Originale: The New York Times

http://znetitaly.altervista.org/

28 gennaio 2019

 

Il programma di automazione celato dall’élite di Davos  

di Kevin Roose

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Non lo ammetteranno mai in pubblico, ma molti dei vostri capi vogliono che le macchine vi sostituiscano prima possibile.

 

Lo so perché, nelle ultime settimane, ho socializzato con dirigenti aziendali alla riunione annuale del World Economic Forum a Davos. E ho notato che le loro risposte a domande riguardo all’automazione dipendono moltissimo da chi ascolta.

 

In pubblico molti dirigenti si torcono le mani per le conseguenze negative che l’intelligenza artificiale (I.A.) e l’automazione potrebbero avere sui lavoratori. Partecipano a discussioni di gruppo sulla costruzione di una “I.A. ‘umanocentrica’” per la “Quarta Rivoluzione Industriale” – gergo di Davos per l’adozione industriale di macchine ad apprendimento automatico e altre tecnologie avanzate – e parlano della necessità di costruire una rete di sicurezza per quelli che perdono il lavoro a causa dell’automazione.

 

Ma in contesti privati, compresi incontri con i leader delle molte società di consulenza e tecnologia le cui vetrine animate si allineano sulla Davos Promenade, questi dirigenti raccontano una storia diversa. Si affrettano ad automatizzare le loro forze lavoro per restare in testa alla competizione, con scarso riguardo per l’impatto sui lavoratori.

In tutto il mondo dirigenti stanno spendendo miliardi di dollari per trasformare le loro attività in operazioni snelle, digitalizzate e fortemente automatizzate. Bramano i grossi margini di profitto che può assicurare l’automazione è considerano l’I.A. un biglietto vincente per risparmi, forse permettendo loro di ridurre dipartimenti con migliaia di lavoratore a solo poche dozzine.

 

“Mirano a realizzare grossissimi numero”, ha detto Mohit Joshi, il presidente di Infosys, una società di tecnologia e consulenza che aiuta altre imprese ad automatizzare le loro attività. “All’inizio erano graduale, obiettivi di riduzione della manodopera dal 5 al 10 per cento. Adesso stanno dicendo: ‘Perché non possiamo fare con l’un per cento di quelli che abbiamo?’”

 

Pochi dirigenti statunitensi ammetteranno di volersi liberare di lavoratori umani, un tabù nell’attuale era della disuguaglianza. Così sono venuti fuori con una lunga serie di termini in voga ed eufemismi per mascherare la loro intenzione. I lavoratori non sono sostituiti da macchine, sono “liberati” da compiti onerosi e ripetitivi. Le società non stanno licenziando lavoratori, stanno “subendo una trasformazione digitale”.

 

Un’indagine del 2017 di Deloitte ha rilevato che il 53 per cento delle società aveva già cominciato a usare macchine per compiti in precedenza svolti da umani. Ci si aspetta che la percentuale salga al 72 per cento entro l’anno prossimo.

 

L’ossessione dell’élite industriale per la I.A. è stata redditizia per aziende che si specializzano in “automazione di processi robotici”, o R.P.A. Infosys, che ha sede in India, ha riferito un aumento del 33 per cento di entrate anno su anno nella sua divisione digitale. L’unità “soluzioni cognitive” dell’IBM, che utilizza l’I.A. per aiutare le aziende ad aumentare l’efficienza, è divenuta la seconda più vasta divisione della società, registrando 5,5 miliardi di dollari di entrate nell’ultimo trimestre. La banca d’investimenti UBS prevede che l’industria dell’intelligenza artificiale potrebbe valere sino a 180 miliardi di dollari entro l’anno prossimo.

 

Kai-Fu Lee, l’autore di “AI Superpowers” e dirigente tecnologico di lungo corso, prevede che l’intelligenza artificiale eliminerà il 40 per cento dei posti di lavoro mondiali entro 15 anni. In un’intervista che amministratori delegati erano sotto enorme pressione da parte di azionisti e consigli di amministrazione per massimizzare i profitti di breve termine e che la rapida svolta all’automazione è stata la conseguenza inevitabile.

“Dicono sempre che è qualcosa di più che il solo prezzo delle azioni”, ha detto. “Ma alla fine, se fai un casino sei licenziato”.

 

Altri esperti hanno predetto che la I.A. creerà più posti di lavoro nuovi di quanti ne distrugga e che le perdite di posti causate dall’automazioni probabilmente non saranno catastrofiche. Segnalano che parte dell’automazione aiuta i lavoratori migliorando la produttività e liberandoli per concentrarsi in lavori creativi anziché su quelli di routine.

Ma in un tempo di instabilità politica e di movimenti anti-élite nella sinistra progressista e nella destra nazionalista, probabilmente non è sorprendente che tutta questa automazione stia avvenendo in silenzio, lontano dagli occhi del pubblico. A Davos questa settimana molti dirigenti si sono rifiutati di dire quanto denaro avevano risparmiato automatizzando lavori in precedenza svolti da umani. E nessuno è stato disposto a dire pubblicamente che sostituire i lavoratori umani è il loro obiettivo finale.

 

“Quella è la grande dicotomia”, ha detto Ben Pring, direttore del Center for the Future of Work a Cognizant, una società di servizi tecnologici. “Da un lato”, ha detto, dirigenti orientati al profitto “vogliono assolutamente automatizzare quanto più possibile”.

“Dall’altro”, ha aggiunto, “devono fare i conti con una reazione negativa nella società civica”.

 

Per una visione senza fronzoli di come alcuni leader statunitensi parlano in privato dell’automazione si devono ascoltare le loro controparti in Asia che spesso non fanno alcun tentativo di celare i loro scopi. Terry Gou, presidente della fabbrica taiwanese di elettroniche Foxconn, ha detto che la società programma di sostituire con robot l’ottanta per cento dei suoi lavoratori nei prossimi da cinque a dieci anni. Richard Liu, il fondatore della società cinese di commercio elettronico JD.com, ha detto a una conferenza di imprenditori l’anno scorso che “io spero che la mia società sia un giorno automatizzata al cento per cento”.

 

Una tesi comune avanzata dai dirigenti è che i lavoratori i cui posti sono eliminati dall’automazione possono essere “riqualificati” per svolgere altri lavori in un’organizzazione. Offrono esempi come Accenture che ha affermato nel 2017 di aver sostituito 17.000 posti di lavoro amministrativi senza licenziamenti, addestrando dipendenti a lavorare altrove nella società. In una lettera agli azionisti l’anno scorso Jeff Bezos, amministratore delegato di Amazon, ha affermato che 16.000 magazzinieri di Amazon avevano ricevuto addestramento in settori ad alta richiesta come l’assistenza infermieristica e la meccanica aeronautica, con la società che ha coperto il 95 per cento delle loro spese.

 

Ma questi programmi possono essere l’eccezione che conferma la regola. C’è una quantità di racconti di riqualificazione riuscita – gli ottimisti citano spesso in programma in Kentucky che ha addestrano un piccolo numero di ex minatori del carbone a diventare programmatori di computer – ma ci sono scarse prove che funzioni su grande scala.

Un rapporto del World Economic Forum questo mese ha stimato che degli 1,37 milioni di lavoratori che si prevede saranno interamente cacciati dall’automazione nel prossimo decennio, solo uno su quattro può essere riqualificato con profitto da programmi del settore privato. Il resto, presumibilmente, dovrà arrangiarsi o dipendere da assistenza governativa.

 

A Davos i dirigenti tendono a parlare dell’automazione come di un fenomeno naturale sul quale non hanno alcun controllo, come gli uragani o le ondate di calore. Affermano che se non automatizzano i posti di lavoro al più presto possibile, lo faranno i concorrenti.

“Saranno emarginati se non lo fanno”, ha detto Katy George, senior partner della società di consulenza McKinsey & Company.

 

L’automazione è una scelta; ovviamente una scelta resa più impellente dalle pretese degli azionisti, ma pur sempre una scelta. E anche se un certo grado di disoccupazione causata dall’automazione è inevitabile, questi dirigenti possono scegliere come sono distribuiti gli utili dell’automazione, e se dare ai lavoratori i profitti in eccesso che raccolgono oppure accumularli per sé e per i propri azionisti.

 

Le scelte compiute dall’élite di Davos – e le pressioni applicatele perché agisca negli interessi dei lavoratori piuttosto che nei propri – stabiliranno se la I.A. è usata come strumento per accrescere la produttività o per infliggere sofferenza.

“La scelta non è tra automazione e non automazione”, ha detto Erik Brynjolfsson, il direttore dell’iniziativa del M.I.T. sull’Economia Digitale. “E’ tra l’uso della tecnologia in modi che creino prosperità condivisa oppure una maggior concentrazione della ricchezza”.

 


Kevin Roose è un giornalista di Business Day e un collaboratore occasione del The New York Times Magazine. Il suo articolo “The Shift” esamina l’incrocio di tecnologia, affari e cultura. @kevinroose


Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-hidden-automation-agenda-of-the-davos-elite/