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venerdì 5 ottobre 2018

 

Stiamo lavorando per far diventare sempre più ricchi i padroni

di Mirco Mariucci

 

È ormai ben noto che la ricchezza mondiale si sia concentrata nelle mani di pochissimi individui, ma in molti ignorano come ciò sia accaduto.

 

Per spiegare una parte di questo fenomeno, si può analizzare l'andamento delle quote di ricchezza prodotta destinate ai salari ed ai profitti.

 

Nel mondo, infatti, la maggior parte delle persone deve lavorare per guadagnarsi da vivere, procurandosi così un salario, ma una minoranza d'individui è riuscita ad escogitare delle strategie per ottenere denaro sfruttando il lavoro altrui.

 

Se i profitti fossero condivisi con tutta l'umanità non si presenterebbe alcun eclatante problema sociale dovuto ad un'iniqua distribuzione della ricchezza; il guaio è che oggi essi finiscono nelle tasche di una piccola élite.

 

Di conseguenza, quando la quota della ricchezza prodotta destinata ai salari diminuisce, per far accrescere quella relativa ai profitti, accade che all'incremento degli averi dei pochi corrisponde un peggioramento delle condizioni economiche dei molti. Ed è proprio così che sono andate le cose negli ultimi decenni...

 

La diminuzione della quota salari

Se si guarda ai redditi, si scopre che, nel periodo che va da 1980 al 2016, negli Stati Uniti la quota detenuta dall'1 % dei più ricchi è schizzata dall’11% al 20% del totale, mentre il 50% alla base della piramide sociale subiva una riduzione di 7 punti percentuali, passando dal 21 % al 14% del totale.

 

Anche in Europa si sono registrati i medesimi andamenti, ma con variazioni percentuali più modeste: l'élite appartenente all'1% dei più abbienti ha accresciuto il suo reddito passando dal 10% al 12% della quota totale, mentre la metà più povera della popolazione ha visto diminuire la sua parte dal 24% al 22% del totale.

 

Se si guarda al 10% più benestante, si scopre che negli ultimi 10 anni, in Europa occidentale, la quota di reddito posseduta da questa fascia di popolazione è passata dal 35% al 37% del totale.

 

Nelle altre principali economie del mondo si registrano divari assai più ampi: in Cina il decile più ricco possiede il 41% della quota dei redditi; in Russia il 46%, negli Usa il 47%. Africa subsahariana e Brasile si attestano rispettivamente al 54% e al 55%. Al vertice delle diseguaglianze troviamo l’India, con il 55% dei redditi in mano al 10% più ricco, ed il Medio Oriente, con un 61% della quota totale.

 

Il confronto delle dinamiche tra Stati Uniti ed Europa è significativo: in entrambi i casi, infatti, nel 1980 l'élite dell'1% più ricco della popolazione possedeva circa il 10% della ricchezza, ma mentre oggi in Europa la quota detenuta dai più ricchi è cresciuta solo del 2%, negli Stati Uniti la percentuale è quasi raddoppiata, arrivando al 20%. Inoltre, sia in Europa che negli Stati Uniti, si è verificata una diminuzione della quota salari rispetto al PIL. 

 

Si può azzardare una spiegazione sostenendo che la diversità di ripartizione della ricchezza sia dovuta alle differenze nei regimi di tassazione e nei sistemi di welfare di questi Paesi, argomentando che, a differenza di quanto avvenuto negli Stati Uniti, in Europa la progressività delle imposte e le politiche sociali siano riuscite a contenere la crescita della disuguaglianza.

 

Vale la pena di sottolineare che, negli ultimi decenni, quello della diminuzione della quota salari rispetto al PIL è un fenomeno che ha interessato in modo considerevole tutti i Paesi dell'OCSE.

 

Secondo l’International Labour Organization (ILO), in 51 dei 73 Paesi analizzati la quota dei salari sul PIL è diminuita costantemente. Nel periodo che va dal 1976 al 2006, i 15 Paesi più ricchi dell'OCSE hanno visto ridursi in media la quota destinata ai salari di 10 punti percentuali, passando dal 68% al 58% del PIL.

 

Anche gli studi del Fondo Monetario Internazionale segnalano una forte diminuzione della suddetta quota a livello mondiale; ciò si evince dall'analisi dell'andamento della quota di reddito attribuita al lavoro dal 1991 al 2014 in 29 Paesi che insieme sommano i tre quarti del PIL mondiale.

 

Ad ulteriore conferma, segnaliamo che dagli anni Settanta ad oggi, la quota di reddito nazionale che nei Paesi avanzati è andata ai lavoratori si è ridotta di almeno 14 punti.

 

Il FMI aggiunge che nelle nazioni dove diminuisce la quota di reddito attribuita ai lavoratori aumenta anche la diseguaglianza, e chiarisce che tra il 1980 e il 2010 nei Paesi del G7, con l’aggiunta della Spagna, la crescita dei salari reali è stata più lenta di quella della produttività del lavoro. La medesima tendenza si è verificata anche a livello globale.

 

All'Italia è andata pure peggio: infatti, con un calo di 17 punti percentuali, i lavoratori italiani si sono visti ridurre la quota salari sul PIL dal 68% in media, registrata nel periodo dal 1970 ai primi anni Novanta, al 51% dell'anno 2000. Successivamente, negli anni che vanno dal 2000 al 2009 la quota salari è risalita fino al 54%, restando sensibilmente più bassa rispetto alla media europea, ma poi ha di nuovo ripreso a diminuire. 

 

Si tenga presente che, se fossero riferiti al PIL odierno e venissero calcolati in moneta corrente, 17 punti di PIL equivarrebbero a circa 270 miliardi di euro in più, che sarebbero a disposizione dei lavoratori dipendenti e autonomi. Oggi, invece, gli italiani guadagnano, in media, meno di 20 anni fa, con salari reali scesi al di sotto dei livelli del 1995.

 

Il punto fondamentale da comprendere è che se, da un lato, la quota salari diminuisce, dall'altro, quella dei profitti aumenta. E negli ultimi decenni ciò è accaduto, in particolar modo, nei Paesi industrializzati di tutto il mondo.

 

Complessivamente, se nel 1980 venivano realizzati 2.000 miliardi di dollari di profitto, corrispondenti al 7,6 % del PIL mondiale, nel 2013 i profitti raggiunsero i 7.200 miliardi di dollari, con una quota percentuale del 9,8 % sul PIL del mondo.

 

In Italia, in poco meno di 20 anni, i profitti hanno incrementato il loro peso sulla ricchezza nazionale di oltre 9 punti: la loro percentuale sul PIL era del 23 % circa nel 1983, salì al 29 % nel 1994, al 31 % nel 1995 e superò il 32,7 % nel 2001.

 

Agli inizi degli anni Ottanta le rendite rappresentavano il 21,3% del reddito nazionale, mentre alla fine degli anni novanta la loro quota era salita al 31,3%.

 

Così facendo, mentre nel 1980 il rapporto tra la quota salari e la somma tra rendite e profitti era di quasi 60 a 40, in 20 anni la situazione si è invertita ed è divenuta di 40 a 60.

 

Volendo sintetizzare il tutto con parole semplici, si può dire che, negli ultimi decenni, i lavoratori si sono dati un bel da fare per arricchire sempre più i loro sfruttatori.

 

Divario delle retribuzioni

Siccome gli elevati guadagni di amministratori delegati e manager sono tutti conteggiati nei redditi da lavoro, e negli ultimi decenni questi compensi si sono accresciti in maniera consistente, il calcolo della quota salari risulta, in un certo senso, falsato.

 

Di fatto, l'aumento delle retribuzioni dei più ricchi ha contribuito a camuffare l'entità dell'effettiva diminuzione della quota salari, tanto che se si escludessero dal computo le retribuzioni di dirigenti ed amministratori si assisterebbe a una caduta della percentuale della quota lavoro sul PIL ancora più pronunciata rispetto a quanto precedente riportato.

 

Per rendersi conto del divario che separa i comuni lavoratori dai dirigenti, basta dare uno sguardo alla media dei compensi delle aziende quotate nell'indice Standard & Poor 500.

 

Così facendo, si scopre che, negli anni Cinquanta, la differenza di retribuzione tra un amministratore delegato e i suoi dipendenti era di 20 a 1; negli anni anni Ottanta il divario è cresciuto fino a 42 a 1; nel 2000, si riscontrava un rapporto di 120 a 1; successivamente lo scarto è continuato a salire fine a raggiungere quota 204 a 1.

 

Nel 2016, gli amministratori delegati delle 350 maggiori società quotate negli Stati Uniti si sono intascati una retribuzione media di 15,6 milioni di dollari, corrispondente a 271 volte la busta paga di un normale dipendente!

 

Se ci si limita ad analizzare soltanto le prime 100 imprese quotate da Standard & Poor, la differenza tra amministratori e dipendenti cresce ulteriormente, fino a toccare quota 495 a 1.

 

Tutto ciò sembra suggerire che più "grande" e profittevole è un'azienda, e maggiore risulta il divario retributivo al suo interno.

 

In Svizzera, tra il 2011 e il 2016, i salari dei direttori d’azienda sono saliti in media del 17 %, se si guarda ai compensi dei CEO di 40 tra le più grandi società elvetiche, si vede che le loro retribuzioni sono aumentate in media del 7 % in un solo anno (il 2016). In quel medesimo periodo, la forbice salariale tra il minore e il maggiore stipendio versato era espressa da un rapporto di 1 a 165; l'anno precedente, il divario ammontava a 1 a 150.

 

In Italia la situazione non è molto diversa. Nel 1970 il gap salariale tra gli amministratori delegati e i lavoratori era espresso dal rapporto di 1 a 20, ma nel 2012 si registravano casi in cui la distanza tra le due categorie era pari a 1 su 163. Nel settore bancario, invece, il compenso medio dei CEO è stato pari a 53 volte quello percepito dai semplici impiegati.

 

Nel 2013, i top manager delle prime 50 industrie italiane quotate in borsa ricevevano in media una busta paga 36 volte più pesante rispetto ai loro dipendenti, un amministratore delegato percepiva 46 volte lo stipendio di un suo impiegato e chi riusciva a cumulare le cariche di presidente e amministratore si poneva in un rapporto di 83 a 1 rispetto ai dipendenti. Nel 2017, un amministratore delegato delle banche italiane guadagnava ben 122 volte lo stipendio medio di un bancario del suo gruppo.

 

Nel mondo non mancano casi di disparità davvero eclatanti, degne dei tempi dei faraoni dell'Antico Egitto.

 

Ad esempio, per eguagliare quanto percepito dal CEO della sua compagnia in un solo anno, un dipendente medio di Walmart dovrebbe lavorare per oltre mille anni, mentre un amministratore delegato delle 100 società più capitalizzate dell’indice azionario Ftse guadagna in un anno tanto quanto 10 mila lavoratori delle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh... si potrebbe andare avanti a lungo, ma ci fermiamo qui.

 

 

Fonti

  1. La slavina dei redditi da lavoro dipendente. La Voce, Francesco Pastore, 26 agosto 10.
  2. Crescono profitti e rendite, crollano i salari. Gli internazionalisti, Lorenzo Procopio.
  3. Quota salari e regime di accumulazione in Italia. Economia e Politica, Rosa Canelli e Riccardo Realfonzo, 9 febbraio 2018.
  4. Quota salari e investimenti: alcuni effetti delle riforme del lavoro. Economia e Politica,  Stefano Perri, 16 luglio 2015.
  5. Fmi: in calo la porzione di Pil che va ai salari. Wall Street Italia, Alberto Battaglia, 10 aprile 2017.
  6. La lotta di classe dopo la lotta di classe. Luciano Gallino.
  7. Stipendi, Fondo monetario: “Italiani prendono meno di 20 anni fa. Passare a contratti aziendali legati a produttività”. Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2017.
  8. La globalizzazione ai tempi della crisi. Rapporto sui diritti globali, 2009.
  9. Ecco perché aumentano gli stipendi dei manager delle grandi aziende. Il Sole 24 Ore, Gianni Rusconi, 14 giugno 2018.
  10. Piazza Affari, stipendi più ricchi nel 2017: ecco quanto guadagnano i manager. Affari Italiani, 2 maggio 2018.
  11. Lavoro: in aumento le retribuzioni dei dirigenti. Business People, 10 maggio 2016.
  12. L'Italia «compra» i manager perché non riesce a conquistarli. Business People, 22 novembre 2017.
  13. Sono sempre meno gli Infermieri mentre aumentano i manager e gli stipendi dei dirigenti. Il Rapporto 2016. Infermieristicamente, Maria Luisa Asta, 1 febbraio 2018.
  14. La resistenza dei dirigenti di Stato, sono i più pagati d’Occidente. Repubblica, Sergio Rizzo, 17 luglio 2017.
  15. Facciamo i conti: le retribuzioni manageriali. Jobpricing, 6 luglio 2015.
  16. Stipendi: le differenze fra ceo e lavoratori sono sempre più ampie. Panorama, Stefania Medetti, 21 maggio 2013.
  17. Dirigenti e dipendenti: cresce il gap salariale. PMI, Teresa Barone, 28 maggio 2013.
  18. Manager e operai, retribuzioni a confronto. In America 343 volte in più. E in Italia?. Qui Finanza, 11 settembre 2015.
  19. Manager, quelli dei 50 maggiori gruppi “guadagnano oltre 80 volte i dipendenti”. Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2014.
  20. Aumenta il divario tra stipendi dei manager e dei dipendenti. Ticino News, 20 giugno 2017.
  21. Si allarga la forbice salariale tra manager e sottoposti. La Regione, 22 giugno 2017.
  22. Retribuzioni: i ceo guadagnano in due giorni più di un dipendente in un anno. Il Sole 24 Ore, Monica D'Ascenzo, 28 maggio 2018.
  23. Retribuzione dei CEO: disuguaglianze inaccettabili. Tutte nero su bianco. Valori, Corrado Fontana, 16 giugno 2018.
  24. Stipendi banche: i manager guadagnano 100 volte di più dei dipendenti. Qui Finanza, 17 aprile 2018.
  25. Vuoi guadagnare come un CEO? Devi lavorare 275 anni. Qui Finanza, 29 maggio 2018.
  26. Gender gap, nelle buste paga di uomini e donne una differenza di oltre 3mila euro. Repubblica, 1 Settembre 2017.
  27. La distribuzione della ricchezza globale? È sempre più iniqua. Linkiesta, 24 giugno 2011.
  28. Dai finanzieri ai mercati: i bassi salari di Germania e Cina. Q Code Magazine, Marco Missaglia, Clara Capelli, 9 giugno 2018.
  29. Economia Mondiale: i profitti caleranno da qui al 2025. Termometro Politico, Gianni Balduzzi, 1 ottobre 2015.
  30. All'Fmi spira aria no global: "Meno reddito, più disuguaglianza". Repubblica, Roberto Petrini, 19 aprile 2017.

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