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09 gennaio 2020

 

«36 jours de grève, on ne lâche rien». Parigi: 370mila contro la riforma delle pensioni

 

In Francia è il trentaseiesimo giorno di sciopero contro la riforma delle pensioni voluta dal governo Macron.

 

In tutto il paese sono 216 le iniziative e le manifestazioni, oltre al grande corteo di Parigi dove, secondo i sindacati, sono scese in piazza oltre 370mila persone. Numeri molto alti anche a Marsiglia dove si parla di 220mila persone e a Tolosa con oltre 120mila lavoratori e giovani che hanno preso parte alla manifestazione.

A Parigi il corteo, numeroso e stratificato come composizione, ha subito diverse provocazioni poliziesche fin dall'inizio quando le forze dell'ordine hanno tentato di introdursi tra le file dei manifestanti per spezzare in diversi tronconi la manifestazione lanciando lacrimogeni ed utilizzando spray urticante. Anche durante il resto del corteo l'atteggiamento provocatorio della polizia è continuato con diversi i lanci di lacrimogeni indiscriminati nei confronti di chi è sceso in piazza. Verso la fine delle manifestazione in Place Sant'Augustin uno spezzone del corteo è tornato indietro e ha tentato di dirigersi nella zona del palazzi del governo, trovando la polizia a sbarrare le strade. Ne è scaturito un fitto lancio d'oggetti e petardi nei confronti dei cordoni che hanno risposto con dure cariche e gas.

La mobilitazione continua a coinvolgere settori diversificati ed ha visto oggi il blocco totale in contemporanea di tutte le raffinerie, cosa che non succedeva da venti anni. In piazza molti operai, ferrovieri e lavoratori dei trasporti (tra i macchinisti l'adesione allo sciopero è stata del 66,6%), comparto della formazione (secondo i sindacati hanno aderito tra il 40 e il 50% degli insegnanti), disoccupati e giovani studenti. Da alcuni giorni infatti le proteste hanno iniziato a diffondersi anche nel comparto universitario. Oltre il 61% dei francesi secondo i sondaggi trova giustificate le mobilitazioni in corso nel paese contro la riforma. Macron per il momento fa orecchie di mercante e non vuole cedere alle piazze, tenendo un atteggiamento provocatorio anche nei confronti dei sindacati, supportato dai media che cercano di introdurre l'idea di un riflusso delle proteste come già avevano tentato di fare durante il ciclo dei gilet gialli. Gilet gialli che sembrano essere stati un potente catalizzatore della partecipazione a questo processo di lotta in quanto esempio, dimostrando che è possibile mettere in difficoltà la controparte scendendo in piazza e costringerla a fare passi indietro.

La riforma dovrebbe arrivare in Parlamento il 17 febbraio e probabilmente Macron e il suo entourage tenteranno di resistere fino a quella data mantenendo la posizione con la speranza che un'eventuale approvazione della legge possa smontare la mobilitazione. Ma chi è sceso in piazza oggi sembra determinato, nonostante il mese abbondante di sciopero alle spalle, a giocare la partita fino in fondo ed è evidente che nella Francia di oggi la conflittualità sociale si sta sviluppando, in partecipazione e profondità, di ciclo in ciclo.

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http://contropiano.org/

10 Gennaio 2020

 

Bloccare tutto per fermarli. Ovunque…

di Edwy Plenel

giornalista politico e dal 2008 presidente e co-fondatore del sito web di informazione e opinione di Mediapart

Traduzione di Andrea Mencarelli (Potere al Popolo)

Mentre la presidenza di Macron vive il suo “momento thatcheriano”, alla ricerca di una vittoria storica contro i ferrovieri che hanno ancora il potenziale di bloccare il Paese, è dal mondo ferroviario che abbiamo un ricordo di buoni consigli. Entrato a far parte della SNCF come disegnatore industriale, Gébé ha pubblicato le sue prime vignette su La Vie du rail. Tuttavia, dal 1971 al 1974, è stato autore di un fumetto profetico, pubblicato in serie su Politique Hebdo, poi Charlie Mensuel e Charlie Hebdo, e divenuto nel 1973 un film, diretto da Jacques Doillon: L’An 01.

Le sue parole erano tanto semplici quanto radicali: “Blocchiamo tutto”. E la sua prima scena era proprio in una stazione ferroviaria.

Non è un caso che sia il cinema che i fumetti siano ormai popolari tra i giovani della generazione di Greta Thunberg, che un giorno, nel 2018, ha deciso di smettere di andare a scuola per salvare il clima. “Perché”, si chiedeva, “studiare per un futuro che potrebbe presto non esistere più perché nessuno fa niente per preservarlo?”.

A quasi cinquant’anni dalla sua invenzione, la favola de L’An 01 incontra l’urgenza ecologica, il rifiuto del produttivismo, la critica al mercato, il rifiuto del consumo, l’allarme per l’inquinamento, la preoccupazione per l’alienazione, la contestazione dell’oppressione, insomma una rivolta generale e pacifica contro un mondo che distrugge il bene comune e il benessere, la solidarietà e la condivisione, la felicità semplice e la gioia pacifica, la bellezza e la bontà.

Luoghi inesistenti, secondo l’invenzione della parola di Tommaso Moro, le utopie non sono ingenuità ma radicali: un modo per arrivare alla radice delle nostre disgrazie o dei nostri sogni, della causa delle prime e dell’impotenza delle seconde. E se, tutti insieme, bloccassimo tutto per meglio fermarli?

Sì, per arrestare questa corsa al peggio, in cui ci facciamo trascinare da governanti che sono andati a combattere contro la loro stessa società, servendo gli interessi delle minoranze sociali e brutalizzando i diritti sociali fondamentali.

Nato da una spontanea richiesta di uguaglianza di fronte alla tassazione, il movimento dei Gilets Gialli ha messo a nudo la violenza sociale del potere portando ad una repressione poliziesca senza precedenti, sia nella sua brutalità che nella sua impunità.

Lanciata dalle organizzazioni sindacali rappresentative, la mobilitazione contro la riforma delle pensioni conferma l’intransigenza di questo stesso potere, deciso a non cambiare nulla nel suo programma di sistematica messa in discussione delle tutele conquistate per decenni dal mondo del lavoro.

Se vince, non saranno solo i diritti vitali a essere rivisti al ribasso, tagliati, indeboliti, diminuiti – il diritto di vivere ben oltre il lavoro, di sopravvivere nonostante la disoccupazione, di poter mantenere il proprio posto di lavoro, di riuscire a preservare la propria salute.

Più essenzialmente, è una vittoria simbolica che sarà conseguita contro le esplosioni della società di fronte all’ingiustizia, le sue proteste contro le disuguaglianze, la sua resistenza agli abusi di potere che le proteggono e le prolungano. È una vittoria che bloccherà ulteriormente l’ordine stabilito a vantaggio dei privilegiati e dei ricchi.

Dal bunker che protegge le istituzioni monarchiche, assicurandogli il potere personale di cui ha ulteriormente accresciuto l’onnipotenza, Emmanuel Macron guida una controriforma in una marcia forzata il cui programma è stato definito negli anni Settanta dai teorici di un liberalismo autoritario.

Il suo documento di fondazione è stato il testo della Commissione Trilaterale su La crisi della democrazia, sottotitolato “Rapporto sulla governabilità delle democrazie”, uno dei cui autori – Samuel Huntington – ha poi teorizzato lo “Scontro tra civiltà”.

Questo rapporto è un’accusa all’eccesso di democrazia che costituirebbe il suo traboccamento da parte del popolo sovrano e la sua sfida da parte delle dinamiche della società, ed è un appello per una democrazia limitata e ristretta. Una democrazia estinta e dormiente dove il governo è fuori dal controllo di chi lo ha eletto, la sua azione è fuori dalla portata di qualsiasi deliberazione pluralistica. Una democrazia in cui lo Stato sarebbe così posto a distanza dalla volontà generale, senza possibilità di contestazione, in modo da garantire senza imbarazzo la tutela degli interessi economici che si sono impadroniti di essa.

In un’opera pionieristica, La Società ingovernabile (La Fabrique, 2018), il filosofo Grégoire Chamayou ha ricostruito meticolosamente la genealogia di questo liberalismo autoritario in cui uno Stato forte è al servizio di un mercato selvaggio. Sotto questo regime, “la libertà economica, quella dell’individualismo possessivo, non è negoziabile, mentre la libertà politica è facoltativa”, riassume, ricordando i compromessi espliciti fatti da Friedrich Hayek, il principale teorico di questa offensiva reazionaria, con le dittature di Cile, Argentina e Portogallo, così come con il regime dell’apartheid in Sudafrica.

Per Hayek, la libertà del mercato è più importante della libertà politica, e quindi più importante della democrazia. Quello che ha spiegato nel 1978 su Margaret Thatcher è chiaro: “Quando la signora Thatcher dice che la libera scelta deve essere esercitata nel mercato piuttosto che alle urne, ci ricorda semplicemente che il primo tipo di scelta è indispensabile per la libertà individuale, mentre il secondo non lo è: la libera scelta può esistere sotto una dittatura capace di limitarsi, ma non sotto il governo di una democrazia illimitata”. “Preferisco un dittatore liberale a un governo democratico senza liberalismo”, ha aggiunto durante una visita in Cile nel 1981.

A questi cosiddetti liberali non piace la libertà. Quella che chiamano “democrazia illimitata” è semplicemente una democrazia viva e vera: il diritto di controllare i governanti, di renderli responsabili, di organizzarsi, di protestare e di manifestare, di sollevare richieste ignorate, di inventare nuovi orizzonti di emancipazione, ecc… L’unica libertà che difendono è quella egoistica e particolare: quella di arricchirsi, di godere e di possedere.

In altre parole, la libertà appena illustrata dall’oligarca Carlos Ghosn, il deposto boss di Renault-Nissan, libero di fuggire dalla giustizia comune grazie a una fuga pagata da diversi milioni di persone e promosso pertanto come un eroe del loro mondo secessionista.

Al contrario, come dimostra la loro richiesta di una repressione spietata dei movimenti sociali, le libertà della maggioranza sono una minaccia e un pericolo per loro. Perché hanno la possibilità che i loro privilegi e il loro dominio possano un giorno essere messi in discussione.

Il loro Stato, riassume Chamayou, è “uno stato fortezza-debole, forte con alcuni, debole con altri”, forte contro le richieste democratiche di ridistribuzione sociale, debole nel suo rapporto con il mercato, i finanzieri e gli azionisti. Politicamente anti-liberale, poiché cerca di limitare le nostre libertà democratiche e i nostri diritti sociali, questo liberalismo autoritario è “un autoritarismo socialmente asimmetrico”, che si astiene dal toccare l’ordine delle disuguaglianze sociali ma si permette di essere spietatamente repressivo nei confronti di coloro che lo sfidano.

Questo autoritarismo è un progetto sociale che va oltre il semplice abuso di potere da parte dello Stato, di cui la violenza della polizia è l’emblema più evidente. Con il desiderio di rendere irreversibile il suo dominio, il mondo degli affari intende “rendersi ingovernabile per governare meglio gli altri”, dice Grégoire Chamayou.

L’ingovernabilità organizzata dei mercati, la libertà sfrenata degli azionisti, l’incitamento a speculare e ad arricchirsi sono un metodo di governo che generalizza la violenza nei rapporti di lavoro, nella vita aziendale e nella condizione dei dipendenti.

“La politica neoliberista”, spiega il filosofo, “in quanto pratica la deregolamentazione, in particolare del diritto del lavoro, rafforzando il potere del datore di lavoro nel rapporto contrattuale, in quanto rende precari e insicuri i lavoratori, indebolendo il loro equilibrio di potere, riducendo la loro capacità di rifiuto, la loro libertà, in quanto favorisce l’accumulo di ricchezza, approfondendo le disuguaglianze, aggravando così ancora di più le possibilità di sottomissione di ogni tipo, implica un rafforzamento dell’autoritarismo privato. È anche in questo senso che il liberalismo economico è autoritario, in senso sociale e non solo statale”.

Il progetto politico guidato da Emmanuel Macron, che Friedrich Hayek avrebbe potuto ispirare, ci mette collettivamente in balia di una battuta d’arresto duratura delle nostre libertà individuali e dei nostri diritti collettivi. Per non parlare del fatto che, entro il 2022, potrebbe fornire il fondamento per un potere ancora più autoritario.

Con la sua ostinata promozione dell’estrema destra come unica alternativa elettorale, ci espone a nuove violenze, che possono essere accelerate dalla crisi ecologica. Perché devitalizzando la democrazia, disarma la società. E così facendo, rende il peggiore possibile.

Nel suo ultimo libro, Piano B per il pianeta (Actes Sud, 2019), Naomi Klein è allarmata dalla possibilità di un “ecofascismo”, che usa l’emergenza climatica come argomento per promuovere ideologie razziste e suprematiste in una guerra di tutti contro tutti. Perché, come lei stessa sottolinea, “lo sconvolgimento del clima ci sta portando in un campo che è altamente ripugnante per le menti conservatrici: la ridistribuzione della ricchezza, la condivisione delle risorse e la riparazione”.

Pertanto, per sfuggire a questo interrogativo, gli interessi in questione corrono il rischio di accentuare ulteriormente, su scala globale, la loro secessione dal mondo comune, anche sposando ideologie razziste, xenofobe e anti-migranti, in modo da giustificare le loro barricate e i loro privilegi.

Diritti sociali, libertà democratiche, lotte ecologiche, tutto è indivisibile e inseparabile. È insieme che avanzeranno o si ritireranno. La gioiosa profezia de L’An 01 è diventata oggi un’emergenza preoccupante. Se non fermiamo ora un potere che li mette in pericolo, potremmo non essere in grado di difenderli domani.

E come possiamo fare altrimenti se non bloccando tutto? Ovunque. Tutte e tutti insieme.

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