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15 gennaio 2020

 

«In Australia è bruciata un’area grande quanto l’Inghilterra»

di Angelo Piga

 

Ettore Camerlenghi, dottorando in biologia alla Monash University di Melbourne, spiega cause ed effetti dei vasti fuochi che stanno devastando l’ecosistema australiano. Con uno sguardo alle pratiche virtuose degli aborigeni e un altro alle mobilitazioni ambientaliste

 

Quali sono le aree più colpite dagli incendi e le principali cause di origine dei fuochi?

Da settembre 2019 a oggi sono bruciati circa dieci milioni di ettari, una superficie pari circa a quella dell’Inghilterra. Gli incendi in Amazzonia della scorsa estate, di cui tanto si è parlato, coinvolsero un’area dieci volte minore, 900 mila ettari. Circa la metà delle aree bruciate si trova nel New South Wales, lo stato di Sidney, dove sono andate in fiamme il 30% delle foreste, con una proiezione del 50% nel caso non si riuscisse a spegnere gli incendi tutt’ora attivi. Nella prima settimana di gennaio erano stati censiti 200 focolai. Sono morte finora 26 persone e duemila case sono state distrutte. Le cause degli incendi sono in maggioranza naturali, per esempio fulmini, e solo una piccola parte ha origine antropica (dolosi, mozziconi di sigaretta etc.). L’allarme piromani è in effetti subito rientrato e ha i connotati della fake news, deliberatamente divulgato per sviare l’attenzione dalle condizioni straordinarie di siccità e caldo, effetti del cambio climatico. La stessa polizia ha smentito molte delle notizie sui piromani.

Puoi parlarci più in dettaglio della situazione straordinaria che sta vivendo l’Australia a causa del riscaldamento globale?

Il 2019 ha segnato vari record dal punto di vista climatico. È stato l’anno più caldo e più secco almeno da quando sono disponibili i dati dettagliati delle stazioni metereologiche, quindi dall’inizio del Novecento. Sono caduti 277 mm di piogge, il 40% in meno della media. Assistiamo infatti a una interazione letale di caldo e siccità. Le temperature medie sono state di 1,5 gradi sopra la media, le massime addirittura oltre i 2 gradi. Questa ondata di caldo si deve ovviamente al cambiamento climatico. Lo stesso rapporto Ipcc (Intergovernal Panel for Climate Change) di dieci anni fa indicava un aumento del rischio di incendi in Australia. Quindi in un certo senso la situazione che stiamo vivendo era stata prevista con precisione. Questa ondata di caldo è esacerbata dall’interazione con altri due fenomeni. Uno è il cosiddetto “dipolo dell’oceano indiano”, ovvero un gradiente di temperatura fra la parte est e ovest dell’oceano, che nel 2019 si trovava nella sua fase positiva, corrispondente a temperature più alte nel lato occidentale (quello australiano). Il dipolo è da poco tornato nella sua fase neutrale, per cui si spera che possa ritornare a piovere. Il secondo fenomeno è il “southern annular mode”, che riguarda la circolazione dell’aria intorno al polo sud e quest’anno si trova nella sua fase negativa, che porta aria calda in Australia. Insomma, ci si è trovati di fronte alla “tempesta perfetta”, con più fattori caratteristici del complesso sistema complesso meteorologico che si sono alimentati a vicenda. Per dare qualche dato: la temperatura media massima nel 2019 in Australia è stata di 30,7 gradi, la più alta dal 1910, ovvero 2 gradi sopra la media. Il 18 dicembre è stato il giorno più estremo, con una temperatura media massima di 41,9 gradi. Con l’aria secca, le piante perdono acqua per evaporazione e si seccano, quindi è più facile che brucino.

Nell’immaginario di molti l’Australia è un territorio prevalentemente arido, dove gli incendi potrebbero essere un elemento naturale dell’ecosistema. Questa narrazione è corretta? 

Circola una narrazione fuorviante che descrive la vegetazione australiana come adatta a bruciare. Quindi gli incendi non ci dovrebbero né sorprendere né preoccupare più di tanto. In realtà, se è vero che nelle regioni occupate dalla savana l’ecosistema ha sviluppato una resilienza al fuoco, gli incendi di cui parliamo hanno coinvolto anche la foresta umida (foresta pluviale temperata), che non è evoluta per bruciare e ha subito danni irreparabili. La specie regina di queste foreste è l’eucalyptus regnans, l’albero più alto al mondo, che fornisce l’ecosistema ai koala e soffre molto i fuochi, per cui dopo un incendio la foresta richiede molto tempo per tornare a una forma matura. In effetti, un dibattito che si riapre spesso in Australia quando ci sono gli incendi riguarda i metodi per la loro gestione.

Gli aborigeni ne hanno di particolari?

Gli aborigeni australiani hanno tradizionalmente usato il fuoco per amministrare la terra, in un modo virtuoso, che aumenta la biodiversità. Capitava che gli aborigeni usassero il fuoco per “amministrare” alcune terre seguendo una strategia chiamata “cultural burning”, aprendo cioè fronti incendiari per la caccia, spingendo animali da cacciare in una direzione e contemporaneamente permettendo la ripopolazione da parte di altra fauna delle stesse aree bruciate. Da qualche tempo si parla di tornare a questa strategia, in particolare usando “fuochi freddi” per bruciare vegetazione secca a rischio combustione. Gli aborigeni ovviamente appiccano questi incendi in periodi dell’anno e in ore del giorno particolari (alba e tramonto). Il governo ha iniziato ad adottare un metodo simile, ma vengono utilizzati aerei, in periodi e luoghi sbagliati, per esempio a mezzogiorno, nell’ora più calda, per problemi di visibilità aerea. Un recente studio ha mostrato che solo in quattro delle trenta regioni tale gestione ha dato risultati positivi ma, ripeto, questo non è il “fuoco culturale” degli aborigeni, che è fatto a piedi, con una conoscenza profonda del territorio. Inoltre c’è da dire che questa tecnica probabilmente non risolverebbe il problema attuale, perché fu ideata e sviluppata in un mondo più freddo.

Nelle tue ricerche ti occupi di ecologia e comportamento animale. Quali saranno le conseguenze degli incendi sulla biodiversità e il patrimonio unico di specie animali e vegetali?

La situazione è terribile. Si stima che tra le venti e le cento specie possano perdere il loro habitat, con conseguente estinzione. La perdita di habitat è infatti generalmente la prima causa di estinzione a livello globale. Un piccolo marsupiale, il long-footed potoroo ha perso praticamente tutto il suo areale nell’East Gippsland, nello stato di Victoria. Kangaroo Island è invece bruciata per un terzo e molte specie endemiche dell’isola sono a rischio. Sempre nell’East Gippsland, poco tempo fa fu assegnata un’area come riserva per il greater glider, un piccolo mammifero planatore simile a uno scoiattolo volante, che ora è completamente bruciata. Una stima dell’università di Sidney stima in 480 milioni morti o condizionati in modo diretto dal fuoco. La stima va però considerata per difetto, perché non tiene conto della perdita di areale che pregiudicherà la vita degli animali sopravvissuti. Sono quindi messe a repentaglio le politiche di conservazione adottate dall’Australia negli ultimi anni, che già erano difficoltose a causa della massiccia deforestazione antropica. Negli ultimi duecento anni, l’Australia ha perso il 25% delle foreste pluviali, il 45% della savana e il 30% del Mallee (un ecosistema tipico australiano, caratterizzato da terreno sabbioso, arbusti bassi e spinosi ed eucalipti bassi).

Quali sono le azioni e le richieste dei movimenti ambientalisti?

Extinction Rebellion è il movimento più forte in Australia che convoca le proteste più importanti. Sono organizzati per quartieri o distretti e si coordinano successivamente a livello più alto. Venerdì scorso, 10 gennaio 2020, è stata una giornata densa di cortei, 50 mila persone a Sidney e 30 mila a Melbourne, 300 mila in tutto il paese, numeri molto alti per l’Australia. Al governo, presieduto dal liberale Scott Morrison, si chiede una “climate action” e il complimento delle richieste dell’appello di Extinction Rebellion, cioè la riduzione delle emissioni di gas serra, per arrivare a zero nel 2025. L’altra richiesta a Scott Morrison è di non nascondere l’origine antropica del riscaldamento globale come causa degli incendi e soprattutto l’insostenibilità dello stile di vita australiano. L’Australia è infatti responsabile dell’1.3% delle emissioni mondiali di gas serra, che se è vero che sono poche a livello assoluto (da qui il tentativo di Morrison di deresponsabilizzarsi a fronte di paesi più inquinanti), corrispondono al più alto tasso mondiale pro-capite. Queste emissioni sono dovute principalmente all’utilizzo ed esportazione di gas e carbone altamente inquinante, mercato che ha fruttato all’Australia 46 miliardi di dollari nel solo 2018. Infine si critica il ruolo cruciale negativo avuto dall’Australia nell’ultima conferenza sul clima di Madrid (la Cop25). Infatti, i rappresentanti del governo australiano (insieme a quelli di Brasile e Arabia Saudita) hanno insistito nel minare gli accordi di Parigi (Cop21), chiedendo in particolare la possibilità di utilizzare dei “bonus” per raggiungere artificiosamente gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra.

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