Fonte: Oltre la Linea

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19/06/2019

 

Discorso per un’Europa illiberale

di Alain de Benoist

traduzione di Francesco Alarico della Scala

 

Alain de Benoist è saggista, filosofo, autore di un centinaio di opere relative alla filosofia politica e alla storia delle idee. Ha appena pubblicato Contro il liberalismo. La società non è un mercato, per le Edizioni di Rocher. Interveniva al sesto colloquio dell’Istituto ILIADE, «Europa, l’epoca delle frontiere», il 6 aprile 2019:

Signore e signori, cari amici,
Vorrei parlarvi di un fenomeno relativamente nuovo e non privo di legami con il tema di questa giornata. Si tratta dell’illiberalismo. La parola è un po’ barbara, ma il senso è abbastanza chiaro: essa designa l’avvento di nuove forme politiche che si richiamano alla democrazia, ma vogliono allo stesso tempo rompere con la democrazia liberale che si trova oggi in crisi in pressoché tutti i paesi del mondo.
Il termine è apparso alla fine degli anni ’90 negli scritti di un certo numero di insigni politologi, ma solo in tempi molto recenti, nel 2014, si è imposto fra il grande pubblico quando il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, ha pubblicamente dichiarato a un’università estiva del suo partito: «La nazione ungherese non è un aggregato di individui, ma una comunità che dobbiamo organizzare, fortificare e dunque elevare. In questo senso, il nuovo Stato che stiamo edificando non è uno Stato liberale ma illiberale». Aggiungeva che è giunto il momento di «comprendere sistemi che non sono occidentali, che non sono liberali, e che però fanno il successo di alcune nazioni».
Che cosa voleva dire con questo? E qual è in fondo la differenza fondamentale tra la democrazia liberale e la democrazia illiberale?
La differenza è che il liberalismo si organizza intorno al concetto di individuo e intorno al concetto di umanità, eliminando tutte le strutture intermedie, mentre la democrazia illiberale, che poi è la democrazia in genere, si organizza fondamentalmente intorno al concetto di cittadino. Si può a questo riguardo definirla come una dottrina che separa l’esercizio classico della democrazia dai princìpi dello Stato di diritto. Si tratta di una forma di democrazia in cui la sovranità popolare e l’elezione continuano a svolgere un ruolo essenziale, ma dove non si esita a derogare a certi princìpi liberali quando le circostanze lo esigono.
Le cause dell’ascesa dell’«illiberalismo» sono evidenti, e per molti versi coincidono con quelle che spiegano oggi il successo dei partiti populisti. Esse attengono prima di tutto alla constatazione che le democrazie liberali si sono un po’ ovunque trasformate in oligarchie finanziarie staccate dal popolo: inefficacia, impotenza, corruzione, partiti trasformati in semplici macchine per farsi eleggere, regno degli esperti, ristrettezza di vedute, ecc. A questa osservazione se ne aggiunge un’altra, più grave: nelle democrazie liberali, ormai le nazioni e i popoli non hanno più i mezzi per difendere i loro interessi.
Quale senso in effetti può mai avere la sovranità del popolo se i governanti non hanno più l’indipendenza necessaria a fissare da soli i propri indirizzi di massima in campo economico, finanziario, militare, oppure in materia di politica estera? Si può continuare ad imporre dei princìpi giuridici che, invece di favorire la coesione dei popoli e la perpetuazione dei loro valori comuni, finiscono per dissolverli?
Soffermiamoci sui dettagli della questione. La democrazia tutta poggia sul principio della sovranità popolare in quanto potere costituente. La democrazia è la forma di governo che risponde al principio dell’identità di vedute dei governanti e dei governati, giacché la prima identità è quella di un popolo concretamente esistente con se stesso in quanto unità politica. Tutti i cittadini che appartengono a questa unità politica sono formalmente uguali.
Precisiamo tuttavia che il principio della democrazia non è quello dell’uguaglianza naturale degli uomini fra loro, ma quello dell’uguaglianza politica di tutti i cittadini: il suffragio obbedisce alla regola «un cittadino, un voto», e non alla regola «un uomo, un voto». Il popolo, in democrazia, non esprime con il voto proposte che siano più «vere» di altre. Fa semplicemente sapere dove vanno le sue preferenze e indica se sostiene o ripudia i suoi dirigenti.
Come scrive molto giustamente Antoine Chollet, «in una democrazia, il popolo non ha né torto né ragione, ma decide». È il fondamento stesso della legittimità democratica. Ecco perché la questione di sapere chi è cittadino – e chi non lo è – è la questione fondativa di ogni prassi democratica. Anche per questo le frontiere territoriali dell’unità politica sono essenziali. Del pari, la definizione democratica della libertà non è l’assenza di costrizione, come nella dottrina liberale o secondo Hobbes, ma si identifica con la possibilità per ciascuno di partecipare alla definizione collettiva degli indirizzi politici e dei vincoli sociali. Le libertà, sempre concrete, si applicano a campi specifici e a situazioni particolari.
Il liberalismo è tutto diverso. Sebbene la politica non sia né una «sfera» né un campo separato dagli altri, ma una dimensione elementare di tutta la società o comunità umana, il liberalismo è una dottrina che, sul piano politico, divide la società in un certo numero di «sfere» e sostiene che la «sfera economica» dev’essere resa autonoma nei confronti del potere politico, sia per ragioni di efficienza (il mercato funziona in maniera ottimale solo se nulla va ad interferire con il suo funzionamento «naturale»), sia per ragioni «antropologiche» (la libertà di commercio, dice Benjamin Constant, affranca l’individuo dal potere sociale, giacché per definizione è lo scambio economico che meglio permette agli individui di massimizzare liberamente i propri interessi). L’economia, percepita in origine come il regno della necessità, diviene così quello della libertà per eccellenza.
Ridefinita in senso liberale, la democrazia non è più il regime che consacra la sovranità del popolo, ma quello che «garantisce i diritti dell’uomo», intendendo con ciò i diritti soggettivi, inerenti alla persona umana e dichiarati per questo motivo al contempo «naturali e imprescrittibili». Per i liberali, questi diritti prevalgono sulla sovranità del popolo al punto che essa viene rispettata solo più finché non li contraddice: l’esercizio della democrazia è così sottoposto a condizioni, a partire dal rispetto dei «diritti inalienabili» posseduti da ogni individuo in ragione stessa della sua sola esistenza.
Confusa con uno «Stato di diritto» divenuto l’orizzonte insuperabile del nostro tempo, la democrazia si trasforma in un movimento verso un’uguaglianza sempre più grande, destinata a scaturire dal libero confronto dei diritti, un’uguaglianza intesa solo più come sinonimo di medesimezza. Lo Stato di diritto dissolve la politica sotto l’effetto corrosivo della moltiplicazione dei diritti. Come dice Marcel Gauchet, «invocati in continuazione, i diritti dell’uomo finiscono per paralizzare la democrazia».
Lo Stato di diritto, di cui bisogna rammentare che è anzitutto uno Stato di diritto privato, implica la preminenza del diritto sul potere politico e poggia sull’imperativo di obbedire alla legge. Pur facendo leva sulla metafisica dei diritti dell’uomo, che sola si suppone garantisca la dignità umana, esso consacra il potere delle leggi generali come norme generali che si impongono a chiunque, a partire dai dirigenti.
La legittimità è allora ricondotta alla semplice legalità, al diritto positivo che regna in modo puramente impersonale e procedurale. Carl Schmitt ha mostrato che questo sistema elimina il concetto stesso di legittimità e che si rivela incapace di funzionare nelle situazioni d’urgenza, in cui le norme non sono più valide. Questa sostituzione della politica col diritto o con la legge finisce di fatto per svuotare la politica della sua sostanza.
Lo Stato di diritto va necessariamente di pari passo con l’individualismo liberale e la sua concezione di una libertà tutta «negativa», che riguarda solo l’individuo, e mai la collettività. Questo spiega perché il liberalismo sia fondamentalmente ostile al concetto di sovranità – fuorché, beninteso, alla sovranità dell’individuo.
Per esso, ogni forma di sovranità che ecceda l’individuo è una minaccia per la libertà. Condanna dunque la sovranità politica e la sovranità popolare dal momento che la legittimità appartiene solo alla volontà individuale. «Dove c’è sovranità, c’è dispotismo», diceva già Pierre-Paul Royer-Collard. Con l’individuo posto come sovrano in termini assoluti, il popolo non gode di nessuna legittimità intrinseca.
Non riconoscendo la validità di alcuna decisione democratica che possa ledere i princìpi liberali o l’ideologia dei diritti dell’uomo, il liberalismo non ammette dunque mai che la volontà del popolo debba essere sempre rispettata. Tutte le democrazie liberali sono democrazie parlamentari rappresentative, il che significa che la sovranità parlamentare si è sostituita alla sovranità popolare. Per il liberalismo, in effetti, il potere non è fondamentalmente potere di dirigere, ma di rappresentare la società. Di qui il ruolo fondamentale dei rappresentanti che, dopo esser stati eletti, possono fare ciò che vogliono del potere di cui ci si è spossessati a loro vantaggio. Il popolo è però tanto più incline a farsi rappresentare se non è veramente sovrano che quando è presente a se stesso. La democrazia liberale, per così dire, è una democrazia senza démos, una democrazia senza popolo.
Ma, forse si dirà, questo che cosa c’entra con le frontiere? Il nesso è evidente e duplice.
L’ideologia dei diritti dell’uomo, come si è detto, non vuol conoscere altro che l’umanità e l’individuo. Ma la politica si articola su ciò che si colloca tra quei due concetti: i popoli, le culture, gli Stati, i territori, nei quali il liberalismo non vuol vedere altro che semplici aggregati di individui.
L’umanità non è essa stessa un concetto politico: non si può essere «cittadino del mondo», perché il mondo politico non è un universum, ma un pluriversum: la politica implica una pluralità di forze in presenza. Se ne deduce, come scrive Michael Sandel, che «i princìpi universali sono incapaci di fissare un’identità politica comune».
Per questo la politica implica l’esistenza di frontiere, senza le quali la distinzione fra cittadini e non-cittadini risulta priva di significato. E la democrazia esige essa stessa che vi siano delle frontiere, perché soltanto in un contesto territoriale ben definito, che determini il quadro di esercizio della sovranità, può svolgersi il gioco democratico. Lo constatava ancora di recente il giurista Bertrand Mathieu quando scriveva: «La democrazia implica l’esistenza di una società politica, inscritta in frontiere e formata da un popolo composto di cittadini legati da una comunità di destino e dalla condivisione di valori comuni».
A questo riguardo non è un caso che le democrazie illiberali comincino a moltiplicarsi nel momento stesso in cui l’Unione europea si infrange contro la crisi migratoria. E non è un caso neppure che queste democrazie illiberali in via di insediamento in Europa orientale e centrale si accingano a dotarsi di frontiere degne di questo nome, come testimonia l’installazione di barriere grazie alle quali esse si sforzano di arginare i flussi migratori. Per il liberalismo, al contrario, il principio che s’impone è quello del «laissez faire, laissez passer»: la libera circolazione degli uomini, delle merci e dei capitali.
Si ritrova qui un esempio della vecchia opposizione fra la Terra e il Mare. Solo la Terra, in effetti, può disporre di frontiere, laddove non se ne può instaurare nessuna sui mari e sugli oceani. I flussi migratori, proprio come i flussi commerciali e i flussi finanziari, appartengono al mondo «talassico» dei flussi e dei riflussi, mentre la politica appare intrinsecamente legata al mondo «tellurico», che esige limitazioni e linee del fronte.
Ma bisogna anche veder bene – e qui concludo – che le frontiere sono anche dei limiti: esse dicono dove si fermano e dove incominciano l’autorità politica e la legittima volontà dei cittadini di far rispettare la loro personalità, la loro specificità storico-sociale, la socialità loro propria, vale a dire i loro costumi.
Noi viviamo invece nell’epoca dell’illimitatezza, ossia della negazione generalizzata dei limiti. Noi viviamo, potremmo dire, nell’epoca del «trans»: transnazionalità, transfrontalieri, transazioni, transessuali, trasparenza, trasgressione, transumanesimo. Il limite è la misura; l’illimitato è la dismisura – ed è anche l’indistinzione, l’ibridazione, lo sradicamento delle particolarità e delle norme che l’ideologia dominante si è da molto tempo accinta a decostruire.
Questa illimitatezza trova la sua illustrazione più tipica nella natura stessa del sistema capitalistico. La caratteristica fondamentale di questo sistema è in effetti il suo orientamento verso un’accumulazione senza fine nel duplice senso del termine: processo che non si ferma mai e non ha altra finalità che la valorizzazione del capitale, sistema in cui qualsiasi surplus è usato per riprodursi ed auto-accrescersi. Tutto ciò che può essere d’ostacolo alla circolazione degli uomini e delle cose necessaria all’espansione planetaria del mercato, a partire dalle frontiere, dev’essere sradicato o ritenuto inesistente.
La logica di espansione del capitale non differisce granché in fondo dal processo di razionalizzazione del mondo che Heidegger chiama il Gestell o la Macchinazione (Machenschaft). Percepito come un oggetto privo di senso intrinseco, il mondo è interpretato come un fondo da sfruttare; è predisposto a divenire fonte di reddito e di profitto, ossia «valore» nel senso economico del termine. È questa illimitatezza nello sguardo come nella pratica che fa del capitalismo un sistema basato sulla dismisura, sulla negazione di qualsiasi limite, preoccupato soltanto di produrre sempre più valore per accrescere e valorizzare sempre di più il capitale.
Voi sottolineate di passaggio che la società degli individui è per sua natura una società di mercato, perché l’illimitatezza del desiderio e l’inflazione dei diritti risponde all’illimitatezza che è il principio stesso della riproduzione del capitale. L’uomo «economico» punta a massimizzare il suo interesse così come la forma-capitale punta a massimizzare il profitto: l’uno e l’altra cercano di accrescersi nella sola categoria dell’avere.
Tra il concetto di frontiera e l’ideologia del capitalismo liberale la contraddizione è dunque totale. L’avvento delle democrazie illiberali lo conferma. Oserei dire che chi potrebbe trarne insegnamento, poiché riesce talvolta a criticare il liberalismo, è proprio papa Francesco, che però non perde mai occasione per predicare l’accoglienza incondizionata dei «migranti» quali che siano. «Bisogna costruire ponti, e non muri», dice papa Francesco (che è qui nel suo ruolo, poiché il popolo di Dio non conosce frontiere e un sovrano pontificio è etimologicamente un pontifex, cioè un uomo «che fa il ponte»).
Ma è questa un’alternativa irricevibile. Il papa dimentica soltanto che tra i muri e i ponti ci sono anche delle porte, che possono essere aperte o chiuse a seconda delle circostanze, e soprattutto che in certi casi il ponte più efficace è il ponte levatoio, che si abbassa o si solleva per aprire o chiudere il passaggio che consente di accedere a una città minacciata.
È giunto il momento di risollevare il ponte levatoio.
Vi ringrazio.

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