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15.03.2019

 

Greta Thunberg e i grandi affari dietro gli scioperi sul clima

di Mauro Bottarelli

 

Oggi si sciopera per fermare i cambiamenti climatici, seguendo l’esempio di Greta Thunberg. Ma è bene fare attenzione a queste iniziative

 

Oggi esordisce in grande stile l’ultima pagliacciata politically correct che il sistema si è inventato per rendere non solo accettabile ma anche socialmente apprezzato il proseguire di default nella politica di spesa pubblica indiscriminata e deficit come unica religione laica: la lotta ai cambiamenti climatici. Vi ho già parlato di questa nuova campagna globale, quando ho messo tutti in guardia dalla profilo da rock-star che la stampa globale sta riservando ad Alexandria Ocasio-Cortez, la giovane deputata democratica, figli di portoricani e cresciuta nel Bronx facendo la cameriera per pagarsi gli studi (sembra un film di Netflix, d’altronde le lobbies i candidati li cercano per bene, fanno i provini e si affidano a esperti di comunicazione e marketing), che ha lanciato il suo Green New Deal, ovvero un colossale piano di indebitamento a fondo perso spacciato per riconversione del sistema in nome della sostenibilità ecologica che, nei fatti, rappresenta la versione non direttamente monetaria del piano di espansione della Fed. Insomma, il Qe con altri mezzi. E, soprattutto, con l’alibi di salvare orsi polari, balene e bambini vittime dell’enfisema da smog.

Come avrete notato, negli ultimi giorni siamo in piena esplosione del fenomeno. E oggi è il giorno del primo sciopero globale per la lotta contro i cambiamenti climatici, il D-day della nuova arma di distrazione di massa. Non più tardi di mercoledì è stata l’Onu a lanciare l’allarme: l’inquinamento provoca un quarto dei morti nel mondo. Peccato che altri due quarti siano frutto di guerre che l’Onu finge di non vedere, tipo quella in Yemen. Poco importa, il commercio di armamento val bene un po’ di ipocrisia. Tipo, casualmente, mettere i sauditi – i quali donne, bambini vecchi yemeniti li massacrano quotidianamente – a capo del Comitato Onu per i diritti umani.

 

Il giorno precedente, ricordando la tragedia del Vajont, è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a metterci in guardia: siamo alle soglie di una catastrofe climatica. Ma il Presidente – con tutto il rispetto dovuto – lo fa per obbligo formale di moral suasion, visto che è politico di esperienza e grande equilibrio, finissimo studioso di diritto, ma, appunto, uomo dalle competenze accademiche giuridiche. Non un fisico, né un climatologo. E poi, ecco saltare fuori l’anello di congiunzione di due paure: avanti di questo passo, i cambiamenti del pianeta potrebbero portarci entro il 2050 ad avere 50 milioni di migranti climatici. Quindi, se si vuole fermare l’immigrazione clandestina, oltre ad “aiutarli a casa loro”, occorre intervenire su desertificazione e alluvioni, carestie ed epidemie.

A fare da collante a tutti questi allarmi in ordine sparso, Greta Thunberg, la 16enne svedese che con i suoi scioperi del venerdì in nome della lotta ai cambiamenti climatici sta diventando la vera e proprio guru globale della battaglia del secolo. Ieri, poi, la certificazione della pagliacciata, ma anche del carattere di colossale mistificazione della campagna in atto: la sua proposta di candidatura al Nobel per la Pace. Il quadro è completo. E via, quindi, in grande stile al #fridaysforfuture anche in Italia, ovvero il giorno della settimana dedicato all’impegno ecologista. Non bastavano gli scioperi strategici dei mezzi pubblici, di fatto weekend lunghi assicurati a fronte di tavoli di trattativa aperti da secoli per rivendicazioni fotocopia, adesso c’è una nuova scusa per allungare il fine settimana e, finita la manifestazione in piazza, caricare l’automobile (la quale, ontologicamente, non inquina) e andarsene al mare o in montagna o a fare shopping al centro commerciale.

Ora, io sono notoriamente cinico e disincantato, ma non ho mire di proselitismo: non mi importa che la gente la pensi come me, voglio solo che sia informata, che senta tutte le campane. E conosca i fatti. Per questo, mi chiedo e soprattutto vi chiedo: se, giustamente, lottiamo per le vaccinazioni e ci affidiamo a medici e specialisti e non a stregoni e accademici da ricerca su Google per evitare il ritorno di malattie che pensavamo debellate, se chiediamo a ingeneri e architetti di fare in modo che non accadano più tragedie come quella del Ponte Morandi, in base a quale coerenza e criterio scientifico dovremmo intraprendere una battaglia, la cui capofila è una studentessa 16enne svedese con le sue teorie catastrofiste e le sue accuse da ribellismo adolescenziale verso il “sistema”?

Sarà certamente un genio, bravissima, con un QI degno di un docente universitario di Harvard di 55 anni, avrà divorato migliaia di testi scientifici e seguito centinaia di conferenze: ma resta una studentessa di 16 anni, cari lettori. Affidarsi alla sua guida, fosse anche solo simbolica e di testimonianza, in quella che viene dipinta come la battaglia del millennio, equivale a farsi operare di peritonite da qualcuno con la licenza media, ma che non ha perso nemmeno una puntata di ER o Grey’s Anatomy, ne siete consci vero? Davvero siamo sicuri che la sua crociata, al netto delle buone intenzioni e del genuino e appassionato impegno per il prossimo, su cui non nutro dubbi almeno fino a prova contraria, si basi su fondamenti reali e non sull’ennesima suggestione collettiva, la stessa che seguì per qualche mese la campagna di Al Gore? Salvo finire in fretta nel dimenticatoio e fuori dalle agende politiche di intervento di organismi proprio come l’Onu, quando la Cina minacciò tutti di far deragliare il commercio globale (e i mercati), se si continuava a romperle l’anima con la questione delle emissioni inquinanti.

Vi faccio qualche esempio, tanto per rifletterci su nella giornata dell’impegno ecologista e nel suo day after. La prossima panzana che vi refileranno sul tema, a occhio e croce, sarà quasi certamente legata alla decisione presa venerdì scorso dal Fondo sovrano norvegese, un gigante da 1 triliardo di dollari di assets con forte concentrazione sul comparto energetico fossile, di scaricare i titoli azionari che ha in portafoglio legati ad aziende petrolifere. Ovviamente, vi verrà spacciata come una decisione frutto di nuova coscienza ecologica di fronte alla catastrofe ambientale che abbiamo di fronte. Una vittoria di Greta e dei suoi venerdì di protesta silenziosa e solitaria. Balle. È soltanto puro hedging finanziario nei confronti di un comparto che vede i propri prezzi al palo dal 2014 e che all’orizzonte non garantisce prospettive di rinnovato profitto. Anzi, lo scorso anno, bilancio alla mano, è costato al Fondo norvegese un bel -6,1% di return-on-equity, pari a una perdita di 485 miliardi di corone.

E che l’operazione non abbia nulla di “verde” non lo dice il sottoscritto, bensì lo stesso Fondo sovrano nel suo comunicato stampa. Il quale venderà sì titoli azionari legati al comparto, ma soltanto quelli di aziende puramente esplorative, mentre terrà quelle delle big con operatività integrata su più comparti della filiera. Insomma, 134 compagnie vedranno le loro azioni scaricate, ma giganti come Royal Dutch Shell ed Exxon Mobil, ad esempio, potranno dormire sonni tranquilli. Ecco le parole del ministro delle Finanze norvegese, Siv Jensen: «L’obiettivo è ridurre la vulnerabilità del nostro benessere finanziario comune da quello che è ormai un permanente calo del prezzo del petrolio. A tal fine, è più accurato vendere aziende che esplorano e producono gas e petrolio che vendere un settore energetico ampiamente diversificato». D’altronde, parliamo di un Fondo cui fa capo un controvalore di titoli azionari petroliferi da 37 miliardi di dollari, da BP a Shell fino a Total.

E sapete quale sarà l’obiettivo principale del tanto declamato disinvestimento “ecologista”? Piccole aziende indipendenti, i cui titoli hanno un controvalore di 8 miliardi di dollari circa nel totale del portafoglio norvegese. Insomma, il Fondo vende, ma lo fa con accuratezza finanziaria, non iconoclastia ambientalista. Meramente per un calcolo finanziario. E, attenzione, in base alle regole statutarie di investimento, anche l’eliminazione di quei titoli richiederà anni. La ragione? Semplice, il Fondo è controllato al 67% da Equinor, il gigante petrolifero e del gas norvegese, un tempo noto come Statoil, il quale non ha la minima intenzione di ridimensionare il suo business e concentrarsi sull’eolico o la raccolta di margherite, quindi venderà i titoli a piccoli blocchi e diluendo nel tempo le operazioni proprio per non creare caos nel comparto, scaricando posizioni eccessive in un momento di grande delicatezza, fra Opec allo sbando, prezzo bassi e nuove dinamiche geopolitiche tutte da ridisegnare. Di ambientalista, nonostante le Ong e i Partiti verdi di mezza Europa gridino alla vittoria e alla svolta epocale, non c’è proprio niente nella decisione di Oslo. Nemmeno a medio-lungo termine.

Anzi, qualcosa c’è. Ed è terribilmente strategico. Non solo i grandi operatori petroliferi nei giacimenti di shale statunitense hanno appena annunciato la loro intenzione di aumentare la produzione al massimo, ma hanno, di fatto, aperto la porta ai prodromi della nascita di un cartello petrolifero indipendente a stelle e strisce, una sorta di Opec americana tutta incentrata sullo scisto. Ecco come Micheal Wirth, presidente e amministratore delegato di Chevron, ha prospettato la situazione: «I produttori ed esploratori indipendenti stanno per essere spremuti dalle banche, le quali vogliono che producano maggiori profitti o escano del tutto dal grande gioco di scala del Permian». Insomma, cannibalismo delle majors sui piccoli. Casualmente, gli stessi piccoli che il Fondo norvegese ha messo in cima alla lista di vendita del suo portafoglio azionario. Ecologismo?

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16.03.2019

 

I dati che smontano la “rivoluzione” ecologista dei millennials

di Mauro Bottarelli

 

La generazione dei Millenials, piena di debiti, è quella che protesta in piazza contro i cambiamenti climatici. E non è un caso

 

E se in Europa abbiamo mezze verità spacciate come rivoluzioni e una 16enne come capopopolo, con tanto di candidatura al premio più screditato della storia contemporanea, Oltreoceano non sono messi meglio. Mi riferisco ad Alexandria Ocasio-Cortez e al suo Green New Deal, il quale in base a un sondaggio condotto dalla prestigiosissima Università di Yale vede favorevole addirittura l’80% degli elettori statunitensi. Di più, siamo di fronte a qualcosa di straordinariamente (e strategicamente) bipartisan come supporto, visto che il 92% di chi si dichiara Democratico e il 64% di Repubblicani si sono detti pronti a supportare in maniera più o meno decisa il pacchetto di riforme che trasformerà completamente il settore energetico Usa su modello “verde” nel prossimo decennio. Se il sondaggio è stato condotto da un’istituzione come l’Università di Yale, ci sarà da fidarsi. 

Sicuri? Quella che leggete di seguito è la nota introduttiva, uguale per tutti, al sondaggio: Some members of Congress are proposing a “Green New Deal” for the U.S. They say that a Green New Deal will produce jobs and strengthen America’s economy by accelerating the transition from fossil fuels to clean, renewable energy. The Deal would generate 100% of the nation’s electricity from clean, renewable sources within the next 10 years; upgrade the nation’s energy grid, buildings, and transportation infrastructure; increase energy efficiency; invest in green technology research and development; and provide training for jobs in the new green economy (Alcuni membri del Congresso stanno proponendo un “Green New Deal” per gli Stati Uniti. Dicono che un “Green New Deal” produrrà posti di lavoro e rafforzerà l’economia americana attraverso l’accelerazione della transizione da carburanti fossili a fonti rinnovabili e pulite. Il Deal potrebbe generare il 100% dell’energia della nazione da fonti rinnovabili e pulite entro i prossimi 10 anni; migliorare la rete energetica nazionale, gli edifici e le infrastrutture di trasporto; aumentare l’efficenza energetica; investire in ricerca e sviluppo di tecnologia verde; garantire tirocinio e preparazione per posti di lavoro nella muova economia verde, ndr). Scusate, chiunque non sia un inquinatore per scelta o per perversione, il figlio di un petroliere o un feticista dello smog, potrebbe dirsi contrario a un presupposto simile, a una prospettiva di futuro del genere? Di fatto, non si chiede un parere sul Green New Deal, si offre una sinopsi iniziale che è un concentrato di senso di colpa e magnifiche sorti e progressive, roba da regno degli unicorni e poi si finge di voler conoscere il punto di vista dell’intervistato! Cosa dite, un paragrafo simile posto prima delle domande dirette, può configurarsi come vaghissima volontà di indirizzare il parere del rispondente? 

Ma tutto questo mica finisce sui giornali o nelle iniziative parlamentari, il messaggio è soltanto quello che si ottiene dal calcolo statistico delle risposte ottenuto: l’80% degli statunitensi è favorevole al Green New Deal, all’impegno per un’energia verde e contro i cambiamenti climatici, a un nuovo approccio. Il quale, ovviamente, oltre a richiedere una decina d’anni almeno, presuppone qualche triliardo di dollari di investimento pubblico e privato in opere di riconversione. Insomma, serve spesa pubblica. Serve deficit, perché è per una buona causa. Nessuno ti fa le pulci, non esiste al mondo un Dombrovskis così cattivo e insensibile da richiamarti perché spendi in difesa dei pinguini o degli organismi monocellulari del Borneo: la strada è spianata. E, cosa più importante, la coscienza collettiva anestetizzata ed euforizzata per bene. Se poi tenti ancora di fare resistenza in nome del buon senso e della scienza, intesa come dati reali, ti piazzano davanti un bambino con la mascherina per l’asma, tipo figurante di un falso attacco chimico in Siria e il gioco è fatto: la nomea di Erode non te la leva nessuno. 

Non sarebbe più onesto dire che, visto che anneghiamo nel debito (è dell’altro giorno la rottura di un nuovo record a livello globale e congiunto pubblico-privato, 178 triliardi di dollari, dati Bis) e il sistema non può più disintossicarsi a questo punto, occorre andare oltre, approssimarsi alle rive faustiane del Qe strutturale e perenne? O, quantomeno, decennale e senza la Fed che rompa l’anima, se non per dare una sgonfiata controllata agli eccessi di mercato? No, non si può. E non a caso, i paladini di questa battaglia sono giovani. Sono millennials o poco più grandi. Come la Ocasio-Cortez. Come Greta. Perché solo un giovane può venderti questa balla, senza che tu ti ponga domande e scopra quanto appena confermato proprio dalla Fed. Senza che tu scopra ciò contro cui davvero dovresti ribellarti e chiedere conto. Ovvero che proprio i millennials rappresentano, prima ancora di cominciare la propria vita lavorativa, la generazione più indebitata della storia. 

Qualche numero? Ce lo offre appunto la Federal Reserve di New Yorke parla chiaro: la generazione under-30, solo negli Usa, già oggi annega in oltre 1 triliardo di debito, un aumento del 22% solo negli ultimi 5 anni. Ma non basta. Stando a quanto riportato da Forbes, certamente una fonte non autorevole quanto Greta, le ultime statistiche relative ai debiti scolastici per il 2019 mostrano quanto la crisi di questo comparto stia diventando con il passare del tempo, attraverso la disaggregazione demografica e di gruppi sociali, cronica e sistemica. A oggi, negli Usa ci sono più di 44 milioni di giovani che congiuntamente fanno capo a oltre 1,5 triliardi di dollari in debito studentesco, una voce che è la seconda categoria debitoria nel Paese dopo quella dei mutui immobiliari ed è maggiore di quelle relative a carte di credito e prestiti per l’acquisto di automobili, il tutto in un Paese dove le spese per consumi pesano per il 70% del Pil. Prendendo in esame il dato relativo alla classe debitoria del 2017, la media è di 28.650 dollari a persona, stando a rilevazioni dell’Institute for College Access and Success. 

E non basta, perché proprio a causa di questo stato di schiavitù debitoria fin dagli anni della formazione, ecco che la conseguenza è che nel Paese dove normalmente al compimento della maggiore età si esce di casa (in prima istanza, proprio per andare al college) e si tende a comprarsene una propria, attraverso il mutuo, il tasso di proprietari di immobili nella categoria degli under 35 nell’ultimo trimestre del 2018 era al 36,5% contro il 61% del range 35-44 anni e il 70% di quello fra 45 e 54 anni. Di più, il 63% dei millennials che hanno comprato casa o acceso un mutuo per farlo, stando al sondaggio di Bankrate.com, si è pentito della propria scelta, poiché ha difficoltà nei pagamenti di rate, anche non esorbitanti. E con i tassi ancora ai minimi, rispetto alla media storica. E se il 79% di tutti i rispondenti ritiene ancora che l’essere proprietario di casa sia parte integrante del “sogno americano”, la maggior parte dei millennials definisce la scelta di aver acquistato casa “la ricetta per il disastro”. 

Capite perché conviene, contemporaneamente, vendere un nemico di lunga durata e facile presa mediatica come il riscaldamento globale, una sorta di fantasma spaventoso, ma inafferrabile e farlo attraverso dei coetanei della generazione più disagiata della storia recente, quella che per la prima volta rischia davvero di stare molto peggio di quella dei propri genitori e che rischia di rimanere letteralmente schiacciata dall’ascensore sociale in caduta libera? E capite perché, in un mondo basato sul debito (e non solo negli Usa), serve un’enorme piano Marshall di spesa pubblica e deficit di lungo termine, non fosse altro per piazzare tutti i titoli di Stato necessari a rifinanziare e servire quel debito contratto, da cittadini come da aziende come da Stati, come un cane globale che continua a mordersi la coda? 

Anche perché, signori, mica si possono fare guerre o inventarsi conflitti e nemici immaginari tipo la Corea del Nord o la Russia tutte le settimane, non vi pare? Et voilà, casualmente da qualche settimana il clima impazzito ha sostituito l’Isis, gli hacker russi, i missili di Kim Jong-un e tutto ciò che ci hanno venduto finora come emergenza, come nemico permanente. Casualmente proprio ora, con il rischio di recessione globale che sale e le Banche centrali che, stamperia a parte, non sanno più come uscire dall’impasse. Occorre agire ora, quasi le prossime tre settimane siano fondamentali per salvare il pianeta: sembra la pantomima del countdown perenne verso il giudizio universale del Brexit, non vi pare? 

Per questo serve una generazione in piazza contro la siccità o le inondazioni, per evitare il triplice effetto. Primo, il rendersi conto di essere schiavo del debito che garantisce al sistema di sopravvivere. Secondo, smettere di foraggiare quel debito, cambiando il telefonino ogni tre mesi, comprando l’auto con il finanziamento, chiedendo prestiti per andare una settimana in ferie. Insomma, rompendo il giocattolo del consumismo da necessità. Terzo, ribellarsi davvero. 

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