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1 giugno 2020

                       

Il Coronavirus ha cambiato anche la Nato

di Fulvio Scaglione

 

Non si può dire che Jens Stoltenberg abbia perso tempo. Con la pandemia ancora intenta a fare vittime in Spagna, Regno Unito, Italia e Russia, il norvegese che è segretario generale della Nato dal 2014 si è affrettato ad annunciare la necessità di rivedere e aggiornare i programmi fin qui tracciati e, anzi, avviare una “strategia post-Covid” che dovrà impegnare l’Alleanza per gli anni a venire. Il che non lascia molto sperare per una distensione in Europa.

 

Se volessimo sintetizzare al massimo il pensiero di Stoltenberg, potremmo forse provare con lo slogan “più virus, più armi”. Ma andiamo con ordine. La premessa è che l’irruzione del virus ha causato e sta causando gravi danni soprattutto in quello che Stoltenberg ha definito “il tallone d’Achille” della Nato, ovvero i Paesi dell’Europa dell’Est più esposti nei confronti della Russia. La pandemia ha messo sotto stress i sistemi sanitari, con le conseguenti e inevitabili turbolenze politiche. Ma soprattutto ha scosso fino alle radici i sistemi economici, che in più di un caso già non erano particolarmente robusti. In questo modo, argomentano i vertici Nato, l’emergenza sanitaria rischia di trasformarsi in un’emergenza della difesa e della sicurezza, perché Cina e Russia stanno cercando di approfittare dell’occasione per minare gli equilibri dei Paesi europei che aderiscono all’Allenza.

 

Certo, Stoltenberg ha in mente il tema di cui si parla anche in Italia, cioè quello della “guerra ibrida” e delle interferenze informatiche. Tanto da chiedere una revisione delle strategie in proposito impostate nel 2015 e un miglioramento delle tattiche delineate nel 2018, quando i leader dei 29 Paesi dell’Alleanza decisero di costituire, all’interno delle forze Nato, una squadra di pronto intervento da mettere a disposizione dei Paesi che sentissero bisogno di assistenza. Ma l’attenzione va ad aspetti più concreti e “materiali”. Della Cina si teme la penetrazione economica (condotta soprattutto tramite investimenti diretti) nell’area che circonda il Mar Nero, decisiva per il progetto cinese della Nuova Via della Seta. Della Russia (definita “revanscista”), invece, fa paura il riarmo sul Baltico e a Kaliningrad e il controllo della Crimea. Le attività dell’una e dell’altra sono ugualmente definite “sovversive”.

Il pericolo viene da Est, dunque. Definita la premessa, Stoltenberg passa a fare la lista della spesa. In primo luogo, la Nato dovrebbe smettere di vedersi divisa in “fianco Est”, “fianco Sud” e così via. La Nato, dice il segretario generale, deve proporsi come un blocco unico, omogeneo, privo di divisioni o differenze interne. Proprio come fanno la Cina e la Russia.

Secondo: i Paesi dell’Est europeo devono modernizzare i propri apparati di difesa. In due modi. Il primo è dismettere i vecchi arsenali ormai obsoleti, spesso risalenti almeno in parte all’epoca dell’Urss. In sostanza, devono comprare armi nuove. Il secondo è integrare le proprie infrastrutture nella rete di risposta rapida almeno in parte già predisposta dalla Nato. Riecheggia qui una richiesta che da qualche anno aleggia sui Paesi europei, ai quali si chiede di modificare, a volte anche in profondità, la rete di autostrade, ferrovie, aeroporti e comunicazioni per facilitare lo spostamento d’urgenza di materiali militari verso il fronte Est. Operazione che, ovviamente, richiederebbe investimenti massicci.

Terzo: tutti i Paesi dell’Alleanza devono arrivare il più in fretta possibile a quel 2% del Pil in spese per la Difesa che fu stabilito come obiettivo comune nel 2014 e che finora è stato raggiunto solo dagli Usa (3,5%), dalla Grecia (2,27%), dall’Estonia (2,14%), dal Regno Unito (2,10%) e dalla Lettonia (2%). L’obiezione a questa richiesta era prevedibile: come si può immaginare di spendere di più in un periodo di crisi economica da virus? La risposta di Stoltenberg è stata: proprio perché la crisi economica da virus rischia di trasformarsi in una crisi della sicurezza, bisogna spendere di più per la difesa. Chiaro,no?

È una visione lucida, quella di Stoltenberg, che certamente riflette gli umori di molti Paesi europei ed extraeuropei. Solo, però, all’interno di una visione del mondo che vede l’Occidente assediato dalla Cina, che va in caccia della supremazia economica e tecnologica, e dalla Russia addirittura minacciato di invasione militare.

Resta ora da vedere come reagiranno all’appello Nato (più grinta, più armi, più spese) i Paesi europei. In particolare Francia e Germania. La prima guidata da Emmanuel Macron, che sogna l’esercito europeo e ha già dichiarato la “morte cerebrale” della Nato. La seconda ancora retta da Angela Merkel, accusata da Donald Trump di non voler spendere per la difesa comune e di essere quindi una sabotatrice dall’interno della Nato. Il tutto mentre il confronto tra Usa e Russia sta ponendo all’Europa drammatici problemi di posizionamento strategico. La disdetta del Trattato Inf (firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov) ha tolto il bando ai missili nucleari a breve e medio raggio (da 500 a 5.500 chilometri) e quella del Trattato Open Skies ha reso meno sicuri i cieli. Ciò significa che l’Europa sta rapidamente tornando a essere un potenziale campo di battaglia. È questo il quadro in cui va analizzata e giudicata la chiamata alle armi di Stoltenberg.

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