Il Fatto Quotidiano

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13 agosto 2018

 

Turchia, le due opzioni di Erdogan: stretta fiscale e recessione o autarchia

di Mario Seminerio

 

Il debito pubblico del Paese è basso, la situazione è rimediabile ma il rapporto tra politica ed economia fa temere il peggio

 

Gli ultimi giorni hanno visto una vera e propria tempesta su moneta e titoli di stato della Turchia, peraltro già da tempo in tensione. Gli investitori hanno atteso il catalizzatore per un violento attacco speculativo contro un paese che da tempo è caratterizzato da ampi squilibri macroeconomici.

 

Quel catalizzatore è stato dato da sanzioni da parte dell’Amministrazione Trump contro due esponenti del regime turco a causa del mancato rilascio di un pastore evangelico statunitense, detenuto in Turchia da due anni con accuse di spionaggio e terrorismo relative al tentato colpo di stato del 2016. Tanto è bastato per indurre una fuga precipitosa dalla lira e dai titoli di stato di Ankara.

 

Sommando danno e beffa, Trump ha poi adeguato i dazi su acciaio ed alluminio turchi al crollo della lira. Al potere dal 2002, Recep Tayyip Erdogan ha dapprima favorito il rilancio dell’economia turca in senso favorevole alle imprese ed all’apertura ai mercati internazionali, beneficiando di forti investimenti diretti esteri; ma la progressiva involuzione autocratica del paese, dopo gli attacchi terroristici del 2015 ed il tentativo di colpo di stato del 2016, ha portato alla perdita di disciplina fiscale e monetaria.

 

Erdogan ha più volte bullizzato la banca centrale turca, sostenendo la bizzarra tesi che alti tassi d’interesse causerebbero inflazione, si è attribuito l’esclusiva della nomina del governatore dell’istituto di emissione ed ha posto il genero alla guida del ministero delle Finanze. L’ampio deficit delle partite correnti, pari ormai al 6% del Pil, esacerbato dal rialzo del prezzo del greggio, di cui il paese è grande importatore, e dalla forza del dollaro, ha portato a crescenti pressioni ribassiste sul cambio.

 

La banca centrale è stata timida nel contrastare il surriscaldamento dell’economia e l’inflazione, ormai oltre il 15%; tassi reali troppo bassi stimolano l’economia oltre il necessario ed accentuano pressioni speculative e fughe di capitali.

 

Il paese ha un debito estero netto pari a circa il 35% del Pil e riserve valutarie di poco più di 100 miliardi di dollari, mentre entro maggio del prossimo anno scadranno debiti del settore privato per 70 miliardi di dollari, ed il rischio di dissesti ed aumenti di sofferenze bancarie è reale.

 

Erdogan ha davanti a sé due alternative: attuare una stretta fiscale e lasciare che la banca centrale alzi i tassi d’interesse, con inevitabile impulso recessivo sull’economia; oppure prendere la via dell’autarchia dopo l’inevitabile crisi di bilancia dei pagamenti, con chiusura ai mercati internazionali e controlli sui capitali, la strada verso l’impoverimento del paese e possibilmente la sua dollarizzazione o eurizzazione, già oggi in atto a fini di tutela dei risparmi.

 

Il paese ha un basso debito pubblico e delle famiglie, pari rispettivamente al 28% ed al 17% circa del Pil, quindi la situazione è rimediabile. Ma la sindrome da accerchiamento di cui soffre Erdogan non depone a favore di una resipiscenza.

 

 

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