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09 apr 2019

 

La resistenza del campo di al-Bureij

di Patrizia Cecconi

 

Patrizia Cecconi ci porta in uno dei cinque punti al confine tra la Striscia di Gaza assediata e Israele in cui resistono le tende della “Grande Marcia del Ritorno” iniziata un anno fa

 

Campo di Bureji (Striscia di Gaza), 9 aprile 2019, Nena News –

 

Al Bureij camp, uno degli otto campi profughi divenuti in 70 anni vere e proprie piccole città è anche uno dei cinque punti lungo il confine dell’assedio in cui resistono le tende della Grande marcia del ritorno iniziata un anno fa.

Lo scorso 5 aprile, 55° venerdì di resistenza a sniper e canister e di tenace rivendicazione di un diritto dovuto ma non rispettato, nell’accampamento di Al Bureij si sono ritrovate circa duemila persone, più o meno come negli altri quattro accampamenti lungo il confine. Non sono le 40 o 50 mila persone che hanno manifestato la scorsa settimana, giorno celebrativo sia della Grande marcia che della Giornata della terra, ma sono parte dello “zoccolo duro”, quello che non accetta concessioni per tacitare la protesta. Arrivano con tutti i mezzi, dai pullman messi a disposizione dalle autorità locali ai carretti trainati dagli asini, alle moto “formato famiglia” con 4 o 5 bambini in sella, alle automobili di lusso. Anche questo è uno spaccato della pluriforme situazione gazawi.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 90 Venerdì il controllo delle autorità locali era evidentemente mirato a ridurre gli “incidenti”, vale a dire i feriti o i morti, manifestanti presi di mira perché troppo vicini alla rete dell’assedio. Non sono stati bruciati neanche i “caucciù” cioè i copertoni che col loro fumo nero rendono difficile prendere la mira ai fucilieri scelti. La giornata aveva l’aria di festa e, insieme, di sfida pacifica fatta di posizioni simboliche, una sorta di vis à vis a distanza tra chi chiede il rispetto del diritto, armato solo di macchine fotografiche o cellulari che le sostituiscono e chi, dall’altra parte, è armato per davvero. Questo non è bastato a fermare la mano agli assedianti e sono stati esplosi molti colpi di fucile, bombe sonore e molti, ingiustificati, lacrimogeni sparati anche nella zona delle tende e delle conferenze che dista quasi un chilometro dalla rete. 

 

Ad Al Bureij non sono stati usati fumi colorati come sembra siano stati usati in altri punti del border, ma i canister israeliani sono comunque micidiali e l’esercito “più morale del mondo” non ha esitato a regalare gas perfino dove i ragazzi giocavano a pallone e davanti alle tende del soccorso sanitario. Dunque niente morti venerdì, per fortuna, solo feriti e intossicati più o meno gravi anche tra chi stava lontano dalla rete e anche tra chi, in una sorta di surreale performance, stava assolutamente immobile in piedi, o seduto sulle sedie di plastica stile spiaggia sulle collinette a circa 4 – 500 metri dalla recinzione, sedie portate lì dai palestinesi che vogliono partecipare comodamente a questa specie di sfida che va avanti da un anno. Lasciano la loro postazione solo se il gas li prende di mira, ma poi tornano. Alcuni restano in piedi, altri si siedono di nuovo. Poi ci sono anche alcuni ragazzini che mostrando una notevole abilità di lanciatori raccolgono la granata fumogena appena caduta e la rilanciano verso il mittente. La velocità dell’azione è tale che chi sta scrivendo, pur avendo tentato di riprendere il gesto non è stata sufficientemente veloce da immortalarlo in uno scatto. 

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 90 Nella zona in teoria meno a rischio, quella che comunque è stata riempita dal micidiale gas degli assedianti, vicino a una delle tende c’è un grande poster. E’ quello che ritrae Ahmad E. Tawil, ucciso alcuni mesi fa da un cecchino. Aveva 23 anni. Suo padre è lì, seduto con altri manifestanti . Ci offre il tè, che è sempre pronto su un piccolo fuoco tra le pietre all’uso beduino. E’ disposto a raccontare, e la prima cosa che ci dice è che l’immagine di Ahmad, ritratto con un mitra in mano è il classico fotomontaggio per i martiri, ma il ragazzo era assolutamente disarmato e non faceva parte di nessuna formazione politica. Era lì, come lui, a rivendicare il diritto al ritorno e la rottura dell’assedio in modo pacifico. Quest’uomo di 61 anni, di nome Ibrahim, vive al campo profughi di Nusseirat e la sua famiglia proviene da un villaggio vicino Erez da cui fu cacciata durante la Nakba. Ibrahim è una delle persone che restano nella tenda anche gli altri giorni della settimana e che ritiene irrinunciabili le richieste che hanno dato vita alla Grande marcia. Gli chiediamo quale sia il suo lavoro e la risposta è quella più comune: disoccupato. Disoccupato esattamente come i suoi figli anche se questi sono quasi tutti laureati. In passato Ibrahim lavorava in Israele, era un esperto di coltivazioni di limoni. Ci dice che il suo rapporto con gli israeliani era normale. Poi Israele ha chiuso Gaza nell’assedio e questo ha portato alla condizione tragica che sta distruggendo la Striscia. Gli facciamo una domanda un po’ indiscreta, gli chiediamo se accetta l’esistenza dello Stato di Israele o ritiene che questo debba sparire. La sua prima risposta è di poche parole, ci dice che lui vuole solo la pace con tutti. Pensiamo che stia glissando e quindi insistiamo cambiando leggermente la domanda. La sua risposta ora è più esplicita, ci dice che i palestinesi hanno il diritto a tornare nelle loro terre e che Israele deve riconoscere questo loro diritto, poi si può vivere insieme, lui non chiede la distruzione di Israele ma chiede il rispetto dei palestinesi e dei loro

diritti.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 90 Vorremmo approfondire ma veniamo interrotti da un nuovo lancio di gas. A volerlo prendere a simbolo sembra la risposta di Israele alle richieste di questa grande manifestazione popolare palestinese che per raggiungere un obiettivo assolutamente legale ha pagato con la vita di circa 260 persone e l’invalidità scientemente procurata dall’assediante di altre centinaia di manifestanti. Ma la marcia continua e continuerà anche se Hamas dovesse accettare le condizioni proposte dall’Egitto. E’ un problema di dignità. E questo Israele lo sa. Nena News

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