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20 ottobre 2020

Il tempo ultimo
di Gabriella Caramore

La cura come pensiero
“Cura” è una parola che sta risuonando insistentemente nelle iniziative pubbliche, nei discorsi comuni, negli incontri degli ultimi mesi. Come se ci fosse una urgenza, una fretta, una necessità di comprendere, al di là della pandemia che ha colpito il mondo, quale sia la malattia più profonda che si è insinuata in tutte le fibre del pianeta, e che ha messo in evidenza non solo la fragilità della vita umana, ma la criticità di tutto il sistema di vita sulla terra, e i rischi, forse per la prima volta davvero “fatali”, che stiamo correndo. E, di conseguenza, come se fosse imprescindibile individuare e esercitare una cura.
Ma, appunto, su molte, troppe ferite occorre apprestare le cure. È l’intero nostro mondo che appare malato. Di quali e quante malattie? Quali sono i sintomi, quali le diagnosi? Quali procedure, quali farmaci andranno usati per le tante patologie del pianeta? Per ottenere che cosa? Guarigione? E con quali aspettative? E se si trattasse di una malattia “terminale”? Non tutto si può sempre curare. L’esito può essere anche letale. Ma è possibile curare anche la morte? O questa è una domanda priva di senso? La risposta sembrerebbe ovvia. È la vita che si deve curare, perché anche la morte abbia un senso. Chi ha in mano le sorti del mondo non sembra, purtroppo, dare gran peso a questo pericolo. Ma noi sappiamo anche che silenziosamente, senza clamore, in tanti angoli del mondo esiste una società civile che reclama a gran voce una cura del vivente. In tanti piccoli luoghi nascosti esistono uomini, donne, gruppi di persone che hanno a cuore la cura dei viventi e del mondo, che mettono in atto progetti, che agiscono per ricomporre ferite, per dare guarigione alle offese. È lì, in quelle piccole porzione di spazio a disposizione di ciascuno che tutti noi dovremmo accendere il nostro esercizio di cura. La cura presuppone uno spazio e un tempo. Piccoli spazi che si dilatano. Porzioni di tempo che si espandono. Ma sono sufficienti queste minuscole “isole di fraternità” a salvare il mondo malato? No. Il mondo non sarà mai salvato né redento. Non è prevista redenzione per il mondo. Quello che si può fare è aprire varchi di guarigione nella compattezza della malattia. Si può procurare sollievo. Si possono dischiudere possibilità.
Per fare questo però è necessario provare a fare un salto di qualità relativamente all’idea di cura. E capire che non basta pensare la cura semplicemente come il gesto di riparazione di un singolo guasto, un farmaco che faccia scomparire un sintomo, ma piuttosto come un radicale orientamento di pensiero, l’esigenza di un modo diverso di stare al mondo. Occorre studiare con più disincanto la gravità dei mali che affliggono il pianeta, capirne le connessioni, avvertire l’urgenza di correre ai ripari, mettere in atto non solo una sorta di terapia salvavita – ammesso che non sia troppo tardi –, ma anche elaborare una strategia di cura all’interno di un dinamismo del pensiero, di una eccedenza della disposizione di ciascuno verso l’altro e verso il mondo. La cura deve poggiare sì sull’onda emotiva che spinge a sporgersi verso l’altro, ma ha anche bisogno di prendere atto della complessità dell’esistente. Ha bisogno di intelligenza, di immaginazione, di azzardo. Perciò sono necessarie le forze di tutti, le competenze di tutti, l’inventiva di tutti. Avere cura significa certamente rispondere con moto immediato del cuore verso chi è nel bisogno o nella difficoltà, ma anche formulare pensieri intorno all’idea di cura. Dal gesto circoscritto del curare occorre passare all’azione, espansa nella durata, dell’aver cura
In questo senso l’emergenza che abbiamo vissuto – e che stiamo vivendo – scaturita dalla diffusione del Covid-19 ha avuto un risvolto “positivo”, a patto che si facciano oggetto di pensiero, appunto, i segnali che sono emersi per intervenire in senso autenticamente terapeutico. L’irruzione del virus in tutti i paesi della terra ha letteralmente scoperchiato i diversi pericoli in cui incorre il pianeta, quelli antichi e quelli nuovi, in maniera drammatica. Ha messo in luce non solo l’emergenza sanitaria – causata certo dall’improvviso insorgere del virus, ma anche dal fatto che non se ne sono volute leggere le prevedibili avvisaglie e che tutto un sistema di incongrue priorità aveva smantellato la possibilità di farvi fronte –, ma anche l’emergenza economica e sociale radicata delle drammatiche diseguaglianze che hanno messo al tappeto le economie più fragili; ha reso più palese il rischio che sta correndo l’intero pianeta di trasformarsi in un globo non più adatto al proliferare dei viventi, con il depauperamento intensivo e sconsiderato delle risorse del suolo, con le deforestazioni, gli incendi, la cementificazione, l’inquinamento selvaggio, lo sfruttamento crudele e dannoso delle vite animali e di quelle vegetali. Certamente tutto questo non è solo responsabilità umana. Altre forze agiscono nel cosmo. Ma certo è tragicamente incongruo che non si mettano in atto tutte le risorse possibili per riparare almeno i danni che dipendono dal comportamento umano. 
Ma l’emergenza sanitaria ha anche messo a nudo, in maniera più vistosa che mai, una crisi di umanità a cui bisogna tentare di dare almeno qualche risposta. Dove sta la particolarità dell’umano, se non in un senso di responsabilità, di intelligenza, di creatività, di cura, appunto? Le atrocità cui assistiamo – guerre, violenze, razzismo, soprusi, inganni, avidità – ovviamente non sono nuove sotto il sole. La storia umana è sempre stata costellata da efferatezze di ogni tipo. Da guerre sanguinose e brutali, da saccheggi, da inferni inflitti ai deboli e ai vinti, da discriminazioni, da angherie, da malvagità di ogni tipo. Certo, è vero che il bene che gli esseri umani si sono voluti, le cose belle che hanno costruito, scoperto, creato, amato, sempre hanno contraddetto il male dilagante sulla superficie del mondo, ne hanno incrinato il dominio altrimenti assoluto. Oggi però lo scandalo è, in qualche misura, qualitativamente più grave. Il fatto che obbrobri e ignominie continuino, a questo punto della storia, a sfregiare la comunità dei viventi e l’habitat che la contiene è tanto più vergognoso in quanto molti strumenti sono stati elaborati per dimostrare quanto improduttivi, oltre che nocivi, siano egoismi identitari, discriminazioni razziste, ingiustizie economiche e sociali, manifestazioni di odio, censure, strapoteri, tirannidi. C’è una Carta dei diritti dell’uomo che dovrebbe sancire di fatto, oltre che di diritto, l’uguaglianza degli esseri umani; c’è una Organizzazione delle Nazioni Unite che dovrebbe placare i focolai di guerra; c’è una Organizzazione mondiale della sanità che dovrebbe regolamentare la cura – ovunque – delle malattie che affliggono i corpi e le anime. Ci sono tanti altri strumenti che dovrebbero offrire pace, benessere, giustizia, benevolenza. Ma è come se ci fosse un bisogno di efferatezza, di bestialità, di predazione che non si placa, e che anzi torna a ruggire, a lacerare, a distruggere. C’è una fame di potere, una sete di odio che non si acquietano mai.
Che fare allora? Provare a guardare, poco per volta, schegge della nostra esistenza, per considerare se sia possibile, qua e là, mettere in atto strategie di cura che possano smentire l’ineluttabilità di una deriva senza ritorno. Tanto più, allora, “cura” significa non soltanto far fronte all’emergenza, ma elaborare pensieri, fare profezie, scegliere le priorità, orientare le abitudini, studiare, soccorrere, aiutare. Senza timore, possibilmente, di guardare in faccia anche ciò che forse non si vorrebbe guardare.


Il tempo ultimo
Perché ho scelto questo tema come oggetto dei pensieri intorno alla cura? Forse semplicemente perché la fase ultima della vita umana è un tempo che ha bisogno di cura come ne ha bisogno l’infanzia, si potrebbe dire. Ma forse anche, inutile nasconderlo, per una necessità autobiografica. Essendo entrata in una fase della vita che non può più nascondersi l’avvicinarsi della scadenza ultima, sono in parte sgomenta, in parte incuriosita dal fatto che considero le cose in maniera diversa da come le consideravo prima. Mi accorgo di aver spostato impercettibilmente la mia attenzione su oggetti che prima mi apparivano lontani. E mi interrogo, come è naturale che sia, sul senso di questa nostra vita umana che svanisce; su come la sto vivendo e su come la vedo vivere da chi si trova nella mia stessa condizione, o magari un po’ più vicino di me al passaggio definitivo. E ancora mi interrogo su come un essere umano può affrontare la sparizione degli affetti più cari, così, d’un tratto, dall’orizzonte che ha sempre circondato la sua vita. E sul senso di quella grande ecatombe di tutte quelle persone che si vedono dileguarsi intorno a noi, quel loro diventare ombre, restando nello stesso tempo presenze. Mi interrogo anche – magari vanamente – su come vivrò, eventualmente, il tempo che precede l’uscita definitiva dal mondo e su come vivrò, se mi sarà dato, quella che sarà davvero l’ultima soglia, e mi chiedo se sarà davvero possibile entrarvi “ad occhi aperti”, o nello strazio del dolore o nell’ottundimento indotto dai farmaci. Se sarò sola, o ci sarà qualcuno con me. E mi chiedo anche, senza riuscire a darmi risposte, quale sia il senso, ammesso che ve ne possa essere uno, delle morti precoci, di quelle improvvise, di quelle violente: quelle vite che finiscono senza neppure aver avuto il tempo di saperlo. Ma anche sulle vite che troppo a lungo si trascinano. 

Opera di Andrew Wyeth. 

L’immagine del “tempo ultimo” evoca anche, inevitabilmente, un’eco del linguaggio religioso, così come si è sviluppato nei secoli in Occidente. Il “tempo ultimo” – il tempo escatologico, delle “cose ultime” – era una sorta di prospettiva cosmica e definitiva alla quale era necessario tendere, per porre riparo alla precarietà del tempo vissuto sulla terra. Quando lo scorrere del tempo cronologico si sarebbe concluso, saremmo entrati nel “mondo che verrà”, in un “altro regno”, nella “pienezza dei tempi”, in un trionfo di luce e di gloria. Presupponendo, certo, che “le cose di prima sarebbero passate”. Oggi evidentemente questo immaginario non fa più presa sulle nostre menti e sulle nostre coscienze, neppure – mi permetto di dire – su quelle dei credenti. La nostra percezione del tempo si è raccorciata. È come se fiutassimo un pericolo, come se sentissimo il brivido che percorre questa nostra terra senza più prospettive per il futuro, senza avvertire quel senso di proroga indefinita che le religioni ci promettevano. In questo ci sollecitano anche le ipotesi scientifiche che forse per la prima volta prospettano una sorta di autodistruzione del pianeta. È per questo, credo, che anche il tempo ultimo delle nostre vite si colora oggi di tonalità diverse. 
A fronte di queste visioni della fine, mi soccorre spesso il pensiero di Hannah Arendt secondo cui “Tutti gli esseri umani devono morire. Ma gli esseri umani non sono nati per morire, ma per incominciare”. Una visione piena di coraggio, tutta piegata verso la “vita attiva”. Ritengo tuttavia che occorra però anche guardare in faccia la fine che tutti ci attende. Sì, siamo fatti per incominciare. Ma siamo fatti anche per finire. Ma quella fine deve poter essere considerata, indagata se non si vuole privare la vita umana di una parte essenziale del suo percorso, come se il tempo ultimo fosse un arto amputato da gettare via. Senza ossessione, naturalmente. È naturale che la gran parte della vita la trascorriamo pensando alla vita stessa. Sarebbe patologico il contrario. Eppure, anche l’ultimo tratto di strada deve essere percorso con l’attenzione, e la cura, che si deve a quelli precedenti. Proprio la sua fragilità ce lo chiede. E anche quell’imperscrutabile evento che è la morte stessa. 
Una civiltà che trascura di pensare la mortalità, e che non ne ha cura, è una civiltà che prima o poi si guasta, si deteriora, va a male: letteralmente “va verso il male”. Ricordiamoci che la storia delle civiltà comincia non con la pura sopravvivenza – questo lo sanno fare molto bene anche gli altri esseri viventi, gli animali, le piante –, ma con l’elaborazione dei riti funebri, con i racconti di vita vissuta, con l’invenzione della trascendenza. In una parola con la “cura” della dimensione umana. Se ci pensiamo, sono tutte cose superflue alla sopravvivenza, ma necessarie a fare comunità umana. A questo “serve” aver cura. A costruire umanità, a correggere la distruttiva “incuria”.
Ma, appunto, anche il tempo ultimo della nostra vita si presenta in forme diverse. Non solo perché innumerevoli sono le modalità delle esistenze.  Ma perché c’è il tempo dell’anzianità, il tempo della vecchiaia estrema, il tempo del morire … Si può anche dire che un conto è la morte nostra, un conto quella degli altri che ci sono cari, un altro ancora quella dei lontani. Però penso anche che la morte è una. Quella degli altri è profezia della nostra. E viceversa. Piuttosto, se vogliamo indagare – anche superficialmente – i significati del tempo ultimo della vita, e della necessità di predisporre una cura per esso, penso che dobbiamo guardare al diverso scorrere dei giorni nelle fasi in cui ci si approssima alla fine. È evidente che ogni classificazione sarebbe puramente approssimativa e provvisoria. Tuttavia possiamo tentare di individuare almeno due “passi” dentro i quali tenere le diverse fasi che ci accompagnano nel tempo ultimo. Il primo è quello di un tempo che possiamo chiamare “penultimo”: quello che ha ancora un futuro davanti a sé, il cui orizzonte è raccorciato ma non sparito, quello in cui il soggetto stesso è ancora attore della sua recita nel mondo, e deve farsi anche portatore di cura per gli altri e per sé. Il secondo è quello della “soglia”, che non ha più né futuro né passato, e in cui anche il presente è un grande vuoto che ci interroga.
Fra questi due, un “passo immobile”, una sorta di “tempo senza tempo” che è la vecchiaia estrema, l’agonia, lo spegnimento della coscienza, l’attesa, nei confronti del quale la cura deve essere vigile e non pavida, libera e non imbrigliata nelle convenzioni della modernità. Soprattutto generosa, intelligente, pietosa. 


Tempo penultimo
È quello in cui una vita che si possa chiamare tale è ancora possibile. Anzi, forse è il tempo di una vita più piena, in cui la coscienza non solo è vigile, ma affina i sentimenti, aiuta l’intelligenza a essere più selettiva, favorisce la pazienza nei confronti del prossimo, stempera i giudizi, accoglie una visione più ampia della storia del mondo. È anche il tempo della malinconia, di qualche rimpianto, dell’affiorare di qualche rimorso, di una considerazione amara delle vicende umane. “Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole, ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento …” afferma Qohelet nel suo tedio sapiente (1,14). Ma è l’età in cui ancora tutto, o quasi, è possibile. Sì, il corpo mostra segnali di indebolimento, lo vediamo tutti che c’è sempre più bisogno di ricorrere ai medici, agli ospedali, alle analisi di laboratorio. Il corpo si sgretola prima qua, poi là, poi si aggiunge un acciacco, poi si tampona una carenza, se ne apre un’altra, e così via. 
Ma la vita c’è ancora. Ed è ancora vita piena se ci sono affetti, famiglia, relazioni, incontri. Se c’è musica. Lettura. Teatro. Bicicletta. Passeggiate. Qualunque tipo di lavoro. Godere la propria casa. Cucinare, conversare, coltivare fiori, conoscere paesaggi, respirare vapori di mare, profumo di monti. Tutto un pochino più faticoso, è vero. Ma la fatica è anche soggettiva. Ci sono gli eterni stanchi. E gli eterni infaticabili. E poi fatica significa esser vivi.
In questa fase della vita che cosa fa la differenza tra un vecchio e un altro? O – se la parola vecchiaia disturba – tra un anziano e un altro? 
Il luogo in cui si è nati e si vive. In altre parti del mondo i vecchi vivono (vivevano fino a poco tempo fa) all’interno di famiglie numerose, dove erano ancora ascoltati per la loro saggezza, ma dove anche erano curati alla bell’e meglio, certo senza tutte le accortezze di cui, per lo più, si gode in Occidente, e sicuramente senza tutti quei privilegi di agio, di libertà, di autonomia che il vecchio nel nostro mondo si è conquistato.
Gli affetti fanno la differenza più grande. Chi è solo intristisce prima, smette di interagire, impigrisce cuore e cervello. I suoi giorni sono più freddi. Le notti più disperate. Anticipa rapidamente la morte in vita. Affiorano rancori, rabbie, rivalse. Allontana da sé anche chi vorrebbe aiutarlo.
Le strutture mediche di cui si dispone. Certamente in un villaggio dell’Africa, dove manca l’acqua, dove c’è un ospedale raggiungibile a decine o centinaia di chilometri, dove mancano le strutture elementari di igiene e di assistenza, si viene curati con più approssimazione rispetto a un ospedale occidentale. È vero però che alcuni ospedali dei paesi più poveri consentono una dimensione più umana, facendo accudire il malato anche dai familiari, con i bambini che giocano intorno. Condizioni igieniche più precarie, ma meno desolazione affettiva. E d’altronde ricordiamoci nella civilissima Svezia – se ne è parlato poco – nel periodo dell’emergenza sanitaria, è stata stilata una lista delle priorità nell’assistenza ai malati, una specie di classifica, o di ordine di importanza: vecchi e handicappati occupavano l’ultimo posto. Nessuna cura, o una cura minima, che vuol dire lasciarli morire. Per le proteste di molte associazioni la cosa è poi rientrata. Ma quella lista esprime una visione corrente che vede la vecchiaia, o l’handicap, come disvalore, e quel tempo penultimo come un tempo senza importanza, una appendice residuale all’umana esistenza.
Il reddito e la cultura. Non esser poveri significa moltissimo. Abitare una casa e non una baracca o un angolo di strada fa una differenza assoluta. Casa significa ambiente, memoria, ricordi, uno spazio familiare, un luogo dove si respira. “Aria di casa” si dice per indicare un odore conosciuto e confortevole. Reddito, poi, significa sicurezza, non ammalarsi di ansia e di paura, poter avere accesso ai beni necessari, agli aiuti, ai piccoli piaceri, poter scegliere un andamento dei propri giorni. Non è necessario ipotizzare una vecchiaia satura di consumismo e di ricchezza. È sufficiente, per poterne godere, poter aiutare figli e nipoti, essere generosi con chi ha avuto meno e si trova in difficoltà. Essere generosi in vecchiaia è un lusso dell’anima che a volte i giovani non si possono permettere.
Se queste sono le dimensioni che in vecchiaia fanno la differenza, ci sono invece cose che accomunano questa età della vita, ovunque si sia nati o si viva. 
Non solo la debolezza del corpo e della mente, diversa per ciascuno, ma per tutti inquietante e gravida di paure, di fatiche, di domande senza risposta. Non solo la fuga della bellezza dal volto e dalle membra. Ma una prospettiva accorciata dell’esistenza
Progetti? Sì. Ma non a lunghissimo termine. I progetti si spostano da sé ai figli, ai nipoti, al sociale che si ha intorno. Ma è come se l’orizzonte che prima si aveva davanti lo si vedesse ravvicinato. Come se si avesse un ulteriore difetto di vista. E invece è questa la giusta percezione visiva. 
La scoperta del mondo che si fa vuoto. Il venir meno di figure care. Non solo la scomparsa del partner, una vera e propria amputazione che prima o poi accade. Ma la scomparsa dei volti che facevano il nostro mondo, che ci hanno accompagnato nei decenni. La scomparsa di una folla di persone. I lutti sempre più numerosi. Il paesaggio umano più rarefatto quasi di giorno in giorno. Le lacrime che pian piano si consumano. Non perché ci si abitua e si diventa più indifferenti. Ma, ecco, si comincia a capire che davvero si resta soli. E che ben presto anche noi faremo parte di quel paesaggio sprofondato nel buio e nell’inconsistenza. I luoghi che ci sono più familiari o più amati faranno a meno di noi. Le generazioni che ci seguono avranno, senza di noi, le loro gioie e i loro dolori. Le loro conquiste e le loro sconfitte. E noi non le conosceremo. 

Opera di Andrew Wyeth. 

È per far fronte a questo che occorre elaborare un nuovo pensiero dell’umano, in cui ogni istante vissuto, finché c’è coscienza, finché c’è desiderio, finché c’è “crescita” possa trovare uno spazio, una ragion d’essere, una motivazione ad amare la vita. Senza separare, brutalmente e burocraticamente, i vari stadi dell’esistenza. 
Ecco che cosa è aver cura. Non solo accudimento, non solo risposta immediata a un bisogno, risoluzione di un problema. Nell’Ermeneutica del soggetto Michel Foucault scriveva: “L’umanità sembra avere l’obbligo di prendersi cura dell’altro, non per scelta etica, ma come atto fondativo della sua essenza”. Ma questo attiene già al vivente nel suo complesso. È molto evidente nel mondo animale, fra poco lo sarà anche nel mondo vegetale. Ma è dell’umano aggiungere a questa dimensione primaria, elementare, qualcosa in più, un oltre, un oltrepassamento di ciò che è puro accudimento. Ci vuole slancio. Ci vuole applicazione dell’intelligenza, applicazione dell’immaginazione, applicazione d’amore che ecceda l’ordinario. 
È qui che dovrebbe entrare in gioco anche una passione propositiva della polis. Ma qui si vede anche come l’umano sia imbrigliato dentro una dimensione utilitaristica, funzionale a risposte immediate, senza progetto, senza futuro, senza visioni. È qui che si palesa, in tutta la sua brutale evidenza, la differenza tra la cura e l’incuria.
Ed è qui anche che si spalanca quella sorta di terra di nessuno che è la vecchiaia estrema, o la malattia giunta alla sua fase terminale, o comunque quel tempo che non si può più neppure chiamare tempo, perché è una sorta di sospensione nel vuoto e nell’assenza che ci condurrà inevitabilmente a varcare la soglia. Il tempo in cui la coscienza è silente. Rimane, talvolta, il dolore intollerabile e superfluo, sprazzi di terrore, una sopravvivenza non voluta e non goduta. Qui il discorso si fa difficile e delicato. Ma certo a tutti dovrebbe essere concesso di poter scegliere, finché ancora è possibile, se essere tenuti in “vita” a tutti i costi o se essere accompagnati, dolcemente, umanamente, e sapientemente oltre la “soglia”. 
Pensiamo ai vecchi che si trascinano spenti e in solitudine nelle case di riposo, o quelli che rimangono in una abitazione priva di conforti affettivi, dei minuscoli piaceri simili a quelli di cui sanno godere anche i bambini, accuditi in maniera sbrigativa, quando lo sono, privi di lacrime consolate, di ricordi condivisi, con la mente che si spegne perché non si nutre di nulla. Sono i testimoni muti di una vergogna taciuta del nostro modo di essere “civili”. Certo il problema non è di semplice soluzione. Ma occorrerebbe mobilitare forze, inventare nuovi moduli architettonici, nuove forme di integrazioni familiari e comunitarie per impedire che le esistenze umane finiscano in questo modo inumano. Il che non significa prolungare a tutti i costi il numero dei giorni. Anzi. Occorrerebbe imparare anche il distacco, elaborare un accoglimento della fine, sapere che, appunto, siamo destinati anche a finire, non solo a incominciare, e che soprattutto occorrerebbe addestrarsi, come in un esercizio di ascesi, a capire quando è il momento di disserrare le mani e il cuore e lasciarsi andare. “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 89,12). 
Ma appunto, una cultura della cura ci dovrebbe educare ad accompagnare il morente, ad essergli accanto quando “il respiro si fa aria” (per usare una splendida espressione del medico Paul Kalanithi, che ha raccontato fino quasi alla fine la sua lotta con la malattia e poi la decisione di lasciarsi andare, preso però quasi per mano dai suoi affetti più cari). Nello stesso tempo, una cultura della cura non dovrebbe ostinarsi a tenere “in vita” esistenze che finiscono in un dolore senza soluzione e senza guarigione, o che non hanno più non solo coscienza, ma neppure un sentire d’esser vivi, un percepire uno sguardo, o una parola o una mano che accarezza. Appunto, non è il numero di giorni che conta. Ma come e con quale prospettiva questi giorni si vivono. In tutti questi casi aver cura significa lasciar andare, non accanirsi con stolida crudeltà su una esistenza che non esiste più, che non ha più nulla di umano. 


La soglia
Ecco, allora, la necessità di guardare in faccia quel “tempo inghiottito dal tempo”, quel “tempo senza tempo” che è la soglia che separa il morente dal vivente. Un evento puntiforme, senza ritorno, “l’ultimo nemico”, come lo chiama la tradizione cristiana, cui però concede una sorta di proroga schiudendo, nell’immagine onirica e incerta della resurrezione. la dimensione di una nuova vita che si rigeneri sulla terra. Si comprende molto bene, del resto, perché le religioni abbiano escogitato innumerevoli vie d’uscite all’impensabile definitività della morte: duplicando il regno dei vivi, promettendo ritorni sulla terra, suggerendo la visione di un mondo di luce e di gloria dove regneranno finalmente la giustizia e il perdono, stabilendo continuità con i propri antenati, raggiungendo gli spiriti dei trapassati, placando la fatica delle continue rinascite in un felice vuoto fatto di nulla. Nessun sorriso di sufficienza è lecito nei confronti di queste esuberanze dell’immaginario. Anche questa è, se vogliamo, “cura” di quella vertigine che ci prende quando pensiamo al “mistero indicibile” del morire. Voler spiegare, voler consolare, voler dare senso a tutto ciò che appartiene alla vita – e dunque anche la morte – è una grande conquista dell’umano. 
Bisogna però tener conto che il linguaggio del nostro tempo esige altre narrazioni, altre figure, altre avventure del pensiero, che non necessariamente soppiantano le prime, ma, per così dire, le affiancano, le portano oltre, senza presumere di raggiungere stadi definitivi.
Ma rispetto al più definitivo degli eventi che cosa si può dire che rimanga? Che cosa significa, applicato alla morte, il “prendersi cura”? Quale ne sarà l’oggetto? Quali le modalità, una volta che si sia fatto tutto il possibile per aver cura del morente, accompagnandolo oltre quella porta spalancata che poi si richiude per sempre? Qual è, se non c’è più l’umano, il senso di “cura”? Anche il celebre “Mito di cura” evocato da Heidegger, colloca Cura a fondamento dell’umano, non della sua morte: “L’essere nel mondo ha una struttura conforme all’essere della cura”. 
E tuttavia molto ancora c’è da fare intorno alla “morte dei viventi”. 
Innanzitutto c’è un raccogliersi intorno alla memoria di chi non c’è più. Anche su questo aspetto ogni civiltà ha elaborato i suoi riti di separazione dal mondo dei vivi e di elaborazione del ricordo di chi non c’è più. La nostra, dominata da una fretta sbrigativa, ha accelerato e in un certo senso svilito ogni pratica di celebrazione funebre. Ma se questo può favorire una deriva verso la dimenticanza di chi non è più con noi, tanto più preziosa rimane la cura della memoria. Tenere a mente un momento vissuto. Trattenere le fattezze di un volto. Ricordare una data. Rielaborare ciò che abbiamo ricevuto. Aver caro un oggetto. Ripercorrere l’itinerario di un’esistenza, per quanto piccola, o nascosta, o insignificante essa sia stata. “Mio padre – scriveva Vladimir Jankélévitch – non è nel cimitero dove è sepolto. È piuttosto al suo tavolo di lavoro e nei libri che mi ha lasciato, nel pensiero che mi ha trasmesso. È in queste cose, non nel cimitero. Nel cimitero non c’è niente”.  
È vero che il ricordo dei propri cari non durerà in eterno. Ed è vero che nessuna memoria è in grado di trarre dall’oblio le vite smarrite, le vite che nessuno ha conosciuto, le vite dei senza nome, dei senza volto, dei senza voce. Ma proprio per questo la memoria deve compiere il suo lavoro perché non solo siano custoditi nel ricordo coloro che ci sono cari, ma anche tutti i vinti e dimenticati da noi e dalla storia. 
In questo senso è utile ricorrere ancora a Jankélévitch, quando parla della morte come di un “muro opaco”, una sorta di insormontabile barriera, che inevitabilmente ci ribalta indietro verso la vita che abbiamo avuto. “La morte non è il vetro trasparente dell’essere, o la faccia nascosta del nostro destino, ma piuttosto lo specchio che rinvia al nostro quaggiù la sua propria immagine”. Ciò che conta non è tanto il morire, ma come si è vissuti. Perciò la morte, che accompagna tutta la nostra vita, deve indurci a una pienezza di vivere, a un dispendio di sé verso il mondo e verso gli altri, perché ciò che siamo stati, con tutta la nostra debolezza e incompiutezza, sarà il segno che avremo impresso sulla ruvida crosta della terra. Mi piace ricordare, a questo punto, un detto della tradizione rabbinica: “Non sta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene”. Questa è l’ambigua condizione dell’esistenza umana. C’è qualcosa su cui possiamo, limitatamente, avere dominio. Per il resto non rimane che affidarci, cercare, sperare, desiderare.
Il testo, qui in versione rielaborata, è stato oggetto di una conferenza nell’ambito della rassegna Avere cura, promossa da OGR e doppiozero. Qui il link per il secondo incontro.

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