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5 Aprile 2019

 

Elezioni Israele: Netanyahu a caccia del quinto mandato

Linda Deregibus

caporedattrice Medio Oriente de Lo Spiegone

 

Il 9 aprile i cittadini israeliani decideranno se riconfermare Netanyahu per il quinto mandato o se voltare pagina.

 

Martedì 9 aprile i cittadini di Israele si recheranno alle urne per rieleggere i 120 membri della Knesset, il parlamento israeliano. Lo scorso dicembre, il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva infatti indetto le elezioni parlamentari anticipate rispetto alla naturale scadenza della legislatura (prevista per novembre). La decisione è stata presa a causa della crisi di governo avviata dalle dimissioni del ministro della Difesa Avigdor Lieberman lo scorso novembre. Questi, critico del cessate il fuoco negoziato con Hamas, che ha posto fine all’allarmante escalation di violenza tra l’esercito israeliano e le fazioni palestinesi della Striscia di Gaza di metà novembre, ha tolto l’appoggio del proprio partito alla coalizione di governo, lasciandola così con una maggioranza in Parlamento di un solo seggio.

 

Il sistema elettorale

Nelle precedenti elezioni del 2015, una coalizione formata dal Likud (il partito con più seggi), dagli altri partiti di destra e dal centrista Kulanu diede vita al quarto governo guidato da Netanyahu. All’opposizione, invece, si collocarono l’Unione Sionista (secondo per numero di seggi), di cui faceva parte il Partito Laburista, gli altri partiti di centro e i partiti di sinistra.

La Knesset viene eletta ogni quattro anni attraverso un sistema proporzionale puro con una soglia di sbarramento al 3,25%. Ciò significa che i seggi ottenuti dai vari partiti in Parlamento sono calcolati in modo proporzionale al numero effettivo di voti ricevuti alle elezioni all’interno di un collegio unico nazionale che comprende l’intero territorio di Israele. Al momento del voto, l’elettore indica solo il partito o la lista che intende votare senza esprimere alcuna preferenza per i candidati, dal momento che le liste sono bloccate.

Entro i sette giorni successivi al voto, il Presidente (carica ricoperta, dal 2014, da Reuven Rivlin) deve incaricare uno dei candidati – solitamente quello del partito o della lista che ha ottenuto più voti – di formare il nuovo governo entro un massimo di 28 giorni, prorogabili di altri 14. Nel caso in cui il primo tentativo dovesse fallire, il Presidente ha la facoltà di disporre un secondo – ed eventualmente un terzo – round di consultazioni con i membri eletti per individuare un nuovo candidato a formare il governo. Nel caso in cui tutte e tre le tornate si dovessero concludere con un nulla di fatto, si dovranno indire nuove elezioni entro 90 giorni.

Questo sistema, nonostante garantisca la rappresentanza dei diversi orientamenti politici, ha determinato un’eccessiva frammentazione del panorama politico israeliano e una forte instabilità dei governi. Per cercare di ovviare alla cosa, la soglia di sbarramento è stata alzata nel corso del tempo fino a raggiungere, a partire dalle elezioni del 2015, l’attuale 3,25%. Ciò ha spinto diversi partiti minori a presentarsi alle elezioni in liste uniche, in modo da non rischiare di restare al di sotto di tale soglia. Ad ogni modo, per formare una coalizione di governo è fondamentale l’appoggio dei partiti minori che, anche con una manciata di seggi (il minimo alla Knesset è di 4) sono a tutti gli effetti decisivi per gli equilibri in Parlamento.

 

Stabilità nell’alternanza

Sin dalle prime elezioni del 1949 nessun partito o lista è mai riuscito a ottenere la maggioranza assoluta, per cui si è sempre provveduto a formare delle coalizioni di governo. Storicamente, lo Stato di Israele è stato guidato in maniera alterna da coalizioni di centrosinistra e di centrodestra.

Da un lato troviamo Mapai (il Partito dei Lavoratori di Eretz Yisrael), fondato nel 1930 da uno dei padri fondatori del Paese, David Ben Gurion, e che nel 1968 è confluito nel Partito Laburista Israeliano, da allora il nuovo protagonista del centrosinistra israeliano. Tra i maggiori esponenti del Partito si possono ricordare Yitzhak Rabin, che firmò gli accordi di Oslo nel 1993, e Shimon Peres, entrambi insigniti del Nobel per la Pace nel 1994.

Dall’altro lato, ci sono stati dapprima Herut (Libertà), fondato nel 1948 e confluito poi nel Likud nel 1988, e poi quest’ultimo, fondato nel 1973, a tenere le redini del centrodestra. Tra i maggiori esponenti vi si trovano Menachem Begin, fautore degli accordi di Camp David del 1978 e Nobel per la Pace, Ariel Sharon e, ovviamente, Benjamin “Bibi” Netanyahu.

Generalmente, l’alternarsi di governi di centrosinistra e centrodestra, guidati dai principali partiti delle rispettive aree, ha determinato una certa stabilità all’interno del panorama politico. Una stabilità che, però, sembra essere venuta meno: le elezioni di martedì prossimo portano con sé diversi elementi di novità rispetto al passato, elementi che confermano una progressiva tendenza verso destra dell’elettorato israeliano.

 

“Bibi” contro il nuovo centro

Le chance del Partito Laburista di entrare nella Knesset non sono mai state così basse come in queste elezioni, dove si presenta con solo 9 candidati. Il partito ha drammaticamente perso i consensi che aveva un tempo, e sembra ora pagare il prezzo sia per il mancato rinnovamento della propria visione politica e sociale degli ultimi anni, sia per l’inefficace opposizione a Netanyahu. Inoltre, oggi si esprime con vaghezza su temi scottanti per il Paese, come la risoluzione del conflitto israelo-palestinese e le questioni legate ai territori occupati e alla sicurezza, dopo essere stato il primo grande partito a decidere di aprire un negoziato con l’OLP negli anni ‘90 e a sostenere la creazione di uno Stato palestinese.

Dal canto suo, Netanyahu ha guidato il Likud verso posizioni sempre più conservatrici e nazionaliste, avvicinandosi ai partiti ultraortodossi con la speranza di non perdere il loro sostegno, oltre ad aver gestito la leadership del partito, nonché gli affari di governo, in maniera del tutto personalistica. Questo ha creato tensioni all’interno delle frange del centrodestra e ha spinto le anime più moderate a formare un nuovo soggetto politico di centro.

La vera novità di queste elezioni è quindi la lista “Blue and White”, guidata da Binyamin Gantz, ex-capo delle forze di difesa israeliane e leader del neonato Israel Resilience Party, e da Yair Lapid, ex-giornalista e fondatore del partito secolare Yesh Atid, già all’opposizione del presente Governo. I due hanno sancito la propria alleanza nel mese di febbraio e puntano al voto dei moderati delusi sia dalla svolta radicale di “Bibi” che dalle inadeguatezze del centrosinistra. La lista è così diventata il più grande partito in Israele, presentandosi alle urne con 55 candidati e, stando ai sondaggi, ottenendo effettivamente il supporto dell’elettorato moderato in modo trasversale. Che il premier uscente si senta minacciato dalla Blue and White è percepibile dai suoi ulteriori sforzi per compattare la destra e dai tentativi di dipingersi agli occhi dei cittadini come unico paracadute contro un possibile governo di sinistra sostenuto dai partiti arabi.

Tuttavia, la lista sostiene posizioni liberali in economia e sulle questioni sociali e, in particolare, fa leva sul tema della sicurezza – cardine di ogni dibattito politico del Paese – al fine di mantenere aperti possibili sbocchi a destra, sia in vista di una coalizione post-elezioni, sia per attrarre i voti degli elettori del centrodestra. A tal proposito, lo statuto della lista non cita mai la volontà di perseguire la «soluzione a due Stati» come risoluzione del conflitto con i palestinesi (al contrario dei partiti del centrosinistra, sia sionisti che arabi); propone una ridefinizione dei confini di Israele rispetto a quelli del 1967 e, soprattutto, è fermamente contraria ad un disimpegno unilaterale dai territori della Cisgiordania, cosa che avvenne invece nel contesto della Striscia di Gaza nel 2005.

 

La proiezione dei seggi basata sulle medie dei sondaggi

Media sondaggi di un mese fa

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I possibili scenari

Fin da subito i sondaggi hanno parlato di un testa a testa tra la Blue and White e il Likud. Per questo motivo saranno cruciali i momenti immediatamente successivi al voto, quando si faranno i conti con il numero effettivo di seggi ottenuti da ciascun partito e si cercherà di formare una coalizione in grado di governare.

Il Likud otterrà senza difficoltà l’appoggio dei piccoli partiti ultraortodossi e di destra, quali Shas, United Torah Judaism, Union of the Right-Wing Parties, New Right e Zehut. Kulanu, centrista e oggi parte della coalizione di governo con 10 seggi, si presenta alle elezioni con 12 candidati senza aver dato appoggio ad alcuna forza politica, mentre Yisrael Beiteinu – dell’ex-ministro Lieberman – potrebbe in realtà appoggiare più facilmente Blue and White. Dall’altro lato, per ottenere il numero di seggi necessari alla maggioranza, la lista dovrebbe vincere il supporto degli altri partiti di centrosinistra, quali il Partito Laburista e Gesher, il quale però potrebbe non superare la soglia del 3.25%.

 

Israele: come cambierebbe il Knesset

Knesset Attuale

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Se la situazione dovesse sfociare in una impasse, una soluzione potrebbe essere la formazione di un Governo di unità nazionale. In questo caso, Lapid ha affermato che la Blue and White si potrebbe coalizzare con il Likud, ma solo nel caso in cui Netanyahu fosse disposto a fare un passo indietro. Questo scenario appare tuttavia poco probabile: nonostante le accuse di corruzione e frode, Bibi mantiene salde le redini del partito. Un’altra opzione sarebbe quindi una coalizione tra Blue and White, Partito Laburista, Yisrael Beiteinu e Kulanu, che comunque dovrebbe ottenere un più ampio appoggio dei partiti di sinistra e arabi in modo da assicurarsi una maggioranza in grado di porre fine all’era Netanyahu. Anche questa via, però, sembra poco praticabile.

I principali partiti di sinistra, Meretz, Ra’am-Balad e Hadash-Ta’al, hanno programmi significativamente differenti rispetto a Blue and White. In particolare, questi sostengono la «soluzione a due Stati» e la fine dell’occupazione della Cisgiordania come risoluzione del conflitto con i palestinesi, nonché l’abolizione della contestata legge che definisce Israele come Stato-nazione del popolo ebraico.

Quest’ultima, approvata nel luglio 2018, ha sancito nero su bianco una divisione della popolazione israeliana in cittadini di prima e seconda classe in uno Stato che, forse sentendosi minacciato da un’alta natalità dei cittadini arabi – oggi circa il 20% della popolazione – e dalle possibili alternative alla «soluzione a due Stati», ha sentito il bisogno di rimarcare simbolicamente la propria identità ebraica. Su questo punto, Blue and White si è limitata a sostenere la necessità di modificare la legge come è scritta ora, senza però prefiggersi la sua completa abolizione.

A pochi giorni dalle elezioni e con la situazione a Gaza ad un passo dall’esplosione, i candidati stanno giocando le loro ultime mosse prima del voto. Sarà in grado Netanyahu di riconfermarsi leader (quasi) indiscusso dello Stato di Israele? Oppure nascerà un nuovo blocco politico in grado di scongiurare il quinto mandato di “Bibi”?

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