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15 maggio 2020

 

Il teatro del virus

di Rocco Ronchi

 

La condizione del lockdown è stata una condizione strana. Non lo è di meno quella che è appena iniziata, nella quale siamo costretti a “parodiare” la vita “di prima”: sono infatti gli stessi gesti “di prima” quelli che dobbiamo fare uscendo di casa, come prendere la metro per andare a lavorare oppure bere un caffè, ma lo dobbiamo fare in modo circospetto, rivolgendo ad essi un’attenzione supplementare, quasi li dovessimo recitare piuttosto che effettuare. Se vogliamo essere responsabili, dobbiamo infatti porre attenzione ai gesti più ordinari. Dobbiamo, per così dire, guardarli mentre li facciamo. È come se dovessimo riapprendere a eseguire in modo riflesso delle azioni che prima procedevano spedite, automaticamente, nel sonno della coscienza vigile, la quale era rivolta a tutt’altro.

 

Mirava all’obbiettivo da realizzare, qualunque esso fosse, ad esempio, il lavoro che ci è stato assegnato e che ci identifica nella nostra identità sociale, e trascurava la microfisica dei gesti su cui esso si “impalca”. Si andava al lavoro senza dover far mente locale al fatto che per andarci bisognasse respirare, camminare, attraversare degli spazi fisici, incontrare degli altri esseri umani ecc. Adesso, invece, se vogliamo contribuire alla salute collettiva, quell’insieme di pratiche ordinarie esce dal cono d’ombra in cui se ne restava quando la vita scorreva su binari normali. La stranezza della condizione è data, insomma, dalla necessità di tematizzare riflessivamente quanto prima giaceva sullo sfondo come qualcosa di immediatamente agito, ma non “saputo”. Il nostro essere “sociale” passa ora attraverso l’immediatezza dei nostri corpi viventi, i quali, “prima”, funzionavano da presupposto tacito. Quando c’è la “salute”, recita un celebre apoftegma, la vita formicolante degli organi tace. Gli sfondi sono infatti per definizione irriflessi, “vanno da sé”, nel silenzio delle ragioni. Funzionano proprio perché sfuggono all’attenzione. Senza di loro niente risalterebbe in primo piano, “tematicamente”. Per portare a termine la loro missione “figurativa” devono però ritrarsi fino a quasi scomparire. Così defluisce per lo più la vita ordinaria degli uomini se un trauma non interviene a segnalarcene la presenza (basta la riabilitazione da una frattura per rammentarci quanto sia poco ovvio il fatto di starsene in piedi). 

 

All’inizio della pandemia, quando la sua gravità era solo sospettata, un amato protagonista della tv nazional-popolare mimava, a scopo didattico, durante le pause pubblicitarie, il gesto “corretto” da fare per starnutire senza infettare. Sembrava di assistere, replicata però per milioni di persone a intervalli regolari, a una lezione di recitazione tenuta da Bertolt Brecht agli attori del Berliner Ensemble. Brecht voleva un teatro che problematizzasse l’ovvio, che mettesse in scena la stranezza dell’ordinario, che rendesse degno di essere considerato e collettivamente discusso quanto normalmente scorre impercepito ai margini della rappresentazione. Dico “impercepito” perché agito senza riflessione. Per rivoluzionare la vita quotidiana, Brecht voleva un teatro di “gesti” desolidarizzati dal contesto dell’azione, un po’ come accadeva in quegli stessi anni nelle gallerie d’arte, dove gli artisti di avanguardia portavano oggetti prelevati dal mondo ambiente quotidiano, un orinatoio, ad esempio, e lo esponevano, provocando lo choc dello spettatore costretto a guardare quanto, nell’“uso della vita”, scorreva impercepito (e agito) “sullo sfondo”. Brecht, e con lui tutto il Novecento, ha chiamato “straniamento” quel metodo. “Straniare” vuol dire rendere estraneo e, dunque, visibile il massimamente familiare.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v80), quality = 75 Opera di Eric Zener.

 

Tra le “virtù” del Covid-19 c’è allora quella di aver prodotto uno straniamento della vita quotidiana. I gesti minimi della vita perdono la loro ovvietà e ritornano nella forma di un “problema”. Un problema meritevole per altro di una incessante discussione pubblica, come si può verificare ogni sera in televisione dove si discute animatamente di come fare a fare cose apparentemente semplicissime: muoversi correttamente negli spazi pubblici, ad esempio. Nella fase del lockdown “duro e puro” a essere straniata era stata la vita domestica. In quella situazione claustrofobica, a venire in primo piano erano stati i consolidati ruoli familiari, i gesti sempre uguali della autoriproduzione della cellula familiare, i rituali del cibo, della convivenza, dell’allevamento della prole (oppure, nel caso del single, la sua anomica solitudine). Nella fase 2 a essere investita dallo straniamento è invece la vita sociale: il lavoro, l’operosità, il “negozio”, le relazioni, l’amore... Si è detto, ottimisticamente, che il lockdown ci restituiva così alla nostra trascurata interiorità e che dovevamo approfittare di questa occasione per conoscerci meglio. In un certo senso è tutto vero, a patto però di ricordare, con Brecht, che il “noi stessi” che la riflessione causata dal lockdown ci pone sotto lo sguardo è un “ospite estraneo”.

 

Il virus è una specie di teatro epico sulla scena del quale la vita immediata perde la sua semplicità e ritorna come esperimento, ipotesi, congettura. Tutti gli esperti chiamati a discettare sulla fase 2, concordano sul fatto che la domanda capitale, quella alla quale si deve preliminarmente rispondere, non concerne il “che cosa”, ma il “come”. Non ha senso, si dice, chiedere “che cosa” si aprirà o non si aprirà, se prima non ci si è interrogati sul “come” lo si farà: come fare diversamente, vale a dire in sicurezza, quello che abbiamo sempre fatto e che non possiamo non fare, come essere padre o madre, come essere solo, come tossire, come lavorare, come camminare per la strada, come entrare in un bar, come invecchiare… 

Non è perciò fuori luogo parlare a questo proposito di un cambiamento di paradigma o di modello. E non è nemmeno esagerato scorgervi un’occasione rivoluzionaria, sempre che si tenga presente che il cambiamento non ha ipso facto il senso del progresso e che la rivoluzione non significa necessariamente un miglioramento della condizione umana.

 

I paradigmi, infatti, non sono oggetti del sapere, se non in occasione delle grandi crisi che segnano una discontinuità radicale. I paradigmi funzionano nell’ombra, come dispositivi che danno il ritmo alle nostre azioni, incorniciandole come sfondi non percepiti. I paradigmi riguardano il piano del come si fa quello che si fa, non dicono nulla del che cosa: il filosofo direbbe che sono dei “trascendentali”. Il teatro di Brecht era un teatro rivoluzionario perché straniava i paradigmi che inquadravano silenziosamente la vita sociale nel tempo del capitalismo. Il Covid-19 ha fatto qualcosa di simile con le condizioni generali della nostra vita associata e lo ha fatto su scala planetaria. Ha messo a nudo i gesti invisibili della nostra quotidianità mostrando quanto questi siano implicati in una storia collettiva che ci trascende tutti e che tutti ci riguarda. Li ha caricati perfino di un destino che non sospettavamo che avessero. Non si è trattato affatto di una riscoperta delle piccole cose e del valore del quotidiano. Al contrario! Proprio come accade nel teatro epico brechtiano, lo straniamento del gesto operato dal virus ha trasformato gli aspetti più ordinari della nostra vita in un fatto immediatamente politico, di interesse collettivo e li ha resi oggetto di una critica e di una decisione. Paradossalmente, proprio quando restare a casa o frequentare solo i “congiunti” diventava un obbligo, a venire clamorosamente meno era la separatezza del privato. Tutto si è fatto politica nel lockdown e nella fase 2.

 

Tant’è che si profila minacciosa all’orizzonte la possibilità che di vita privata ne possa restare molto poca se si vuole efficacemente prevenire l’espansione dell’epidemia.

Ma chi è, in ultima analisi, l’attore che è venuto a calcare questo podio? È il nostro turbamento a rivelarlo, vale a dire quella sottile paura che si è impiantata stabilmente nelle nostre vite, risvegliandole dal sonno dogmatico in cui ristagnano in tempi di pace, quando il paradigma funziona a pieno regime. A materializzarsi sulla scena non è la paura della morte, l’orrore per la malattia e per la miseria incombente, non è l’insicurezza. Queste contingenze abitano già da sempre le nostre esistenze. Solo un intellettualismo morboso può negarne la costante presenza nella vita umana. Piuttosto a dominare la scena è ora il personaggio “tempo”: non il tempo metrico, non la misura cronologica, ma ciò che quella misura, vale a dire il cambiamento, inteso come potenza assoluta e dispotica, alla quale non ci si può sottrarre. Duchamp aveva decontestualizzato un oggetto ordinario come un orinatoio e lo aveva così reso improvvisamente visibile e scioccante. Il Covid-19 ha fatto lo stesso con il tempo e su di una scala sconosciuta rispetto alle operazioni inevitabilmente elitarie dell’arte. 

 

Il tempo normalmente funziona come sfondo nel quale scorrono le cose della vita, le sole sulle quali si dirige il nostro interesse pragmatico. Diventa invece “tema”, figura in primo piano e “pietra di inciampo” (próblema in greco) nella crisi. Nella crisi lo sentiamo come una presenza ossessiva. Nella crisi appare per se stesso, nella sua veste shivaitica di creatore e distruttore di mondi e la crisi è il momento della decisione. Non si ripete, forse, ad ogni piè sospinto, che il cambiamento è la sola certezza che il virus ci lascerà in eredità? Non sappiamo come, non abbiamo idee chiare e distinte in proposito, nemmeno gli scienziati “sanno”, ma sappiamo “che” avrà luogo e che dovremo essere, come umanità, “all’altezza dell’evento”, perché altrimenti l’occasione sfumerà in una noia infinita, noia che è l’altro volto in cui il tempo si presenta “di persona” quando viene portato in scena dalla crisi.

 

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