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14 maggio 2020

 

Una stanchezza senza fine?

di Marco Belpoliti

 

L’ha detto bene Silvia Ballestra nel suo diario milanese del Lockdown: “all’improvviso questa immane stanchezza”. Lei l’attribuisce alla primavera incipiente che, uscendo di casa dopo due mesi di segregazione, scopre all’improvviso. Stare segregati rende stanchi? Una delle cose che più colpisce alla fine di questo lungo periodo di confino è proprio la stanchezza. Forse per via delle tante cose da fare: pulire la casa, fare la spesa, cercare le mascherine, telefonare a parenti e amici, guardare i social, e poi stare sempre insieme con moglie, marito, figli, compagna, compagno, eccetera. Così che all’improvviso si capisce che, nonostante il tanto tempo a disposizione, abbiamo combinato ben poco. I volumi allineati sulla libreria, che attendevano da anni, le opere in molteplici tomi, sono ancora lì, al massimo qualche pagina o capitolo, poi più nulla. Naturalmente c’è anche chi ha letto tanto, come un amico cui telefono a cadenza settimanale per sapere come sta, dato che se ne sta tutto solo in appartamento di città abitato di recente.

 

Le telefonate sono anche un elenco dei libri letti da lui da cima a fondo. Ma, anche se non me lo dice, pure lui si deve essere stancato; intanto, di stare solo lì, in casa, poi di questa inoperosità, che ha riempito da fanatico lettore. Per la prima volta dopo tanti anni io stesso ho avuto a disposizione ore e ore libere, da gestire come volevo, tuttavia le incombenze quotidiane si sono divorate molto del tempo disponibile. Molto più che nella vita “normale”. Possibile? In questi due mesi e passa qualcosa di nuovo è accaduto. È subentrata alla operosità una forma di inoperosità, non nel senso che non ho fatto nulla, ma che ho fatto tante cose, tutte appartenenti al lato inoperoso dell’operosità, ammesso che questo lato esista. Qualcuno ha detto che è stata, salvo angosce vere o presunte, paure, ansie continue, problemi posti dalla convivenza in spazi ridotti, una sorta di lunga vacanza, nel senso etimologico del termine: eravamo vacanti. Vacanti rispetto alla vita e alla morte, nella possibilità sempre possibile, o probabile per tanti, del contagio, ad opera di un organismo vivente invisibile, che ha usato e continua a usare gli esseri umani come un mezzo di trasporto. Il virus che saltava dall’uno all’altro di noi, facendo anche morti in questo balzo, è un’immagine che ho avuto davanti agli occhi più volte in queste settimane. Siamo stati il suo tram, la sua metropolitana, il suo treno, o solo la sua bicicletta. Eppure in questa zona di mezzo tra il vivere come prima e il vivere come dopo, che ancora non conosciamo, è accaduto qualcosa. Si è arrestata la “valorizzazione sociale del tempo”: il tempo messo a reddito. Di questo probabilmente si tratta: è stato e continua a essere un tempo sospeso; e non solo per la ragione che eravamo tutti in attesa di uscire dalla pandemia, di uscire dalla paura del virus, di uscire di casa.

 

Prima del Covid-19 usavamo il tempo come accelerazione: fare tante cose in poco tempo, fare sempre di più. Come con i buoni del tesoro, il tempo era il nostro fattore d’accrescimento: della reputazione, del denaro, del potere. Fare sempre di più. Covid-19 ha ammazzato con migliaia e migliaia di persone proprio questo tempo, il tempo della prestazione: prestazione fisica, prestazione monetaria, prestazione sessuale, prestazione in generale. Il sistema capitalistico, “la religione della vita quotidiana”, come la definiva Marx, è esattamente questa cosa. Non un sistema economico, una struttura sociale, bensì una struttura mentale, un modo d’essere, come la filosofia ci ha insegnato. L’immaginario conta più della realtà; l’aveva detto lo storico francese Georges Duby: gli uomini “regolano il loro comportamento in funzione non della loro reale condizione, ma dell’immagine che se ne fanno, che non è mai il rispecchiamento fedele”.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v80), quality = 75 Opera di Molly Bounds.

 

In questi giorni ho letto un breve e fulminante libro di Gianfranco Marrone La fatica di essere pigri, che sta per uscire da Cortina. Un testo che mi aiuta a ragionare su cosa ci è probabilmente accaduto durante il lockdown. Marrone conclude il suo libro parlando di un testo che i lettori di doppiozero conoscono: bene Osiamo essere pigri, un’intervista di Christine Eff a Roland Barthes. Non a caso uno dei testi più letti del nostro sito. Il semiologo e scrittore francese parla della “pigrizia gloriosa”, la forma filosofica dell’inoperosità, ovvero il puro far nulla, quello che chiamiamo ozio, che è a suo dire una vera e propria utopia, una concreta impossibilità.

 

Qualcosa che non si può realizzare. Forse durante questa sospensione del tempo di lavoro, di studio – non di tutti ovviamente, perché in molti hanno continuato a fare scuola, cioè a lavorare, e a seguirla, cioè a studiare, dalle scuole medie all’università –, è subentrata una forma di inoperosità. Si tratta della stessa pigrizia gloriosa di cui parla Barthes? Abbiamo superato l’antinomia tra tempo di lavoro e tempo libero? Costretti nelle nostre case, non potendo lavorare e neppure passeggiare, correre o stare seduti su una panchina – erano chiuse con le strisce bianche e rosse –, cosa abbiamo fatto? Facevamo in casa (pranzi, pulizie, giochi, ripassare delle lezioni con i bambini, guardare la televisione, compulsare il computer, seguire i social, guardare dei vecchi film, eccetera). Ma questo era davvero un fare, o invece qualcosa che non appartiene più al fare e neppure al non-fare? Siamo stati laboriosamente pigri? In quel testo Barthes fa un esempio che colpisce: lavorare a maglia. Vuole indicare in questo modo un tipo di attività che è gratuita, corporale, estetica, alla pari del dipingere per diletto, da dilettanti – cosa che lo scrittore francese faceva durante le sue vacanze estive. La vera pigrizia è proprio questo. Naturalmente c’è chi questo tempo di pigrizia l’ha avuto molto meno a disposizione; di sicuro le donne, le mamme, i padri che svolgono da tempo il compito di mammi, oltre al personale infermieristico e medico, i volontari. Non pretendo qui di dire qualcosa che vale per tutti, ma neppure per nessuno.

 

Sto solo cercando di capire cosa ci è accaduto. Barthes parla del lavorare a maglia come un gesto di pigrizia, sempre che non si sia presi dalla fregola di terminare il lavoro, dice, di fare un maglioncino, un paio di guanti, un cappello. Ci ricorda anche Rousseau, il grande filosofo, che alla fine della sua vita passava il tempo facendo merletti. Nell’intervista Barthes cita una poesia Zen: Seduto pacificamente senza far nulla/ viene la primavera/ e l’erba cresce da sola. In francese la traduzione presenta uno strano scivolamento del soggetto della frase; chi è pacificamente seduto, l’uomo o la donna, non è il soggetto della frase. Commenta: la vera pigrizia è non dover più dire “io”. Forse quello che ci è accaduto in queste settimane, grazie a questa inoperosità operosa cui siamo stati sottoposti (nella sospensione delle attività solite che ci portavano all’alternanza di casa e lavoro, al dentro e al fuori), qualcosa è saltato. Che questo “qualcosa” sia l’Io? La vera pigrizia, commenta Marrone nel suo libro, è la scomparsa della soggettività “in quanto istanza per ogni intervento attivo” – più o meno imposto come dovere – nel sociale. Non abbiamo forse patito così tanto per la sospensione della nostra socialità, che è poi il modo attraverso cui si costituisce la nostra identità, la nostra soggettività? E non è questo che tutti hanno cercato uscendo di casa nel momento in cui è stato possibile? La pigrizia che ci è stata imposta è faticosa. Ma forse il problema vero è un altro. Ha che fare con quella “vacanza”, con il nostro essere vacanti, senza un orizzonte entro cui calare sia la nostra operosità, così come la nostra inoperosità, un orizzonte di senso, che il coronavirus ci ha sottratto.

 

Che tipo di stanchezza proviamo? Non certo quella descritta dal filosofo Byung-Chun Han del suo libro, La società della stanchezza, dal momento che la società della prestazione sembra aver sospeso per il momento il suo potere su di noi, e neppure quella della stanchezza come forma di cura, di cui ha scritto per primo Peter Handke nel suo Saggio sulla stanchezza, una forma di attenzione contemplativa. Solo alcune anime illuminate, solo alcuni individui, uomini e donne, di sovrana serenità hanno saputo dare alla stanchezza di questi mesi una forma simile. Non siamo riusciti a posare il nostro sguardo incantato su ciò che ci circonda, come ha scritto Riccardo Panattoni descrivendo il suggerimento di Byung-Chul Han in doppiozero. E allora? La vera stanchezza che ci ha preso lasciandoci in balia di noi stessi è quella dello smarrimento e della depressione. Quando finirà tutto questo? Quando riprenderemo la vita di sempre? Due mesi lunghi come anni. Senza via di uscita. A essere stanco è il nostro narcisismo, il piacere di noi stessi, quello in cui ci siamo cullati in questi ultimi decenni, stando a Christopher Lasch. Lì sta forse la questione fondamentale: non possiamo più andare avanti, non possiamo tornare indietro. Siamo in una terra di nessuno. La pigrizia suggerita da Barthes è una via di uscita? Forse sì, ma solo se è davvero un dover fare a meno di dire “io”. Possibile? Non lo so, perché l’immagine che ho di me stesso e anche degli altri è di tanti palloncini, che un ago sottilissimo, il virus, ha bucato e si stanno sgonfiando ora dopo ora, giorno dopo giorno.

 

Quello che subentra è una sorta di tristezza, dal momento che senza l’“io” non sappiamo proprio come fare, quell’“io” che non è singolarità o solitudine, ma nasce dalla relazione con gli altri. Il narcisismo in Occidente si è alimentato attraverso questo confronto continuo con gli altri: gli altri come il nostro pubblico davanti a cui esibirci, gli altri come luogo del nostro “fare”, gli altri come attivazione del nostro Io. Certo gli altri non sono solo quello, ma nella diminuzione della relazione sociale, sottratti come siamo alla logica del fare, e tuttavia non immersi neppure nel non-fare – in questi due mesi abbiamo dovuto comunque “fare” – cosa ci resta? L’interruzione della nostra vita di relazione, del nostro lavoro, della nostra mobilità, del consumo stesso. Siamo stati parcheggiati in un intervallo che non funge da intervallo. Uno spazio intermedio, che ora sembra potersi estendere a dismisura: per quanto tempo staremo ancora così? La nostra non è neppure la pigrizia di Oblomov, o il “avrei preferenza di no” di Bartelby, lo scrivano di Melville, che dice di no. Né sì né no. Per questo siamo stanchi, molto stanchi. Neppure uscire, come abbiamo fatto ora, camminare, muoverci, correre, riesce a sanare questa estrema stanchezza. Lottiamo per sopravvivere al virus, e tutto questo ci ammazza di stanchezza.  

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