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4 Mag 2020

 

I rischi della “guerra totale”

di Stefano Silvestri

 

Per quarant’anni la Nato ha combattuto una guerra totale con il blocco sovietico, sempre mantenendo fermo il punto che eravamo in pace. Di più, mentre molti governi sostenevano la dottrina strategica secondo cui il possesso di armi nucleari serviva a dissuadere gli avversari dall’impiego (o dalla minaccia di impiegare) le loro armi nucleari, la dottrina della Nato invece ha sempre sostenuto che tutto il nostro arsenale, convenzionale e nucleare, serve a dissuadere la guerra stessa.

 

Il vecchio scenario strategico
Eppure la Guerra Fredda è stata combattuta in moltissimi modi diversi e su una grande varietà di fronti (compresi molti campi di battaglia, perlopiù lontani dal territorio coperto formalmente dalle garanzie della Nato), ha fatto molti milioni di morti, forse 25, e ha avuto se non proprio un vincitore quanto meno uno sconfitto, l’Urss.

In questo lungo periodo di pace, abbiamo combattuto una durissima guerra ideologica (tra sistemi comunisti e liberaldemocratici, tra economia di mercato e economia pianificata, tra “Occidente” e “Oriente”, ma anche tra Nord e Sud, tra “allineati” e “non allineati”) o anche guerre civili, di decolonizzazione o tra rivali regionali. La Nato e il Patto di Varsavia hanno mantenuto in tutto questo periodo le loro forze militari in una condizione di altissima prontezza operativa: non solo l’equilibrio nucleare richiedeva uno stato di allarme permanente, ma due giganteschi schieramenti convenzionali erano pronti a scontrarsi in qualsiasi momento.

Era la guerra totale in tempo di pace, ed era riconosciuta e accettata come tale, per cui non ci si stupiva più di tanto per le operazioni di spionaggio, disinformazione, inganno, furto di dati sensibili, restrizioni alla circolazione di dati, informazioni o tecnologie, tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica o delle forze politiche, che rientravano in questa logica di scontro.

Questa logica è entrata in crisi dopo il 1989, con la fine del Patto di Varsavia e la frammentazione dell’Unione Sovietica. Il sistema occidentale di mercato e liberal-democratico appariva padrone del campo. Per cui tutti i nostri Paesi hanno cominciato a smobilitare, sia riducendo i bilanci e le forze militari, sia soprattutto abbandonando la veglia permanente della guerra totale.

 

Il nuovo scenario strategico
Sono bastati pochi anni, un terribile attentato terroristico negli Stati Uniti e le guerre in Iraq e Afghanistan per dimostrarci che la guerra nella pace non era affatto terminata, ma aveva solo mutato d’aspetto. Il vecchio sistema bipolare è divenuto multipolare mentre la globalizzazione ha compiuto un deciso balzo in avanti. Manca però il vecchio fattore d’ordine e di mobilitazione costituito dal confronto ideologico.

L’ideologia “occidentale” è in crisi, ma non c’è una precisa ideologia alternativa, bensì un insieme di residui ideologici disparati e sconnessi, tra cui il vecchio comunismo in versione neo-capitalista cinese, religioni tradizionali in salsa estremista e dosi sempre più massicce di nazionalismo e persino razzismo. La frammentazione ideologica diviene anche frammentazione politica e si aggiunge alla multipolarità e alle frammentazioni regionali per rendere più improbabile una risposta solidale e coesa del sistema occidentale sotto attacco. Manca il fattore unificante per cui, persino quando emergono minacce chiaramente globali, come l’attuale pandemia, le risposte sono sconnesse e differenziate, a tutto scapito della sicurezza di ognuno.

In questa situazione, il rischio di una nuova guerra mondiale generalizzata non è affatto scomparso, ma sembra, almeno per ora, bloccato dal fatto che nessuno ancora è in grado di sfidare apertamente gli Stati Uniti, per cui le numerose potenze esistenti, in particolare Russia e Cina, non affrontano direttamente l’assetto degli equilibri globali.

La guerra assume la forma di scontri indiretti, marginali, ibridi, caratterizzati tra l’altro dal ricorso al terrorismo, dalla sponsorizzazione di guerre civili, dal moltiplicarsi di piccole provocazioni, dall’uso diffuso della propaganda e della disinformazione. Negli ultimi anni però il processo di disgregazione dell’ordine internazionale si è accelerato, arrivando a infrangere la barriera delle competizioni territoriali, con relativa modifica dei confini, dai Balcani alla Crimea, e, in modo più coperto, alla Siria e alla Libia.

 

Nuove tattiche della “guerra totale”
Nel frattempo, rimaniamo in una situazione di incertezza, una fase “sperimentale”durante la quale vengono testate le opportunità offerte dalle nuove tecnologie cyber, alla scoperta di nuove vulnerabilità e di come possano condizionare le scelte dei maggiori attori internazionali. Per quanto le capacità e gli equilibri in campo militare mantengano la loro fondamentale importanza, l’attenzione si concentra piuttosto sui comportamenti politici, sulle opinioni pubbliche e sulle esigenze, vulnerabilità o disfunzioni della società civile nel suo complesso: dalle fake news all’uso distorto dei social network, passando per gli attacchi contro settori dell’amministrazione pubblica, è tutto il sistema sociale che viene continuamente sottoposto a tensioni distruttive che ne ricercano il collasso.

Le nuove tattiche sono quelle della disinformazione, ma anche dell’inganno e soprattutto della destabilizzazione. Esse preparano la strada per raggiungere, al momento voluto, altri obiettivi quali la crisi o il collasso sistemico, la coercizione o la distruzione. È così che il significato di “guerra totale” assume una nuova profondità ed è a questo che dobbiamo prepararci.

 

Questo articolo è il quindicesimo di una serie dedicata a una riflessione sul Covid-19 e la sicurezza internazionale, aperta da Vincenzo Camporini e Michele Nones.

 

 

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