CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 90

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

fonte: OutrasPalavras 

https://francosenia.blogspot.com/http://www.tlaxcala-int.org

https://chiodoantonietta.altervista.org/13/4/2020

 

Bergamo, la strage che i padroni non hanno voluto evitare

di Alba Sidera 
Tradotto da  Franco Senia

 

La zona d'Italia più devastata dalla Covid-19 è un grande polo industriale. Non è mai stata dichiarata zona rossa a causa della pressione dei padroni. Il costo in vite umane è stato catastrofico

 

Italia: cronaca di 18.000 morti stupide

Ci sono immagini che segnano un'epoca, che restano impresse nell'immaginario collettivo di tutto un paese. L'immagine che gli italiani non potranno dimenticare per molti anni, è quella che gli abitanti di Bergamo hanno fotografato dalle loro finestre la notte del 18 marzo. Settanta camion militari hanno attraversato la città in un silenzio tombale, uno dietro l'altro, in una lenta marcia in segno di rispetto: trasportavano cadaveri.


Erano stati portati da altre città, fuori dalla Lombardia, poiché il cimitero, l'obitorio, la chiesa trasformata in un obitorio di emergenza ed il crematorio rimasto in funzione 24 ore al giorno non ce la facevano. L'immagine ha immortalato la portata della tragedia in corso nella regione italiana più colpita dal coronavirus. Il giorno dopo, il paese si è svegliato con la notizia di essere il primo nella lista mondiale dei decessi ufficiali a causa del covid-19. La maggior parte in Lombardia. Ma che cosa ha reso la situazione così drammatica proprio a Bergamo? Cosa è successo in quella regione per far sì che nel mese di marzo del 2020, il numero di morti sia stato del 400% rispetto a quelli dello stesso mese dell'anno precedente? Il 23 febbraio, nella provincia di Bergamo, c'erano stati solo due casi positivi di coronavirus. In una settimana il numero dei contagiati era salito a 220; quasi tutti nella valle del Serio. A Codogno, un'altra città lombarda, dove il primo caso di coronavirus era stato rilevato il 21 febbraio, erano bastati 50 casi positivi per far chiudere la città e dichiararla zona rossa (massimo rischio). Perché non si sono comportati allo stesso modo anche nella valle? 


Perché in quella valle si concentra uno dei poli industriali più importanti d'Italia, e gli imprenditori industriali hanno fatto pressione su tutte le istituzioni per evitare di chiudere gli stabilimenti e perdere soldi. Per quanto incredibile possa sembrare, la regione campione di morte per coronavirus per abitanti di tutt'Italia, e d'Europa, non è mai stata dichiarata Zona Rossa, nonostante lo sconcerto dei sindaci che avevano richiesto tale provvedimento, e di quello dei cittadini, i quali ora esigono che vengano individuati i responsabili. I medici della Val Seriana sono stati i primi a dirlo: e assicurano, impotenti, che se la regione fossa stata dichiarata zona rossa, come consigliavano tutti gli esperti, sarebbero state salvate centina di vite.

 

La storia è alquanto confusa: quelli interessati a mantenere aperte le loro fabbriche, in alcuni casi, sono anche azionisti o soci di cliniche privati. La Lombardia è la regione italiana che meglio rappresenta quello che è un modello di commercializzazione della sanità, ed è stata vittima di un sistema di corruzione su ampia scala, guidato dal suo ex governatore Roberto Formigoni (che ha governato dal 1995 al 2013), che è stato un membro di spicco del partito di Comunione e Liberazione. Apparteneva allo stesso partito di Berlusconi, il quale lo sosteneva in quanto «governatore a vita della Lombardia», ma ha sempre potuto contare sull'appoggio della Lega, la quale governa nella Regione da quando è stato rimosso Formigoni, accusato e condannato pe corruzione in ambito sanitario. Il suo successore, Roberto Maroni, nel 2017 diede inizio ad una riforma della Sanità che ha portato ad ulteriori tagli degli investimenti pubblici, che hanno praticamente abolito i medici di famiglia, sostituendoli con dei «manager».  Inoltre, nei prossimi 5 anni spariranno circa 45.000 medici di base, ma «chi è che va ancora dal suo medico di famiglia?», ha sostenuto, convintamente, nel mese di agosto dello scorso anno, il politico della Lega Giancarlo Giorgetti, allora vice-segretario di Stato del governo Conte-Salvini.
Ufficialmente, l'epidemia nella regione di Bergamo, la cosiddetta Bergamasca, è cominciata la sera di domenica 23 febbraio, anche se i medici di famiglia e e i medici di base - in prima linea nel denunciare la situazione - hanno assicurato che alla fine di dicembre avevano già curato molti casi di polmonite anomala, anche in persone di 40 anni di età. Nell'Ospedale Pesenti Fenaroli, di Alzano Lombardo, un comune di 13.670 abitanti a pochi chilometri da Bergamo, sono risultati positivi i testi del coronavirus su due pazienti ricoverati. Dal momento che erano già stati in contatto con altri pazienti, oltre che con medici e infermieri, la direzione dell'ospedale decide di chiudere le porte. Ma, senza che venisse data alcuna spiegazione, viene riaperto poche ore dopo, senza disinfettare le strutture e senza isolare i pazienti con il Covid-19. Ancora peggio: tutti i lavoratori (medici, infermieri, ecc.) hanno continuato a lavorare senza protezione per un'intera settimana; la maggior parte di loro è rimasta contagiata ed ha finito per diffondere il virus tra la popolazione. Il numero dei contagi si è moltiplicato per tutta la valle. Pertanto l'ospedale è stato così il primo grande focolaio dell'infezione: i pazienti che erano entrati in ospedale per un banale doloro all'anca, sono morti di coronavirus. I sindaci dei due comuni più colpiti della Val di Serio, Nembro e Alzano Lombardo, hanno aspettato ogni giorno, alle 19:00, che arrivasse l'ordine di chiudere la citta, come avevano concordato. 
Era tutto pronto: il regolamento era stato scritto, l'esercito mobilitato, il capo della polizia aveva organizzato i turni di guardia ed erano state già montate le tende. Ma l'ordine non è mai arrivato, e nessuno ha mai saputo loro spiegare perché. Sono arrivate invece molte, molte chiamate dagli imprenditori e dai padroni delle fabbriche della regione, preoccupatissimi di evitare a qualsiasi costo la serrata delle loro attività. Senza nemmeno cercare di nasconderlo. Senza alcun rimorso, il 28 febbraio, in piena emergenza a causa del coronavirus (che in 5 giorni contava nella regione 110 contagiati, andando così completamente fuori controllo), la Confindustria dava inizio a quella che era la sua campagna sui social network, con hashtag  #YesWeWork («#noilavoriamo»). Il presidente della Confindustria della Lombardia, Marco Bonometti, dichiarava ai media: «Bisogna abbassare i toni, bisogna far capire all'opinione pubblica che la situazione sta per essere normalizzata, che la gente può tornare a vivere come prima». Nello stesso giorno, la Confindustria di Bergamo lanciava la propria campagna rivolta agli investitori stranieri per convincerli che lì non stava succedendo niente e che non avrebbero chiuso neanche per scherzo. Lo slogan non lasciava dubbi: «Bergamo non si ferma / Bergamo is running».
Il messaggio del video promozionale rivolto ai soci internazionale era un'assurdità: «In Italia sono stati diagnosticati casi di coronavirus, ma nello stesso modo in cui è avvenuto in altri paese», diceva, minimizzando la situazione. Inoltre, mentiva: «il rischio di infezione è basso». Veniva data ai media la colpa di un presunto allarmismo ingiustificato e, mentre mostravano che gli operai stavano lavorando nelle loro fabbriche, proclamavano vantandosene che tutte le fabbriche avrebbero continuato a rimanere «aperte e a pieno regime, come sempre». 

 

Solo 5 giorni dopo, scoppierà l'enorme epidemia di contagi e morti che ha finito per essere la più grave d'Italia e d'Europa. Ma la campagna non è stata revocata, e eppure hanno mai pensato di chiudere le fabbriche. La Confindustria di Bergamo riunisce 1.200 imprese, che impiegano più di 80 mila lavoratori. Tutti quanti sono rimasti esposti al virus, sono stati obbligati a continuare a lavorare, in gran parte senza le misure appropriate - in gruppo, senza distanze di sicurezza e senza materiali protettivi - mettendo a rischio le loro vite e quelle di tutte le persone attorno. Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, del PD, si è unito alle proteste contro la chiusura della città e, il 1° marzo, con lo slogan «Bergamo non si ferma» invitava le persone a riempire i negozi del centro. Poco dopo, di fronte a quella che era l'evidenza della catastrofe, se ne pentiva e riconosceva di aver messo in atto delle misure troppo deboli, con l'intenzione di non pregiudicare l'attività economica delle grandi aziende della regione. L'8 marzo, il numero ufficiale di contagi nella regione bergamasca erano passati, in una settimana, da 220 a 997. La sera, il governo ha fatto trapelare la notizia che intendeva isolare la Lombardia. Dopo ore di caos, durante le quali molte persone abbandonavano Milano in una gigantesca fuga, all'alba, il presidente del Consiglio Giuseppe Conteappariva in una confusa conferenza stampa su Facebook, annunciando il decreto. Non era quello che si aspettavano i sindaci della Val di Serio: niente zona rossa, ma semmai arancione. Vale a dire, sarebbero stati limitati gli ingressi e le uscite dai comuni, ma tutti avrebbero potuto continuare ad andare sul proprio posto di lavoro. Dopo due giorni, il confinamento veniva esteso a tutta l'Italia. E nulla cambiava nella regione bergamasca, dove i contagi continuavano a crescere allo stesso inarrestabile ritmo delle sue fabbriche che continuavano a funzionare a tutto vapore. 


«Quando nella regione tutti, soprattutto a Nembro e ad Alzano Lombardo, erano sicuri che avrebbero decretato la zona rossa, ci sono state alcune importanti imprese che hanno fatto pressione per ritardarla il più possibile», racconta Andrea Agazzi, segretario generale della FIOM di Bergamo, nel programma Report sul canale RAI. E aggiunge: «La Confindustria ha grosse colpe, ma è il governo che ha scelto da che parte stare». I contagi e i decessi sono aumentati, incessantemente, soprattutto nelle regioni industriali della Lombardia localizzate tra Bergamo e Brescia. Esattamente un mese dopo il primo caso ufficiale di coronavirus in Italia, sabato 21 marzo è stato raggiunto il triste record di quasi 800 morti al giorno. I governatori di Lombardia e Piemonte - l'altro grande polo industriale - dichiaravano che la situazione era insostenibile e che era necessario interrompere le attività produttive. Conte, che fino a quel momento era stato contrario ai provvedimenti, appariva in TV quella notte stessa piuttosto turbato, ed affermava che ora sì, sarebbero state fermate «tutte le attività economiche produttive non essenziali». La Confindustria reagiva immediatamente e dava inizio ad un'azione offensiva in modo da fare pressione sul governo. «Non possiamo chiudere tutte le attività non essenziali», scrivevano in una lettera al premier, illustrando quali erano le loro richieste. Gli industriali ottenevano in tal modo che il decreto richiedesse 24 ore per essere approvato, e che Conte accettasse quelle che erano le loro condizioni. Di fatto, il governo aveva scelto da che parte stare, e non sarebbe stata la parte dei lavoratori. I sindacati, in blocco, scendevano sul sentiero di guerra e minacciavano uno sciopero generale nel caso non si fosse proceduto alla chiusura reale delle attività produttive non essenziali. La Confindustria era riuscita ad inserire nella lista delle attività che potevano continuare a funzionare, molte di quelle che non erano affatto di prima necessità, come l'industria delle armi e delle munizioni. Inoltre, avevano incluso una sorta di clausola che consentiva in pratica a qualsiasi impresa, che dichiarava di essere «funzionale» per una qualche attività economica essenziale, di poter rimanere aperta. Questo ha fatto sì che a Brescia, l'altra provincia lombarda distrutta dal coronavirus, più di 600 aziende escluse dalla lista delle essenziali, avviassero le procedure per poter continuare a lavorare.

 

«Non capisco perché mai i sindacati vogliano uno sciopero. Il decreto è già abbastanza ristretto: che cos'altro dovremmo fare?», dichiarava il poco empatico presidente della Confindustria Vincenzo Boccia. E aggiungeva: «Stiamo già perdendo 100 miliardi di euro al mese. Non fermare l'economia è un bene per tutto il paese». Annamaria Furlan, segretaria generale della CISL ha cercato di spiegargli: «Sono sindacalista da 40 anni e non ho mai chiesto la chiusura di una fabbrica, ma qui ora è la vita delle persone ad essere a rischio». Gli operai delle fabbriche hanno cominciato a protestare e a scioperare, mentre i sindacati negoziavano con il governo, il quale alla fine ci ha ripensato. Dalla lista di più di 80 «essenziali» sono state eliminate alcune attività, come l'industria degli armamenti o i call center che vendono telefonicamente offerte non richieste. È stata fatta anche una restrizione per l'industria petrolchimica. Inoltre, è stato convenuto che l'autocertificazione non sarebbe bastata ad un'impresa per poter essere considerata funzionale per le attività essenziali, ed è stato preso l'impegno di proteggere il diritto alla salute di quei lavoratori rimasti a lavorare nelle fabbriche. Ciò nonostante, nel decreto rimangono ancora alcuni punti ambigui, ed esiste una zona grigia che consente a molte fabbriche di rimanere aperte. Allo stesso modo, molti operai continuano a lavorare senza distanza di sicurezza e senza un adeguato materiale protettivo. Fino al 23 marzo, quando i contagi ufficiali nella regione erano già arrivati alla cifra di 6.500 le fabbriche della regione bergamasca hanno continuato praticamente a rimanere tutte aperte. Una settimana dopo, il 30 marzo, nonostante il decreto di chiusura di «tutte le attività produttive non essenziali», restavano aperte nella regione ancora 1.800 fabbriche, e 8.670 contagiati.

 

Passiamo a dare i nomi delle fabbriche che non hanno voluto chiudere. Una delle aziende della regione è Tenaris, leader mondiale nella produzione di tubi e servizi per la produzione di petroli e gas, con una fatturato di 7,3 milioni di dollari e con sede legale in Lussemburgo. Impiega 1.700 operai in quella che è la sua fabbrica nella regione bergamasca, e appartiene alla famiglia Rocca, con Gianfelice Rocca, l'ottavo uomo più ricco d'Italia. Nella provincia di Bergamo, così come in tutta la Lombardia, le assicurazioni sanitarie private sono molto efficienti. È dimostrato che metà dei servizi sanitari passano per le mai dei privati. I due più importanti ospedali privati della regione, che fatturano 15 miliardi di euro l'anno ciascuno, appartengono al gruppo San Donato - il cui presidente è niente meno che il vice primo ministro italiano Angelino Alfano, ex successore di Berlusconi - e al gruppo Humanitas. Il presidente di Humanitas è Gianfelice Rocca, che è anche proprietario della Tenaris, industria che non ha voluto mandare a casa i suoi lavoratori. Fino all'8 marzo, la sanità privata bergamasca non è stata attivata per l'emergenza del coronavirus, quando, per decreto, tutti i servizi non urgenti hanno dovuto essere rinviati. Solo allora si è cominciato a fare spazio ai pazienti con il covid-19. L'altra grande impresa che ha fabbriche nella regione di Bergamo, si trova a Brembo. Appartiene alla potente famiglia Bombassei, anch'essa impegnata in politica: Alberto, il figlio del fondatore, è stato deputato per Scelta Civica, il partito di Mario Monti. Nelle sue fabbriche del bergamasco, ci sono 3.000 operai che producono freni per auto. Fattura 2,6 miliardi di euro. Non ha voluto chiudere. La Valle del Serio è stata industrializzata in gran parte oltre 100 anni fa delle aziende svizzere. Ecco perché la presenza di fabbriche legate alla Svizzera rimane importante. L'altra grande impresa che ha più di 6.000 lavoratori in Italia, più di 850 nella regione, è ABB, con capitali svizzero e svedese. Leader nella robotica, fattura 2 miliardidi euro. Il 30 marzo, in tutta normalità, era ancora aperta. Persico, impresa italiana che produce componenti per auto, con 400 operai e 159 miliardi di fatturato, ha sede a Nembro, il comune che in Italia ha avuto il maggior numero di morti per covid-19 per abitante. Pierino Persico, il proprietario, è stato uno di quelli che si è opposto più degli altri a dichiarare zona rossa la città. A Nembro, nel marzo del 2019 sono morte 14 persone. Nel medesimo mese di quest'anno i morti sono stati 123 (un aumento del 750%). E anche così, i contagiati ufficiali sono solo 200. Ad Alzano Lombardo, nel marzo del 2019, morirono 9 persone; in questo marzo, 101.Nella città di Bergamo (120.000 abitanti) il numero dei morti è stato di 553, mentre nel marzo del 20169, furono 125. I dati sui contagiati non sono affidabili in quanto non vengono fatti i test e la Protezione Civile italiana - che effettua il riconteggio - avverte sul fatto che i numeri devono essere moltiplicati almeno per dieci. Secondo uno studio pubblicato dal Giornale di Brescia, nella provincia lombarda la cifra dei contagiati sarebbe 20 volte superiore al dato ufficiale, che corrisponde a circa il 15% della popolazione. E la stessa cosa con il numero di decessi. Secondo questo studio, sarebbero il doppio di quelli ufficiali, vale a dire, tremila solo nella provincia di Brescia. La mancanza di test - sia sui vivi che sui morti - rende impossibile fare un conteggio affidabile. Quello che sappiamo è che l'Italia è il paese con più morti per il covid-19 nel mondo, circa 18.000, e la maggior parte sono della zona del nord industriale. 

 

Ora, di fronte a migliaia di cadaveri e ad una popolazione che comincia a trasformare in rabbia quello che è il proprio dolore, vediamo che cercano tutti di fuggire dalle proprie responsabilità. Il governatore della Lombardia, il leghista Attilio Fontana, accusa il governo e assicura che non è stato più rigoroso perché non glielo hanno lasciato fare. In realtà, se avesse voluto, avrebbe potuto esserlo, come lo sono stati i governatori dell'Emilia Romagna, del Lazio e della Campania, che hanno decretato nelle loro regioni delle aree rosse. La verità è che nessuna autorità è stata all'altezza, tranne i sindaci dei piccoli centri, i quali sono stati gli unici che hanno ammesso - e hanno denunciato pubblicamente - le pressioni da parte degli industriali che li hanno tormentati facendo uso delle loro conoscenze per tentare in tutti i modi di evitare o rimandare la chiusura delle fabbriche. Ora, a partire da una Bergamo ferita e ancora sotto shock, i cittadini cominciano ad organizzarsi per chiedere che vengano chiariti i fatti e che, quanto meno, qualcuno si assuma la responsabilità di aver permesso che gli interessi economici prevalessero sulla salute - o, per meglio dire, sulla vita - dei lavoratori di Bergamo. Di cui molti sono tra l'altro addirittura precari.

 

top