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mar 11, 2020

 

Palestina, il gatto e il topo e i bambini in trappola

di Antonietta Chiodo

 

Si dice che gli incubi peggiori si muovano silenziosi nel buio e indossino divise militari sfuggendo con passi leggeri lungo l’asfalto.  Questa notte nel villaggio neanche il suono del motore del blindato distrae. Il mezzo resta fermo nella notte accanto ad un lampione dalla luce fioca, l’uomo è in assetto di guardia e ad ogni suo movimento sembra conti i passi, tre avanti, uno di lato e di nuovo tre indietro, senza mai spostare la visuale dalle case, con il mitra  sotto braccio e la canna tenuta ad altezza d’uomo pronta ad interrompere la quiete. Neanche una mosca vola, il silenzio sembra quasi chieda di essere spezzato con un boato, un grido o con un lamento, mentre da dietro una tenda un bambino, uno dei tanti, grazie al suo telefono cellulare riprende la scena. Resta attento a non fare il minimo rumore e a tenere la mano ferma sperando che nessuno possa vederlo. Questo bambino ha paura, paura di quello che si troverà a documentare inconsapevolmente, il militare abbassa il mitra e si avvicina al portellone aprendolo con estrema facilità senza fare il minimo rumore. Dal buio di una strada che scompare dietro l’angolo di una grande casa bianca ne appaiono improvvisamente altri due a passo spedito, tenendo sottobraccio un ragazzino ammanettato che cerca di stare al ritmo del passo, lo spingono all’ interno dell’automezzo abbassando il capo del minore con il palmo della mano e pochi secondi dopo il portellone sul retro si chiude violentemente.

Come gatti nella notte si muovono leggeri, col cenno di un braccio uno di loro indica ad una seconda pattuglia poco distante da loro che è tutto a posto, il silenzio si scioglie sotto il rombo dei motori e scompaiono lungo le strade asfaltate dileguandosi tra le curve, portando via un altro frammento di libertà, una scheggia di vita di poco più di tredici anni. In West Bank, Palestina, ciò che può sembrare la trama di un film d’azione è in realtà all’ordine del giorno, i bambini sono tra i primi a cadere tra le grinfie dei militari israeliani senza una formale accusa ed una logica precisa. Questa notte è toccato a lui, domani potrà essere la mia sorte, pensano tutti qui. Il progetto de la Pace dei Bimbi ha scelto un villaggio tra Betlemme e Hebron, dove le incursioni ed i rapimenti a danno di bambini sono cronaca comune.  

Per  due mesi ci siamo riuniti e scritto storie inventate da noi, con il limite iniziale di questi bambini di non sentirsi liberi e con la paura di poter essere giudicati, la mediazione del loro insegnante Omar si è rivelata fondamentale, trovarsi infatti di fronte ad una giornalista in un primo momento è stato un gioco forza tra la voglia di fidarsi e l’impossibilità di poterlo fare davvero. I giorni sono passati ed i loro sorrisi hanno cominciato a prendere vita, come quello del piccolo esile Raiyed di cui sono venuta a conoscenza pochi giorni fa del suo arresto privo di un reale capo di accusa, vedendosi così trascinato via  da casa sua e strappato dalle braccia della sua famiglia. Rayied come tanti altri ha passato 24 ore in carcere con alle spalle l’unica colpa di avere il cognome della famiglia legato ad un passato nella resistenza, ricordo che durante i nostri incontri il bambino di soli tredici anni raccontava di stelle ed indimenticabile per me ancora oggi la sua risata mentre immaginava una storia fantastica che narrava di una luce azzurra che lo avrebbe trasportato su di un altro pianeta. Un pianeta di pace e di animali magici. Molti potranno pensare che sia stato fortunato in confronto ad altri coetanei uccisi perché colpevoli di avere lanciato una pietra contro militari armati di tutto punto o di altri prigionieri ancora oggi in carcere provenienti dal villaggio di Tqou, infatti i prigionieri tra minori ed adulti salgono così a 40.

Ma Raiyed sa bene che non sarà l’unico suo viaggio in carcere, che ci saranno molte altre visite come questa nel corso della sua vita, perché distruggere psicologicamente un bambino obbligandolo a vivere nella paura sappiamo bene risulta più letale di qualsiasi pallottola. Durante il mio soggiorno non sono stati rari i momenti in cui con il maestro Omar ci siamo visti costretti ad utilizzare strade di fortuna a causa dei blocchi intorno al villaggio per il lancio di una o tre pietre da sotto l’ombra degli ulivi che circondano le case. Tenuti come topi in gabbia, mentre i gatti subdoli e protetti dalla loro  illegalità umanitaria giocano a dadi con queste vite e sentire la loro paura alimenta questo bisogno di potere ed ingiustizia.

Racconta privatamente un uomo di nome Shraeh che solo in questi ultimi giorni sono stati prelevati dalle proprie abitazioni tre bambini tra gli undici e i tredici anni, narra inoltre  del fratello che si trova ancora oggi nelle carceri israeliane dopo 16 anni senza essere riuscito ad ottenere il permesso di visita familiare. Un innegabile diritto che puo’ materializzarsi nel semplice gesto di poter osservare i suoi occhi e potergli così sorridere o verificare come sarebbe giusto in qualsiasi paese democratico le sue condizioni di salute.

Vi sono luoghi nel mondo più colpiti di altri ma spesso qui i ragazzini vengono tacciati per la loro poca attenzione nel tutelare la propria vita, sembra quindi normale immaginare un militare infierire con dei proiettili nel petto di un adolescente per il lancio di una pietra, sentire parole di supporto ai soldati delineano personalmente ad oggi la tragica fine dei diritti umani. Dovremmo invece domandarci come questi ultimi, nati già nell’antica Roma con il nome di Leggi Naturali siano realmente mai stati applicati… siamo in pieno 2017 ed il mondo ancora si prodiga a cercare di comprendere come mettere in moto la macchina umanitaria perché ogni uomo abbia gli stessi autentici diritti, a mio parere ciò potrà solamente condurci ad una risposta, che il mondo intero ha scelto la globalizzazione sostituendo così il denaro al reale valore della vita e dell’innocenza.

 

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