Fonte: www.informationclearinghouse

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22 giugno 2018

 

No, Israele non è una democrazia

di Ian Pappe

Scelto e tradotto da Markus 

 

Israele non è l’unica democrazia del Medio Oriente. Infatti, non è per nulla una democrazia.

 

Agli occhi di molti israeliani e dei loro sostenitori in tutto il mondo, anche  di coloro che potrebbero criticare alcune delle sue politiche, Israele, in fin dei conti, è un stato benevolo, democratico, che cerca la pace con i suoi vicini e garantisce l’uguaglianza a tutti i suoi cittadini.

 

Quelli che criticano Israele danno per scontato che, se qualcosa è andato storto in questa democrazia, è stato a causa della guerra del 1967. Secondo questo punto di vista, la guerra aveva corrotto una società onesta e laboriosa con la prospettiva di facili guadagni nei territori occupati, permettendo ai gruppi religiosi messianici l’ingresso nella politica israeliana e, sopratutto, trasformando Israele in una forza di occupazione e di sopraffazione nei nuovi territori.

 

Il mito che un Israele democratico abbia avuto dei problemi nel 1967, ma che sia tuttora una democrazia, è sostenuto anche da alcuni eminenti studiosi palestinesi e filo-palestinesi, ma non ha alcun fondamento storico.

 

Israele, prima del 1967, non era una democrazia

Prima del 1967, Israele non avrebbe assolutamete potuto essere definito una democrazia. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, lo stato aveva sottoposto un quinto della sua popolazione alla legge marziale, basata sulle draconiane normative di emergenza mandatorie inglesi, che privavano i Palestinesi dei diritti fondamentali, umani e civili.

I governatori militari locali erano dei monarchi assoluti che dominavano l’esistenza di questi cittadini: potevano instaurare leggi speciali solo per loro, distruggere le loro case, i loro mezzi di sostentamento e incarcerarli a loro piacimento. Solo alla fine degli anni ‘50 era emersa contro questi abusi una forte opposizione ebraica, che aveva finalmente permesso di alleggerire la pressione nei confronti dei cittadini palestinesi.

 

Questo regime consentiva anche ai soldati di più basso rango dell’IDF di comandare a bacchetta e rovinare l’esistenza dei Palestinesi che avevano vissuto nell’Israele pre-bellico, e di quelli che, dal 1967, risiedevano nel West Bank e nella Striscia di Gaza. Non avevano nessuna difesa se un soldato, o la sua unità, o un comandante decidevano di demolire le loro abitazioni, trattenerli per ore ad un posto di blocco o incarcerarli senza processo. Non c’era nulla da fare.

 

In ogni momento, dal 1948 fino al giorno d’oggi, c’è sempre stato qualche gruppo di Palestinesi che ha dovuto subire simili esperienze.

 

La prima comunità oppressa da un giogo del genere era stata la minoranza palestinese all’interno di Israele. Tutto era iniziato nel primo biennio dalla creazione del nuovo stato, quando erano stati chiusi in ghetti, come la comunità palestinese di Haifa, che viveva sul Monte Carmelo, o espulsi dalle città in cui vivevano da decenni, come Safad. Nel caso di Isdud, tutta la sua popolazione era stata deportata nella Striscia di Gaza.

Nelle campagne, la situazione era anche peggiore. I vari Kibbutz Movements avevano messo gli occhi sui villaggi palestinesi, ricchi di suolo fertile. Questi [Kibbutz Movements] includevano anche Kibbutzim e Hashomer Ha-Zair, di orientamento socialista, che, in teoria, avrebbero dovuto favorire la solidarietà binazionale.

 

Molto tempo dopo la fine dei combattimenti del 1948, gli abitanti dei villaggi di Ghabsiyyeh, Iqrit, Birim, Qaidta, Zaytun e molti altri erano stati convinti con l’inganno a lasciare le proprie case per un paio di settimane, con la scusa che l’esercito aveva bisogno dei loro terreni per alcune esercitazioni, solo per scoprire, al loro ritorno, che i villaggi erano stati spazzati via o ceduti a qualcun’altro.

 

Questa condizione di terrore militare è ben rappresentata dal massacro di Kafr Qasim, dell’ottobre 1956, quando, alla vigilia delle operazioni nel Sinai, quarantanove cittadini palestinesi erano stati uccisi dall’esercito israeliano. Le autorità avevano asserito che, al momento del loro ritorno a casa, a tarda sera, dal lavoro nei campi, nel villaggio era stato imposto il coprifuoco. In ogni caso, questo non era stato il vero motivo.

Prove successive hanno dimostrato che Israele aveva preso in seria considerazione l’espulsione dei Palestinesi dalle zone conosciute come Wadi Ara e il Triangolo, in cui era situato il villaggio. Queste due aree, la prima, una vallata che collega Afula, ad est, con Hadera, sulla costa mediterranea; la seconda, che si trova nella parte orientale della periferia di Gerusalemme, erano state annesse ad Israele secondo i termini dell’accordo di armistizio del 1949 con la Giordania.

 

Come abbiamo visto, l’annessione di nuovi territori era sempre la benvenuta in Israele, ma l’aumento della popolazione palestinese non lo era. Perciò, ogni volta che lo stato di Israele si espandeva, cercava il modo di ridurre la popolazione palestinese nelle aree di recente acquisizione.

 

Operazione “Hafarfert” (talpa) era stato il nome in codice di una serie di progetti per l’espulsione dei Palestinesi, proprio quando era scoppiata una nuova guerra con il mondo arabo. Molti studiosi sono ora del parere che il massacro del 1956 sia stata la prova generale per capire se la popolazione della zona potesse essere indotta alla fuga con l’intimidazione.

 

I colpevoli del massacro erano finiti sotto processo grazie alla diligenza ed alla tenacia di due membri della Knesset: Tawaq Tubi, del Partito Comunista e Latif Dori del partito sionista di sinistra Mapam. In ogni caso, il comandante responsabile dell’area e l’unità che aveva commesso il crimine se l’erano cavata con molto poco, per lo più con multe di scarsa entità. Questa era stata la prova che all’esercito era permesso farla franca con gli omicidi nei territori occupati.

 

La crudeltà sistematica non si  vede solo negli episodi gravi, come i massacri. Le peggiori atrocità si possono trovare anche nell’attività quotidiana, ordinaria, del regime.

 

I Palestinesi di Israele non parlano molto del periodo anteriore al 1967 e i documenti dell’epoca non rivelano il quadro completo. Sorprendentemente, è nella poesia che troviamo un’indicazione su che cosa volesse dire vivere sotto la legge marziale.

Natan Alterman è stato uno dei più famosi ed importanti poeti della sua generazione. Aveva una rubrica settimanale intitolata “The Seventh Column” [la Settima Colonna], in cui commentava gli avvenimenti di cui aveva letto o sentito parlare. Alle volte ometteva alcuni dettagli, come la data o anche il luogo dei fatti, ma dava al lettore informazioni sufficienti per capire quale fosse l’argomento. Spesso esprimeva i suoi attacchi in forma poetica:

La notizia era apparsa, concisa, per due giorni, ed era sparita. Sembrava non importasse a nessuno e che nessuno sapesse. Lontano, nel villaggio di Um al-Fahem, bambini – dovrei dire cittadini di questo stato – giocavano nel fango e uno di loro era sembrato sospetto ad uno dei nostri coraggiosi soldati, che gli aveva gridato: Stop! Un ordine è un ordine. Un ordine è un ordine, ma lo sciocco ragazzo non si era fermato. Era corso via. E così il nostro coraggioso soldato aveva sparato, è ovvio, e aveva fatto centro e aveva ucciso il ragazzo. E nessuno ne aveva parlato.

 

In un’altra occasione aveva scritto una poesia su due Palestinesi che erano stati uccisi a Wadi Ara. Un’altra volta aveva raccontato la storia di una donna palestinese, molto malata, che era stata espulsa con i suoi due bambini, di tre e sei anni, senza nessuna spiegazione e mandata oltre il fiume Giordano. Quando aveva cercato di ritornare, era stata arrestata insieme ai suoi figli e internata in una prigione di Nazaret.

 

Alterman aveva sperato che il suo poema su questa madre potesse smuovere i cuori o le menti, o almeno provocare una qualche risposta ufficiale. In ogni caso, ecco quello che scriveva, una settimana dopo:

E questo scrittore aveva creduto, erroneamente, che la storia sarebbe stata o negata o spiegata. Ma nulla, neanche una parola.

 

Ci sono ulteriori prove sul fatto che Israele, prima del 1967, non fosse una democrazia. La politica dello stato nei confronti dei profughi che cercavano di rientrare in possesso della loro terra, delle loro coltivazioni e dei loro armenti era quella di “sparare per uccidere”; aveva anche inscenato una guerra coloniale per abbattere il regime di Nasser in Egitto. Anche le forze di sicurezza avevano il grilletto facile, avendo ucciso più di cinquanta Palestinesi nel periodo 1948-1967.

 

L’asservimento delle minoranze in Israele non è democratico

La cartina di tornasole di ogni democrazia è il livello di tolleranza che essa è disposta a concedere alle minoranze che vivono al suo interno. Sotto questo aspetto, Israele è ben lontana dall’essere una vera democrazia.

 

Per esempio, dopo l’acquisizione dei nuovi territori, erano state approvate diverse leggi che assicuravano una posizione dominante alla maggioranza: le leggi sulla cittadinanza, le leggi sulla proprietà terriera e, la più importante di tutte, la legge sul ritorno.

Quest’ultima concede automaticamente la cittadinanza a tutti gli Ebrei del mondo, indipendentemente dal loro luogo di nascita. Questa legge, in particolare, è palesemente antidemocratica, dal momento che ad essa è stato associato il totale rigetto del diritto al ritorno per i Palestinesi, riconosciuto a livello internazionale dalla Risoluzione 194 del 1948 delle Nazioni Unite. Questo rifiuto non permette ai cittadini palestinesi di Israele di riunirsi con i  familiari più stretti o con chi era stato espulso nel 1948.

 

Negare alle persone il diritto di ritornare nella propria patria e, allo stesso tempo, offrire il medesimo diritto ad altra gente, che non ha nessun rapporto con il territorio, è un modello di pratica antidemocratica.

 

Dopodichè si era raggiunto un livello superiore nella negazione dei diritti al popolo palestinese. Praticamente tutte le discriminazioni nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele vengono giustificate dal fatto che questi ultimi non prestavano servizio nell’esercito. Il legame fra diritti civili e doveri militari è più comprensibile con una rivisitazione degli anni formativi (della nazione), quando i legislatori israeliani stavano cercando di capire come trattare un quinto della (loro) popolazione.

 

Il loro presupposto era che i Palestinesi non avrebbero comunque voluto arruolarsi nell’esercito, e questo presunto rifiuto giustificava, a sua volta, la politica discriminatoria nei loro confronti. Tutto questo era stato messo alla prova nel 1954, quando il Ministero della Difesa israeliano aveva deciso di richiamare i Palestinesi abili alla leva per arruolarli nell’esercito. Il servizio segreto aveva assicurato al governo che ci sarebbe stata una renitenza alla leva molto diffusa.

 

Con loro grande sorpresa, tutti i richiamati si erano presentati agli uffici di reclutamento, con la benedizione del Partito Comunista, la maggiore e più importante forza politica del paese all’epoca. Il servizio segreto aveva successivamente precisato che la ragione principale (di questo fenomeno) era stata la noia dei teenagers per la vita di campagna e il loro desiderio di azione e di avventura.

 

Nonostante questo episodio, il Ministero della Difesa aveva continuato a spacciare la narrativa secondo cui la comunità palestinese sarebbe stata riluttante a prestare il servizio militare.

 

Inevitabilmente, con il passare del tempo, i Palestinesi avevano veramente voltato le spalle all’esercito israeliano, che era diventato il loro perpetuo oppressore, ma l’utilizzo di questo episodio come pretesto discriminatorio pone seri dubbi sulla presunta democrazia dello stato.

 

Se siete cittadini palestinesi e non avete prestato servizio militare, i vostri diritti all’assistenza statale come lavoratori, studenti, genitori o coniugi, sono severamente limitati, questo riguarda in modo particolare sia gli alloggi che i posti di lavoro; dal momento che il 70% dell’industria israeliana è considerata ad alto livello di sicurezza, essa è di fatto preclusa a queste persone, come possibilità di impiego.

 

Il presupposto sottinteso del Ministero della Difesa era che non solo i Palestinesi non vogliono prestare servizio militare ma che, potenzialmente, sono un nemico interno, a cui non si può dare fiducia. Il problema di questa argomentazione è che in tutte le principali guerre fra Israele e il mondo arabo la minoranza palestinese non si è mai comportata come previsto. Non ha mai dato vita ad una quinta colonna e non si è mai sollevata contro il regime.

 

Questo, però, non è stato di loro aiuto: a tutt’oggi sono visti come un un problema “demografico,” che deve essere risolto. L’unica consolazione è che, attualmente, la maggior parte dei politici israeliani non ritiene che il modo per risolvere il “problema” sia il trasferimento o l’espulsione dei Palestinesi (almeno non in tempo di pace).

 

La politica del territorio israeliana non è democratica

L’affermazione (da parte di Israele) di essere una democrazia è discutibile anche quando si esamina la sua politica di bilancio in relazione alle problematiche territoriali. Fin dal 1948 gli enti locali e le amministrazioni comunali palestinesi hanno ricevuto molti meno finanziamenti delle loro controparti ebraiche. La scarsità di territorio, insieme alla carenza di posti di lavoro ha creato una realtà socioeconomica anomala.

Per esempio, la più ricca comunità palestinese, il villaggio di Me’ilya nell’Alta Galilea è in condizioni peggiori della più povera delle città di sviluppo nel Negev. Nel 2011, il Jerusalem Post riportava che “l’introito medio degli Ebrei era stato dal 40 al 60 % più elevato di quello degli Arabi negli anni dal 1997 al 2009.”

 

Oggi, più del 90% del territorio è di proprietà del Jewish National Fund (JNF). Ai proprietari terrieri è vietato impegnarsi in transazioni commerciali con cittadini non-ebrei e sul suolo pubblico hanno la priorità i progetti di interesse nazionale, il che significa che vengono costruiti nuovi insediamenti per gli Ebrei, mentre, in pratica, non ne esistono di recenti per i Palestinesi. Perciò, la più grande città palestinese, Nazaret, nonostante che dal 1948 abbia triplicato la sua popolazione, non si è espansa neanche di un chilometro quadrato, mentre la città di sviluppo costruita più in alto, Nazaret Superiore, ha triplicato le sue dimensioni, grazie ai territori espropriati ai proprietari terrieri palestinesi.

 

Altri esempi di questa politica si possono trovare nei villaggi palestinesi dell’intera Galilea, e tutti raccontano la stessa storia: di come siano stati ridimensionati del 40%, e talvolta anche del 60%, dal 1948 in poi e di come i nuovi insediamento ebraici siano stati edificati sui terreni espropriati.

 

Altrove, tutto questo ha dato inizio a tentativi di “ebraizzazione” totale. Dopo il 1967, il governo israeliano si era reso conto della scarsità di Ebrei a nord e a sud della nazione e così aveva cercato un modo per incrementare la popolazione in queste aree. Per una modifica demografica del genere, e la successiva edificazione di insediamenti ebraici, era indispensabile la confisca del territorio palestinese.

 

Ancora peggio era stata l’esclusione degli abitanti palestinesi da questi insediamenti. Questa palese violazione al diritto di una persona di vivere in un luogo di sua scelta continua anche al giorno d’oggi e tutti gli sforzi delle ONG che lottano per i diritti umani in Israele sono stati fino ad ora un fallimento completo.

 

La Corte Suprema israeliana è riuscita a mettere in dubbio la legittimità di questa politica solo in alcuni casi individuali, ma non in linea di principio. Immaginate se in Inghilterra o negli Stati Uniti, a cittadini ebrei, o anche cattolici, oltretutto, fosse vietato per legge di vivere in certi villaggi, comprensori, o magari in intere città. Come si potrebbe conciliare una situazione del genere con il concetto di democrazia?

 

L’occupazione non è democratica

Perciò, con un simile comportamento verso le due comunità palestinesi, quella dei rifugiati e quella all’interno di Israele, lo stato ebraico non può, neanche con le più astruse contorsioni mentali, essere considerato una democrazia.

 

Ma la smentita più evidente a questo presupposto è lo spietato comportamento israeliano nei confronti di un terzo gruppo di Palestinesi: quelli che vivono sotto il suo regime, diretto e indiretto, a Gerusalemme Est, nel West Bank e nella Striscia di Gaza. A partire dall’infrastruttura legale messa in opera all’inizio della guerra, passando attraverso l’indiscusso potere assoluto dell’esercito all’interno del West Bank e al di fuori della Striscia di Gaza, fino all’umiliazione di milioni di Palestinesi come routine quotidiana, l’”unica democrazia” del Medio Oriente si comporta come una dittatura della peggior specie.

 

La prima risposta, diplomatica ed accademica, di Israele a quest’ultima accusa è che tutte queste misure sono temporanee e che verranno modificate se i Palestinesi, ovunque si trovino, si comporteranno “meglio”. Ma basta studiare i territori occupati, non parliamo neanche di viverci, per capire immediatamente quanto queste affermazioni siano ridicole.

 

I legislatori israeliani, come abbiamo visto, sono ben decisi a continuare la politica di occupazione fintanto che esisterà lo stato di Israele. Fa parte di quello che il sistema politico israeliano considera lo status quo, preferibile a qualsiasi cambiamento. Israele controllerà la maggior parte della Palestina e, dal momento che in essa vi sarà sempre una consistente popolazione palestinese, questo (controllo) potrà avvenire solo con mezzi non democratici.

 

Inoltre, nonostante tutte le prove contrarie, lo stato israeliano afferma che l’occupazione è di tipo “illuminato”. In questo caso il mito è che Israele aveva cercato, con tutte le buone intenzioni, di mettere in atto un’occupazione caritatevole, ma era stata costretta a passare ad un comportamento più severo a causa della violenza dei Palestinesi.

 

Nel 1967, il governo aveva considerato il West Bank e la Striscia di Gaza come parti naturali di “Eretz Israel,” la terra di Israele, e questa posizione si è mantenuta invariata fin da allora. Quando si assiste al dibattito su questo argomento fra i partiti israeliani di destra e di sinistra, (si vede che) le loro divergenze sono sul come raggiungere questo obbiettivo, non sulla sua legittimità.

 

C’era stato comunque un reale dibattito all’interno di una vasta parte dell’opinione pubblica fra quelli che potremmo definire “redentori” e “custodi.” I “redentori” erano del parere che Israele avesse recuperato il nucleo antico della madrepatria e non potesse sopravvivere in futuro senza di esso. Per contro, i “custodi” asserivano che questi territori dovessero essere ceduti alla Giordania (il West Bank) e all’Egitto (la Striscia di Gaza), in cambio della pace. In ogni caso, questo pubblico dibattito aveva modificato poco o nulla le modalità con cui gli uomini politici più in vista pensavano di amministrare i territori occupati.

 

La parte peggiore della cosiddetta “occupazione illuminata” è costituita dai metodi usati dal governo per la gestione del territorio. In principio, l’area era stata suddivisa in spazi “arabi”e “potenzialmente ebraici”. Le aree densamente popolate dai Palestinesi erano diventate autonome e venivano amministrate da collaborazionisti locali, in regime di legge marziale. Questo sistema è stato sostituito da un’amministrazione civile solo nel 1981.

Le altre aree, gli spazi “ebraici,” erano stati colonizzati con insediamenti ebraici e basi militari. Questa politica aveva lo scopo di confinare la popolazione del West Bank e della Striscia di Gaza in enclavi separate fra loro, senza spazi verdi e con nessuna possibilità di espansione urbana.

 

Le cose erano solo peggiorate quando, subito dopo l’occupazione, Gush Emunin aveva cominciato ad insediarsi nel West Bank e nella Striscia di Gaza, asserendo di voler seguire il progetto di colonizzazione biblico, piuttosto di quello governativo. Man mano che (questa comunità) si faceva strada nelle zone palestinesi densamente popolate, lo spazio a disposizione della popolazione locale veniva ulteriormente ridotto.

 

La terra è ciò di cui ogni progetto di colonizzazione ha più bisogno, nei territori occupati questo obbiettivo era stato raggiunto solo attraverso espropri generalizzati, con l’allontanamento della popolazione dai luoghi dove aveva vissuto per generazioni e con il suo isolamento in enclavi, in condizioni di vita terribili.

 

Quando si sorvola il West Bank, si può vedere chiaramente il risultato cartografico di questa politica: fasce di insediamenti che dividono il territorio e ritagliano le comunità palestinesi, riducendole ad entità minuscole, isolate e scollegate fra loro. Queste “fasce di giudaizzazione” separano un villaggio dall’altro, i villaggi dalle città e spesso dividono in due un singolo paese.

 

Questo è ciò che gli studiosi chiamano un disastro geografico, non ultimo perché questo tipo di politica si è trasformata anche in un disastro ecologico: inaridendo le fonti idriche e rovinando le parti più belle del panorama della Palestina.

 

Inoltre, gli insediamenti erano diventati focolai di crescita incontrollati dell’estremismo ebraico, le cui vittime principali erano i Palestinesi. In questo modo, l’insediamento di Efrat ha compromesso il sito, patrimonio dell’umanità, del fiume Wallaja, presso Betlemme, e il villaggio di Jafneh, presso Ramallah, famoso per i suoi canali di acqua limpida, ha perso il suo ruolo di attrazione turistica. Questi sono solo due piccoli esempi fra centinaia di casi simili.

 

La distruzione delle case dei Palestinesi non è democratica

La demolizione degli edifici non è un fenomeno nuovo in Palestina. Insieme a molti dei più barbari metodi di punizione collettiva utilizzati da Israele fin dal 1948, questo era stato dapprima ideato e messo in pratica dal governo del Mandato Britannico durante la grande rivolta araba del 1936 – 1939.

 

Questa era stata la prima ribellione dei Palestinesi contro la politica filo-sionista del Mandato Britannico, e all’esercito inglese erano occorsi tre anni per domarla. Durante questi eventi, erano state demolite circa duemila abitazioni nel corso delle varie punizioni collettive inflitte alla popolazione locale.

 

Israele ha demolito case praticamente fin dal primo giorno dell’occupazione militare del West Bank e della Striscia di Gaza. L’esercito ha distrutto, ogni anno, centinaia di abitazioni in risposta alle diverse azioni (di protesta) di singoli membri familiari.

(Non importa se) per piccole infrazioni alla legge marziale o per la partecipazione alle rivolte violente contro l’occupazione, gli Israeliani erano svelti a mandare i loro buldozzer per spazzare via una casa, che non era solo mattoni, ma anche un centro di vita e di esistenza. Nella zona della Grande Gerusalemme (come all’interno di Israele) la demolizione era anche una forma di punizione per un ampliamento non autorizzato di un edificio già esistente o per il mancato pagamento di debiti.

Un’altra forma di punizione collettiva che è tornata di recente a far parte del repertorio israeliano è quella della muratura degli edifici. Immaginate che tutte le finestre e le porte di casa vostra vengano murate con malta, pietre e cemento, in modo che non possiate rientrare o recuperare qualcosa che avevate dimenticato. Ho cercato a lungo nei miei libri di storia per vedere se esistesse un altro esempio del genere, ma non ho trovato prove che azioni così crudeli vengano messe in pratica altrove.

 

Spezzare la resistenza palestinese non è democratico

Infine, sotto l’”occupazione illuminata,” ai coloni è stato permesso di formare squadre di vigilantes, allo scopo di molestare la popolazione e distruggere le loro proprietà. Queste bande hanno cambiato la loro tattica nel corso degli anni.
Durante gli anni ‘80 avevano utilizzato il terrore vero e proprio, dal ferimento dei leaders palestinesi (uno di loro aveva perso una gamba durante uno di questi attacchi), fino al progetto di far saltare in aria la moschea di Haram al-Sharif a Gerusalemme.
In questo secolo si sono impegnati nella vessazione quotidiana dei Palestinesi: sradicando i loro alberi, distruggendo i loro mezzi di sussistenza e sparando a caso contro i loro veicoli e le loro abitazioni. Dall’anno 2000 si sono verificati, ogni mese, almeno un centinaio di attacchi del genere in alcune zone, come quella di Hebron, dove cinquecento coloni, con latacita collaborazione dell’esercito israeliano, tormentano la popolazione locale della zona con sistemi ancora più brutali.

 

Fin dagli albori dell’occupazione, ai Palestinesi sono state date due scelte: accettare la realtà di una continua prigionia in un mega-carcere per moltissimo tempo o sfidare la potenza del più potente esercito del Medio Oriente. Ogni volta che i Palestinesi hanno opposto resistenza (e lo hanno fatto nel 1987, 2000, 2006, 2012, 2014 e nel 2016), sono stati presi di mira alla stregua di soldati o unità di un esercito regolare. In questo modo, sono stati bombardati villagi e città come se fossero state basi militari e la popolazione civile inerme è stata colpita allo stesso modo di un esercito sul campo di battaglia.

Oggi sappiamo anche troppo su che cosa voglia dire una vita sotto occupazione, prima e dopo Oslo, per prendere sul serio l’affermazione che la non-resistenza possa garantire una minor oppressione. Le incarcerazioni senza processo, che così tante persone hanno provato sulla loro pelle nel corso degli anni; le demolizioni di migliaia di case; l’uccisione e il ferimento di innocenti; il prosciugamento delle sorgenti, sono tutte testimonianze di uno dei più brutali regimi dei nostri tempi.

Amnesty International documenta tutti gli anni in maniera esaustiva questo genere di occupazione. Quello che segue è tratto dal loro rapporto del 2015:

Nel West Bank, compresa Gerusalemme est, le forze israeliane hanno perpetrato uccisioni illegali di civili palestinesi, bambini compresi, e hanno incarcerato migliaia di Palestinesi che protestavano o comunque si opponevano alla continua occupazione militare di Israele, trattenendone centinaia in detenzione amministrativa. Tortura ed altre misure coercitive sono assai diffuse e vengono attuate in piena impunità.

 

Le autorità continuano a favorire gli insediamenti illegali nel West Bank e limitano severamente la libertà di movimento dei Palestinesi, inasprendo ulteriormente le restrizioni, in una escalation di violenze dal mese di ottobre, che comprendono attacchi ai civili israeliani da parte dei Palestinesi ed esecuzioni, apparentemente extragiudiziarie, commesse dalle forze israeliane. I coloni israeliani del West Bank hanno attaccato i Palestinesi e le loro proprietà rimanendo virtualmente impuniti. La Striscia di Gaza ha subito un blocco totale da parte dell’esercito israeliano, in pratica una punizione collettiva per tutti i suoi abitanti. Le autorità continuano a demolire abitazioni di Palestinesi nel West Bank e all’interno di Israele, in particolar modo nei villaggi beduini della regione di Negev/Naqab, espellendo con la forza chi vi abita.

Prendiamolo per gradi. Prima, gli assassinii, quelli che il rapporto di Amnesty chiama “uccisioni illegali”: circa quindicimila Palestinesi sono stati uccisi “illegalmente” da Israele, a partire dal 1967. Fra di loro c’erano duemila bambini.

 

Incarcerare i Palestinesi senza processo non è democratico

Un’altra caratteristica dell’”occupazione illuminata” è la carcerazione senza processo. Un Palestinese su cinque nel West Bank e nella Striscia di Gaza ha provato una simile esperienza.

 

E’ interessante confrontare questa prassi israeliana con le analoghe politiche degli Stati Uniti, in passato e nel presente, dal momento che gli oppositori al movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) [nei confronti di Israele] affermano che la condotta americana è di gran lunga più severa. Infatti, il peggior esempio americano è stato la carcerazione senza processo, di centomila cittadini di origini giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, ed altri trentamila  detenuti successivamente, nel corso della cosiddetta “guerra al terrore.”

 

Nessuno di questi numeri si avvicina, anche solo lontanamente, a quello dei Palestinesi che hanno avuto un’esperienza del genere, compresi i bambini, i vecchi e quelli condannati a lunghe pene detentive.

Essere arrestati senza processo è un’esperienza traumatica. Non conoscere le accuse nei propri confronti, non poter parlare con un avvocato e perdere praticamente i contatti con la propria famiglia sono solo alcune delle preoccupazioni che tormentano chi viene incarcerato. Anche il far circolare false voci o l’umiliare le persone per il loro reale o presunto orientamento sessuale sono metodi utilizzati di frequente per stimolare la delazione.

Per quanto riguarda la tortura, l’affidabile sito web Middle East Monitor ha pubblicato uno sconvolgente articolo in cui si descrivono i duecento metodi di tortura utilizzati dagli Israeliani nei confronti dei Palestinesi. L’elenco si basa su rapporti delle Nazioni Unite e dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Fra le pratiche utilizzate (il rapporto) elenca percosse, incatenamento dei prigionieri a porte o sedie per ore intere, docce di acqua calda o fredda, fratture delle dita e torsione dei testicoli.

 

Israele non è una democrazia

Perciò, quello contro cui dobbiamo lottare non è solo l’affermazione, da parte di Israele, di mantenere una occupazione illuminata ma anche la sua pretesa di essere una democrazia. Un simile comportamento nei confronti dei milioni di persone sotto il suo regime smentisce un tale imbroglio politico.

 

In ogni caso, anche se ampi settori delle società civili di tutto il mondo non si fanno abbindolare dalla cosiddetta democrazia israeliana, le loro classi dirigenti continuano a trattare (lo stato di Israele) come un membro dell’esclusivo club delle nazioni democratiche. Per molti aspetti, il movimento BDS riflette le frustrazioni di questi elementi delle società civili per le politiche dei loro governi nei confronti di Israele.

Per la maggior partre degli Israeliani, queste controargomentazioni sono, nel migliore dei casi, irrilevanti e, nel peggiore, malevoli. Lo stato israeliano rimane dell’idea di essere un benevolo occupante. La tesi dell’”occupazione illuminata” sostiene, secondo l’opinione comune dei cittadini israeliani, che i Palestinesi si troverebbero molto meglio sotto l’occupazione militare e che non avrebbero nessuna ragione al mondo per opporvisi, men che meno con la forza. Se siete un sostenitore acritico di Israele all’estero, potreste benissimo accettare anche queste conclusioni.

 

Ci sono, però, alcuni segmenti della società israeliana che riconoscono la validità di alcune delle affermazioni fatte in questa sede. Negli anni ‘90, numerosi accademici, giornalisti ed artisti ebrei avevano espresso, in maniere diverse, i loro dubbi sul fatto che Israele potesse essere considerata una democrazia.

Ci vuole un certo coraggio per sfidare i miti fondamentali della propria società e della propria nazione. Questo è il motivo per cui, successivamente, alcuni di essi avevano ritrattato la loro coraggiosa presa di posizione e si erano nuovamente adeguati alla narrativa comune.

Tuttavia, per un certo periodo nell’ultimo decennio del secolo scorso, avevano prodotto tutta una serie di lavori che mettevano in dubbio la presunzione democratica di Israele. Consideravano Israele come facente parte di una diversa comunità: quella delle nazioni non-democratiche. Uno di loro, il geografo Oren Yiftachel , della Ben Gurion University, aveva descritto Israele come una etnocrazia, un regime che governava uno stato ad etnia mista, con una preferenza, formale e legale, per un gruppo etnico in particolare. Altri si erano spinti oltre, definendo Israele uno stato basato sull’apartheid o sull’occupazione coloniale.


In breve, qualunque fosse stata la descrizione fornita da questi studiosi, la “democrazia” non c’era.

 

 


Link: http://www.informationclearinghouse.info/49617.htm

12.06.2018

 

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