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20 giugno 2020

 

Cluster e focolai: così è tornato l’incubo in Cina

di Federico Giuliani

 

Pechino è entrata in modalità di guerra. Il Sars-CoV-2, non sappiamo come, è riuscito a superare lo speciale cordone di sicurezza piazzato dal governo cinese attorno alla capitale cinese. Adesso, dall’epicentro individuato all’interno del mercato Xinfadi, il virus minaccia di espandersi in tutta la megalopoli.

Alcuni epidemiologi hanno rassicurato l’opinione pubblica e il mondo intero: il picco è già superato è, soprattutto, non ci sarà una seconda Wuhan. Eppure, nei palazzi del potere cinese, a pochi passi dal ground zero del focolaio, Xi Jinping è preoccupatissimo. Già, perché non c’è solo il lato sanitario da mettere in conto, ma anche il danno d’immagine che potrebbe danneggiare Pechino e, di riflesso il Partito comunista cinese nel caso in cui il Covid dovesse diffondersi a macchia d’olio.

 

Il motivo è semplice: Beijing è il centro nevralgico del sistema politico cinese, la città dove si decidono le sorti della Cina, la sede del presidente Xi e del Pcc, il luogo da difendere, a ogni costo e da qualsiasi minaccia, per trasmettere un segnale di forza al mondo intero. In altre parole, Pechino è la cartina al tornasole del Dragone, il termometro che misura la temperatura corporea del Paese.

Insomma, finché il focolaio è a Wuhan, una città di secondo livello e distante dal cuore pechinese, la situazione, pur grave che sia, può essere gestita; ma se lo stesso scenario dovesse presentarsi nella capitale, sarebbe un vero e proprio disastro. E il primo a pagare il carissimo prezzo sarebbe proprio lui, Xi Jinping, seguito dai suoi fedelissimi. Di fronte a una possibile apocalisse, infatti, il popolo perderebbe di colpo la fiducia nel suo leader, mentre il mondo intero sarebbe pronto a farsi beffe del “modello cinese”.

 

 

Infografica di Alberto Bellotto

 

Il ritorno del virus

L’area dove sorge l’enorme mercato Xinfadi, nel distretto meridionale di Fengtai, a una mezz’ora di macchina dalla Città Proibita, è stata letteralmente sigillata. Le aree residenziali attorno alla struttura sono state isolate; isolamento sanitario anche per 29 comunità limitrofe. Nove distretti su undici di Pechino hanno segnalato casi confermati. Gli esperti, dicevamo, hanno spiegato che il peggio è alle spalle. Sarà anche vero che la curva si sta appiattendo, ma il fatto che il Sars-CoV-2 abbia fatto breccia nella Grande muraglia sanitaria cinese ci pone di fronte a un bivio: il sistema di prevenzione cinese ha sbagliato o, molto più probabilmente, è successo qualcosa di inaspettato?

Wu Zunyou, capo epidemiologo presso i Centri cinesi per il controllo e la prevenzione delle malattie, si è soffermato su un aspetto singolare del focolaio: “La maggior parte dei casi infetti trovati sul mercato sono venditori di frutti di mare, seguiti da venditori di manzo e agnello. La nostra analisi iniziale è che il virus ha maggiori probabilità di sopravvivere in acqua e ambienti a bassa temperatura. Tuttavia il motivo della sua comparsa ha bisogno di ulteriori ricerche”.

Certo, il fatto che il focolaio sia stato subito messo sotto controllo “non significa che non ci saranno più infezioni segnalate”, ha aggiunto Wu. Anzi: nei prossimi giorni “vedremo ancora più casi segnalati, ma questo è un processo graduale che rivela il periodo di infezione passato”. Insomma, le nuove infezioni “sono solo sporadiche”. Per quanto riguarda le origini del focolaio, le indagini sono in corso. Due le ipotesi sul tavolo: il virus può essere entrato in Cina attraverso le partite di salmone importate dall’Europa oppure mediante qualche altro alimento. Certo è che il governo è sicuro: il virus viene dall’esterno.

 

I luoghi del nuovo allarme a Pechino

Piazza Tiananmen

 

Stazione ferroviaria

di Pechino

 

Mercato del pesce

di Xinfadi nel distretto

di Fengtai

Mercato nel distretto

di Xicheng chiuso

il 16 giugno

 

Mercato del pesce di

Yuquandong nel distretto

di  Haidian

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Questione di fiducia

In ogni caso a Pechino la tensione è alta. I quasi 22 milioni di abitanti pensavano che ormai, a tre mesi dallo scoppio del contagio di Wuhan, fosse sicuro riporre le mascherine e riprendere la vita di sempre. Il focolaio del mercato di Xinfadi ha invece riportato le lancette del tempo a febbraio, quando i quartieri erano isolati, i volontari presiedevano le strade, gli eventi erano cancellati e le scuole chiuse.

Impensabile, adesso, attuare un lockdown totale, e non solo per l’enorme danno economico che ne deriverebbe. A preoccupare Xi Jinping, arroccato nel complesso Zhongnanhai, è il rischio che la fiducia del popolo cinese nella capacità del governo di gestire la pandemia possa venire meno. Come se non bastasse, a peggiorare una situazione potenzialmente già critica, c’è il fatto che Xinfadi, adesso chiuso, era il più grande mercato all’ingrosso di frutta e verdura della capitale.

Molti negozi, supermercati e ristoranti si rifornivano da quei banchetti, oggi sigillati. I cittadini, temendo un’impennata dei prezzi dei generi alimentari o, peggio, il loro esaurimento, hanno infuocato i social con proteste di ogni tipo. I funzionari della municipalità hanno tuttavia assicurato di aver attuato “differenti misure e differenti canali per assicurare che le necessità quotidiane a Pechino siano garantite”.

Dopo alcune macchie piuttosto imbarazzanti, come i ritardi a Wuhan sulla gestione della crisi sanitaria e la diffida al medico Li Wenliang, poi riabilitato post mortem, il governo cinese era riuscito a farsi perdonare alla grande. D’altronde il piano d’azione adottato dal Dragone per arginare il Covid era presto diventato un marchio di fabbrica, un brand capace di evocare tanto la risolutezza di Xi quanto l’efficienza della sua politica. È vero che Zong Nanshan, uno dei più importanti epidemiologi del Paese, aveva avvisato di una possibile seconda ondata del virus. Ma nessuno si sarebbe mai aspettato che l’epicentro fosse situato a Pechino. Poco importa se i malati sono pochi (meno di duecento da lunedì scorso) e il focolaio è stato circoscritto: una macchia del genere non doveva apparire.

 

L’incubo dei cluster

E pensare che a gennaio la Cina aveva “sacrificato” un’intera provincia, quella dello Hubei, per limitare la diffusione del virus nel resto del Paese. Wuhan, epicentro del contagio, ha sopportato un lockdown durato 76 giorni, dal 23 gennaio all’8 aprile. Eppure, secondo quanto ricostruito da Reuters, ben prima della misura estrema dell’isolamento, il virus si era diffuso in più di 25 aree del Paese. In alcune di queste, pare che il Sars-CoV-2 circolasse già a dicembre 2019.

Per capire quanto possa essere grave il focolaio appena esploso a Pechino, è utile analizzare le drammatiche settimane di gennaio, durante le quali l’agente patogeno sconosciuto ha conquistato praticamente ogni provincia cinese. I sistemi di videosorveglianza presenti in Cina hanno permesso alle autorità di rintracciare ogni singola persona entrata in contatto con i super diffusori o in luoghi sensibili, come ad esempio centri commerciali o mercati locali.

Ma gli effetti del contagio, seppur arginati, sono stati devastanti. Nel giro di poche ore un infetto è stato in grado di contagiare decine di persone. È così che, in poche settimane, in tutta la Cina, si sono creati cluster enormi. Ed è per questo che Xi Jinping non vuole assolutamente che la capitale possa essere teatro di più casi correlati per spazio e tempo e uniti dallo stesso ceppo virale.

 

Esempi di diffusione: il cluster di Tianjin e il signor Wu

Uno dei primi e più grandi cluster registrati lontani da Wuhan è stato localizzato in un centro commerciale della città di Tianjin, a mille chilometri dal capoluogo dello Hubei e a poco meno di un paio di ore di auto dalla capitale del Paese. Nella ricostruzione offerta da Reuters, il 16 gennaio un’impiegata 43enne di un grande magazzino cittadino ha effettuato un breve viaggio in un ingrosso di gioielli di Pechino. Qui la signora è inavvertitamente entrata in contatto con un cliente con la febbre.

Sembrava che non fosse successo niente di spiacevole. Solo che, una volta rientrata a lavoro presso il Tianjin Baodi Baihe, la donna ha notato che due colleghe si erano ammalate. Il 25 gennaio anche lei ha sviluppato la febbre. Tra il 20 e il 24 gennaio, otto dipendenti e 21 clienti che avevano visitato il negozio sono risultati infetti, proprio come 15 familiari, diversi amici e numerosi contatti dei clienti e del personale avevano contratto il virus.

Nel giro di qualche settimana il grande magazzino è diventato un cluster tanto enorme quanto pericoloso. Risultato: attraverso i filmati di sorveglianza i funzionari hanno rintracciato più di 9.200 contatti collegati con il focolaio del negozio. La situazione era critica, visto che, nel frattempo, i clienti si erano spostati in ogni dove, avevano pranzato con le rispettive famiglie e molti di loro avevano continuato a lavorare, interagendo con centinaia di persone. Tra questi vi erano infatti insegnanti, autisti e farmacisti.

Spostiamoci nello Zhejiang. Il 16 gennaio un uomo di 74 anni di Dongyang è entrato in contatto con una persona asintomatica appena rientrata in città dopo un viaggio a Wuhan (una persona che, di lì a pochi giorni, sarebbe risultata positiva, seppur asintomatica). Il signor Wu, questo il nome dato al signore, ha continuato a vivere come se niente fosse. Ha incontrato numerose persone e viaggiato sopra molti bus cittadini per spostarsi da un posto all’altro.

Il 22 gennaio sono apparsi i primi sintomi. Le autorità ritengono che l’anziano abbia trasmesso la malattia ad almeno sette persone durante questo breve lasso di tempo. Non solo: si pensa che il signor Wu abbia diffuso la malattia mentre si trovava in un reparto ospedaliero e che abbia infettato molti dei suoi familiari. Il super diffusore ha dato il via a un circolo vizioso, che ha costretto i sanitari a isolare un gruppo formato da 560 persone.

 

Modalità di guerra

Quelli appena citati sono soltanto due esempi. Per evitare che qualcosa del genere possa verificarsi anche a Pechino – a patto che non sia troppo tardi, nonostante le parole degli esperti – il governo è ricorso a scelte estreme. Oltre 1.200 voli cancellati, decine di migliaia di cittadini in coda, in attesa di effettuare il test della verità, 100mila volontari schierati nelle strade a presidiare ogni quartiere. E ancora: l’immediata rimozione di tre funzionari dai loro incarichi, compreso il direttore del mercato luogo del focolaio.

Chiunque sia passato dal mercato di Xinfadi dal 30 maggio in poi – più o meno 200mila soggetti – deve necessariamente essere testato. Sono tornati i controlli all’ingresso delle unità abitative su chi entra ed esce, 24 ore su 24, e nei luoghi pubblici. Tutto come qualche mese fa: o quasi, perché un altro lockdown sul modello Wuhan, per giunta nella capitale, è semplicemente impensabile.

Intanto l’ufficio di pubblica sicurezza di Pechino  ha vietato l’uscita dalla città per le persone positive al coronavirus, i casi sospetti e i contatti stretti. Il divieto riguarda anche coloro che hanno avuto contatti con il mercato Xinfadi e residenti di quei complessi residenziali ad alto o medio rischio. La capitale continuerà a implementare la quarantena di 14 giorni per le persone che entrano da fuori la Cina, in linea con la risposta di emergenza di livello 2; coloro che rientrano da aree ad alto e medio rischio fuori Pechino non sono autorizzati ad alloggiare in alberghi nella capitale. Una nuova battaglia è appena iniziata.

 

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