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Paginauno n. 53

giugno – settembre 2017

 

Populismo e sinistra

di Matteo Luca Andriola

 

Fra le caratteristiche della globalizzazione neoliberista vi è stata non solo la graduale finanziarizzazione dell’economia, ma il lento predominio del mercato sulla politica. Questo primato è oggi più evidente che mai: le multinazionali moderne, grazie alle politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni, caratterizzate da una liberalizzazione senza eguali del commercio e delle deregolamentazioni di beni e di capitali, non sono semplicemente delle compagnie capitalistiche dedite a far profitti, ma delle vere e proprie superpotenze economiche mondiali, che assumono migliaia di lavoratori in ogni parte del mondo, e i fatturati di alcune di esse sono spesso maggiori del Pil di alcuni Stati: già nel 2011, Yahoo registrava 6,3 miliardi di dollari di vendite, contro i 6,13 miliardi del Pil della Mongolia, o ancora la Nike, con ben 19,15 miliardi, superava il Pil del Paraguay (18,5 miliardi). Uno studio dell’Institute of Policy Studies ha mostrato che tra le principali 200 potenze economiche mondiali, 133 sono multinazionali e solo 67 sono Stati.

Questa realtà, con la relativa arma del ricatto ai governi – si veda il dibattito sul TTIP – trae sempre più profitti dallo sfruttamento di persone e materie prime, violando i diritti umani e rendendosi complice della distruzione del pianeta, ma anche di un fenomeno importante: lo svuotamento della democrazia rappresentativa. Le citate multinazionali, infatti, sono alla base di una graduale estensione del modello politico-amministrativo degli Stati Uniti, dove possono esercitare il loro potere influenzando le decisioni dei governi tramite gruppi di pressione (le famose lobby) e supportando economicamente i partiti in assenza di un finanziamento pubblico. Si aggiunge l’impoverimento dovuto alla globalizzazione, e abbiamo da una parte l’allontanamento dei cittadini dalla politica, dall’altra l’ascesa di movimenti definiti ‘populisti’.

Nel suo saggio Sinistra e popolo. Il conflitto nell’era dei populismi (Longanesi, 2017), il sociologo Luca Ricolfi delinea tre fasi storiche corrispondenti all’era post-industriale: la fase della riapparizione (1972-84), con la nascita del Front national lepenista, della Liga Veneta nell’Italia nord-orientale e del Partito del progresso in area scandinava; la fase della proliferazione (1984-2008), con la Lega Nord di Umberto Bossi dal 1987, col clamoroso ballottaggio in Francia nel 2002 tra Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen; e, infine, la fase di sfondamento (2008-2016), nella quale i partiti populisti sono arrivati ad avere consensi tra il 10 e persino il 20%.

I recenti avvenimenti politici, dalla Brexit in Gran Bretagna alla vittoria di Trump fino al ballottaggio francese fra il centrista Macron e Marine Le Pen si inseriscono in quest’ultima fase, dato che la Brexit è stata portata avanti dal populista Ukip, mentre il miliardario Trump, pur Repubblicano, inserisce il partito in questa nuova tradizione, cavalcando le dirette conseguenze della globalizzazione.

I partiti populisti sembrano aver intercettato meglio, a differenza di vasti settori della sinistra progressista, quel bisogno di protezione sociale ricercato dai ceti popolari. Solo che, nota Ricolfi, la intercettano in senso securitario, una protezione contro l’insicurezza causata dalla crisi, dall’immigrazione che a volte reca con sé l’incognita dell’altro, portatore di una cultura diversa e della paura di nuove minacce, come quella del terrorismo. Ma al posto di comprenderli, vasti settori della sinistra sostengono che questi sono timori del tutto irrazionali: “La ragione per cui la sinistra non vede le richieste di protezione del popolo è semplicemente che quello non è più il suo popolo. La sinistra che è emersa dalla rivoluzione della Terza Via non ascolta le richieste e i sentimenti del popolo per l’ottimo motivo che essa [...] è diventata la rappresentante di un nuovo blocco sociale, al cui centro non vi sono più né operai, né ceti deboli, né i cosiddetti ultimi”. 

Il sociologo si domanda allora qual è il cuore della nuova costituency della nuova sinistra: “I ceti medi riflessivi, come ebbe a battezzarli lo storico Paul Ginsborg [...] gli strati forti del sistema sociale, quanti cioè posseggono le risorse materiali per poter esperire la globalizzazione come un’opportunità, e le risorse culturali per poter apprezzare i valori della sinistra”. “Con milioni di persone che avevano perso il loro lavoro – scrive Ricolfi – con quartieri divenuti invivibili per la presenza massiccia di immigrati, con servizi sociali sempre più contesi fra nativi e stranieri, con città e aeroporti presi di mira dal terrorismo islamico, l’attardarsi della cultura progressista sui problemi post-moderni dei raffinati ceti urbani, dai matrimoni gay al linguaggio sessista, dalle quote rosa all’ambiente, è parsa a molti, prima ancora che offensiva, del tutto fuori dalla realtà”. 

Come conseguenza, le masse sono passate armi e bagagli alla Le Pen, a Salvini, all’a-ideologico Grillo ecc., i populisti di destra. Ma sono nati anche soggetti politici a sinistra definiti populisti. È il
caso degli spagnoli di Podemos e, in Francia, di Jean-Luc Mélenchon, fuoriuscito dal Partito socialista su posizioni neo-giacobine, socialiste ed ecologiste per animare prima il Parti de Gauche, poi il movimento La France Insoumise, lista che aggrega comunisti, ecologisti e gauchisti fondata per sostenere la sua candidatura nel febbraio 2016, ispirandosi alla révolution citoyenne del presidente Rafael Correa in Equador; ci sono poi anche il socialista Bernie Sanders, dei Democratici americani, e il laburista di ‘estrema’ sinistra Jeremy Corbyn.

La definizione di “populismo di sinistra” ha acceso da tempo un dibattito nella sinistra europea. Se negli Usa Judith Butler ne parla come reazione a Trump e per creare una “democrazia radicale” che dia voce agli “screditati”, Ernesto Laclau nel 2005 pubblica La ragione populista (Laterza), un saggio che, attraverso Gramsci, rovescia la prospettiva, affermando che fino a oggi il populismo è non solo stato degradato ma denigrato, condannato moralmente a esser appiattivo alle ragioni della destra per screditate le masse. Per Laclau è un metodo, non un’ideologia o una mentalità, che rende equivalenti posizioni politiche che non lo sono, e crea una polarità, una divisione, che prima non esisteva: quella fra “dominati” e “dominanti”. 

Laclau avanza un’interpretazione originale di Gramsci e dei suoi concetti di egemonia, di blocco storico e di guerra di posizione, per affermare una visione non essenzialista del politico: non ci sarebbe, per Laclau, nessuna relazione diretta tra condizione sociale e posizione politica, ma la politica sarebbe il frutto di un’attività soggettiva di costruzione di un Noi da contrapporre a un Loro, grazie anche alla capacità di definire parole d’ordine che raccolgono e sintetizzano le tante rivendicazioni parziali che scaturiscono dai conflitti nella società.

Contro il “razzismo sociale” denunciato dall’inglese Owens Johns, che in Chavs: the demonization of working class pubblicato nel 2012 mostrava un’ostilità da parte di certi settori progressisti diretto non più contro i padroni, gli sfruttatori, i ricchi, ma contro i chavs, i coatti, gli sfruttati, la classe operaia, temuta o sbeffeggiata per la sua progressiva marginalità sociale e i suoi modi popolari, Laclau elogia il socialismo popolare – ripreso dal leader spagnolo di Podemos Iglesias, da Jeremy Corbyn, da movimenti come Nuit Debout e da Mélenchon – che può consegnare lo strumento con il quale tracciare una divaricazione essenziale per la nascita di un populismo di sinistra credibile, assente nella scena italiana.

 

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