazione dell’Occidente e dei suoi pseudo-intellettuali troppo impegnati a lanciare campagne mediatiche contro inesistenti attacchi chimici e ad appoggiare le nuove mire imperialistiche dei loro ambigui leader.

 

L’isteria collettiva ed il richiamo ricorrente alla “religione olocaustica” con la quale si evita ogni tipo di confronto e si zittisce ogni critica alle politiche di un regime militare e di occupazione che viola apertamente ogni norma del diritto internazionale e bombarda zone densamente abitate col fosforo bianco ci mette di fronte ad una drammatica verità: siamo tutti complici e colpevoli di fronte a questo nuovo genocidio. Ed allo stesso tempo siamo tutti, ancora una volta, antisemiti.

 

Di fatto, pur assecondando l’identificazione tra il popolo del mare dei Peleset e quello biblico dei Filistei, e dunque l’ancestrale origine pelasgica del popolo palestinese, è innegabile e storicamente provato che una larga parte di esso sia di origine semitica. Le principali tesi storiche fanno infatti risalire l’origine delle popolazioni semitiche in una dimensione spaziale che comprende la Mesopotamia e la Penisola arabica. Gli arabi sono semiti ed utilizzano una lingua di origine semitica. Lo stesso non si può affermare per gli ebrei ashkenaziti (ad oggi maggioranza della popolazione in Israele) la cui originaria matrice semitica si è ampiamente persa nel tempo. A dimostrazione di ciò basta prendere in considerazione quella che è stata la loro lingua, l’Yiddish, che pur avendo diversi vocaboli di origine ebraica ed aramaica, salvo poche eccezioni, adotta un sistema fonetico prettamente europeo. E diversi studi ne hanno dimostrato l’affinità morfologica e sintattica con alcuni dialetti medievali tedeschi.

 

A ciò si aggiunga il fatto che il talmudismo ha rovesciato la tradizione religiosa del Regno di Davide e Salomone. Proprio Salomone, come noto, fece innalzare altari alle divinità venerate dalle sue settecento mogli.

 

La prospettiva messianica fatta propria dal giudaismo è stata determinata dalle influenze iraniche nel periodo della cattività babilonese. E per certi versi si può ritenere come una negazione reale della religiosità semitica tradizionale di quel regno che il sionismo pretende di restaurare. Gli stessi rabbini talmudisti, come sottolineato dallo storico franco-ebraico Bernard Lazare, hanno innalzato la Mishnah, frutto dell’interpretazione dei testi sacri da parte degli ebrei della diaspora, sulla Torah. “La Torah è acqua, la Mishnah è vino”, motteggiavano orgogliosamente i rabbini europei.

 

Nonostante ciò, non mancano rabbini talmudisti (come il caso dei Neturei Karta) che criticano apertamente il sionismo e lo Stato ebraico attuale come negazione dei loro principi religiosi. Un sionismo che nella speranza di ingrossare le proprie fila ha portato in Terra Santa popolazioni prive di alcuna connessione storica e linguistica con essa nella pretesa di recuperare le dieci tribù perdute di Israele. Il caso più emblematico è quello dei Bnei Menashe indiani, presunti discendenti della tribù di Manasse, frettolosamente convertiti all’ebraismo nonostante non ne conoscessero addirittura la lingua.

Ora, come dovremmo chiamare una politica discriminatoria e criminale attuata da una popolazione in maggioranza di origine europea non semita nei confronti di una in larga maggioranza di origine semitica?

 

Potremmo dare un suggerimento: si chiama antisemitismo e tutti noi ne siamo complici più meno silenziosi. Se tutti i mezzi di informazione, la nostra cultura e la nostra società, inneggiano all’unica democrazia del Medio Oriente, al baluardo contro la barbarie, giustificandone crimini e abusi di ogni sorta, allora siamo tutti antisemiti.

 

 

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