https://www.lintellettualedissidente.it/
24 Febbraio

Cuore di tenebra

La morte dell’Ambasciatore Attanasio svela il dramma del Congo, terra martoriata, un incubo lì da oltre un secolo. Ne hanno scritto, con varia intensità, in tanti: da Conrad a Conan Doyle, da Gide a Pietro Savorgnan de Brazzà, il fondatore di Brazzaville 

Il simbolo del Congo è l’Arcade du Cinquantenaire a Bruxelles. Commissionato da Leopoldo II nel 1880 per onorare i cinquant’anni dalla rivoluzione belga, fu realizzato nel 1905: trionfale è l’epiteto che gli calza a pennello. Che il simbolo dell’emancipazione del Belgio dal Regno Unito dei Paesi Bassi sia realizzato soggiogando uno dei paesi più ricchi dell’Africa oscura, è un paradosso crudele ed esemplare. “I profitti del Congo vennero usati per lanciare una grandiosa politica di opere pubbliche e di riqualificazione urbana. In Belgio, naturalmente. La magnifica Arcade du Cinquantenaire a Bruxelles, il famoso museo Tervuren, ampliamenti del palazzo reale, lavori pubblici a Ostenda, vari piani urbanistici: tutto fu finanziato dallo Stato libero del Congo” (John Reader, Africa. Biografia di un continente, Mondadori, 2001). Se oggi in Congo si scava il coltan, allora era necessario per la gomma. Furono gli pneumatici a fare la fortuna di Leopoldo II, che si gettò in Congo con la fame dei re storditi dal tedio occidentale; razzia sistematica, ratificata dalla Conferenza di Berlino del 1884 nel sistema della laida spartizione europea del ‘continente nero’. Prima per le biciclette, poi per le automobili, gli pneumatici – brevettati da Edouard Michelin, maneggiati da John Dunlop, prodotti industrialmente da Charles Goodyear – mutarono la locomozione europea, le fortune di Leopoldo e i destini dello Stato Libero del Congo. Il lattice da cui si realizzava la gomma proveniva da alberi diffusi nelle foreste equatoriali: lo sfruttamento fu miliare, millimetrico, letale. Il Belgio cominciò a vendere concessioni, incassando; i civili furono cooptati in massa, violati, massacrati. Il giornalista britannico Edmond Morel documentò come avveniva la ricerca degli alberi per la gomma. A chi non ricavava materiale sufficiente, venivano tagliate le mani. “Fa gelare il sangue vedere i soldati tornare con le mani degli uccisi, e trovare le mani di bambini piccoli fra quelle più grandi, prova della loro tracotanza… La gomma che viene da questo distretto è costata centinaia di vite e le scene cui ho assistito, senza poter far nulla per aiutare gli oppressi, sono state tali da farmi quasi desiderare di essere morto… Il traffico della gomma gronda sangue”, scrive Morel al “Times”.

Nel 1890, l’anno in cui scoppia il boom della gomma e Leopoldo II comincia a fare cassa, Joseph Conrad, a 32 anni, viene ingaggiato come capitano del “Roi des Belges”, un vaporetto che viaggia sul fiume Congo. Conrad era ormai un uomo fuori dal tempo, elegantemente inquieto: nel 1888 aveva compiuto l’ultimo grande viaggio tra Singapore, Australia, Mauritius; capitano di velieri, l’era dei grossi piroscafi lo tagliava fuori dagli ingaggi importanti. Tuttavia, voleva chiudere con l’Africa, che ancora manca nel suo giro del mondo in barca, che sogna. Nel frattempo, appunta Almayer’s Folly, il primo romanzo, che sarà pubblicato nel 1895. A smuovere la palude quotidiana sono i buoni uffici di Marguerite Poradowska, antica parente di Conrad, che abita a Bruxelles. La signora, da poco vedova, brillante, con il gusto per la scrittura, comincia a mobilitare il gran gala delle sue conoscenze: il 7 maggio del 1890 Conrad firma un contratto con la Société Anonyme Belge pour le Commerce de Haut-Congo; il 12 giugno parte da Bordeaux per Boma, il 2 agosto è a Kinshasa. Conrad deve sostituire, alla guida del vaporetto, sul magnetico Congo, un capitano belga, Johannes Freiesleben, ammazzato dagli indigeni. Si parla di una uccisione rituale, sviscerate le interiora, divorate le parti nobili, vitali.

Il viaggio non va secondo i piani di Conrad: dopo due mesi di comando del battello, tornato a Kinshasa, è affiancato e infine sostituito da un altro comandante, Alexandre Delcommune, belga. L’obbiettivo di Delcommune è svelato: invadere la regione del Katanga – che diventerà dominio belga nel 1891 –, strategica per i giacimenti minerari, prima che vi mettano piede i britannici. La presenza di Conrad, capitano con passaporto britannico, è di troppo. È Conrad, più che altro, a capire di essere durato troppo: abbandona la nave, arma una canoa, rientra a Kinshasa, e da lì, dopo essersi preso la malaria, il 4 dicembre del 1890, rientra in Europa. Che Dag Hammarskjöld, segretario generale delle Nazioni Unite, sia morto in un misterioso incidente aereo il 18 settembre del 1961 proprio mentre si dirigeva in Katanga illividisce i segni, conferisce un ulteriore simbolismo al Congo, il cuore oscuro dell’uomo, il luogo in cui convergono enigmi, massacri, ruberie; l’inferno dell’Occidente in Africa, dove nessuno può dirsi innocente.  

Intenso, audace, enigmatico, provocatorio, famoso – molti anni prima ha pubblicato L’immoralista e I sotterranei del Vaticano – André Gide fa un tour nell’Africa equatoriale francese nel 1925, da cui trae un libro, Voyage au Congo, edito da Gallimard due anni dopo. Gli avevano fatto credere di avere un incarico ministeriale, lo scrittore aveva 55 anni e passa parte del libro, in forma di diario, a raccontare la bellezza selvatica, aliena, primordiale dell’Africa. “Cielo indicibilmente puro. Mi pare che mai, in nessun luogo, ha potuto esserci un tempo più splendido. Mattinata molto fresca; si potrebbe credere di essere in Scozia”; “Ho raccolto sulla strada un minuscolo camaleonte e l’ho portato con me nella capanna dove sono rimasto a osservarlo per quasi un’ora. È veramente uno dei più straordinari animali della creazione”. Il libro ha un fascino arcano: pare che Gide ripercorra a ritroso i primi giorni del mondo. L’esteta, tuttavia, non dimentica il polemista: l’estasi per gli indigeni (“Quel che non posso descrivere è la bellezza degli sguardi di questi indigeni… vicino a questi negri, quanti bianchi hanno l’aria di cafoni!”) non si tramuta in una secca condanna per il colonialismo, ma lo scrittore non si fa scrupoli – quando rientra dalla sua stregoneria retorica – nel descrivere le vessazioni, le ingiurie, gli sfruttamenti (che riguardano, però, ricorda, anche le tribù locali, in lotta per soggiogarsi a vicenda). Il libro – oggi candido e quasi pagano – fece rumore e i politici di Francia lo presero come un gesto antipatriottico, una sfida.

La prima tappa di Gide è a Brazzaville, che è ancora la capitale della Repubblica del Congo. “Strano paese dove si ha meno caldo di quanto si sudi. Andando a caccia di insetti sconosciuti, ritrovo felicità infantile”, scrive lo scrittore, futuro Nobel per la letteratura. Pietro Savorgnan di Brazzà, nato a Castel Gandolfo da nobili friulani, cresciuto nel Collegio romano retto dai gesuiti, cittadino francese dal 1874, aveva fondato Brazzaville dopo aver ottenuto la concessione di un vasto territorio da Makoko, capo temuto delle tribù locali. Non andava a caccia di insetti sconosciuti, non rimpiangeva l’infanzia, alla letteratura preferiva l’azione. In una celebre fotografia di Nadar, Savorgnan di Brazzà, eletto Commissario dell’Africa occidentale francese, indossa abiti locali, un vasto turbante mette in evidenza la barba scura e gli occhi, penetranti. È bellissimo; la profezia di Lawrence d’Arabia. In Congo si distinse per intraprendenza e compassione: gli indigeni apprezzavano i suoi modi, e per un po’ fu amato anche dai governatori di Francia. Nel 1879 rifiutò di prestare i suoi servigi a Leopoldo II; fu ostile a Henry Morton Stanley, foraggiato dal re del Belgio, rude nei modi. Amava l’Africa; molto meno le corti e i cortigiani in Parlamento. Presto i francesi pensarono di poter fare a meno del grande avventuriero: nel 1898 fu sollevato dall’incarico e mise famiglia. “Trasferitosi in Algeria nella bella villa Dar es-Sangha, nel 1901 tentò di pubblicare una relazione sugli errori e gli orrori del colonialismo europeo, ma il suo dossier venne insabbiato. Grazie a una legge apposita ottenne dal governo francese, nel 1903, una pensione annua di diecimila franchi, che fino ad allora era stata riconosciuta solo a Louis Pasteur e, sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale, nell’aprile del 1905 venne inviato ancora una volta in Congo, dove gli indigeni si stavano ribellando a un sistema di tassazione molto pesante. Mentre stava ridiscendendo l’Oubangui e il Congo in battello, dopo aver concluso la sua inchiesta, che mise in evidenza la delittuosa connivenza esistente a danno degli indigeni tra le autorità locali e le società impegnate nello sfruttamento del territorio, si ammalò di dissenteria e ricevette l’ordine dal governatore Emile Gentil di tornare in Francia. Morì però a Dakar il 14 settembre 1905, sollevando dei dubbi fra i parenti, che ritennero sempre fosse stato avvelenato sulla nave per impedire che il suo rapporto su quanto aveva visto in Congo arrivasse a Parigi” (Francesco Surdich).

Il grumo è tutto lì, in quella zolla di terra che dell’uomo riassume le violenze e i dolori, l’agonizzante, l’efferatezza, la vita ‘selvatica’, il sonnambulismo della ferocia, l’eccitazione politica. Una stregoneria mutila il Congo: dal massacro di Kindu del novembre 1961, in cui furono trucidati tredici aviatori italiani che lavoravano per le Nazioni Unite, all’assassinio dell’Ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere che lo proteggeva, è la stessa scia di follia scura, emblema del Congo-Idra depredato da troppi, dove mercenari e imprenditori, faccendieri, militari organizzati e avventurieri d’occasione si fondono nel crogiolo ideologico – islamici, maoisti, marxisti, sovietici, filoamericani, filocinesi, tutti sono passati di lì, sono ancora lì, in una guerriglia mai divenuta nostalgia. Tra l’omicidio di Patrice Lumumba – Primo ministro della Repubblica del Congo, vicino all’Urss – nel 1961, ritenuto un tassello della Guerra Fredda in Africa, a “The Rumble in The Jungle”, il leggendario incontro del 30 ottobre 1974 tra George Foreman e Muhammad Ali a Kinshasa, nell’allora Zaire di Mobutu, la storia è sempre la stessa, benché mutino registri e riflettori (in quel caso, da avanspettacolo all’americana, appropriato al mito, da divulgare in film). È sempre, cioè, la tattica coloniale condotta con altri mezzi ma con i medesimi scopi, elaborata tramite militari del luogo con supporto occidentale e spartizione, tra pochissimi, di vastissime risorse.


Pierre Savorgnan di Brazzà (1852-1905)

Eppure, per capire le atrocità del Congo bisogna tornare in quel grumo di decenni dove tutto è stato detto, scritto, sottoscritto. Nel 1909 Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, nato come giornalista, ormai scrittore di successo, pubblica The Crime of the Congo, un’indagine analitica sulle efferatezze compiute in quel ring di mondo, con parole che leggiamo in questi giorni sui giornali (glassate, però, un secolo e un tot più tardi, di eminente ipocrisia): “Sono convinto che il motivo per cui l’opinione pubblica occidentale non è sensibile alla questione dello Stato Libero del Congo si rintracci nel fatto che nessuno ha mostrato con lucidità le efferatezze lì compiute… Si può obiettare che in parte è storia antica, che precede l’annessione del Congo al Belgio, accaduta il 10 agosto del 1908… eppure, si persevera in metodi di controllo malvagi. Quella colonia è uno scandalo di fronte al mondo intero. L’era degli omicidi e delle mutilazioni speriamo sia passata, ma il paese è sprofondato in uno stato di schiavitù totale, è terrorizzato, senza speranza”. ACD non si limita alle buone intenzioni e al proclama politico: descrive analiticamente il sistema di sfruttamento del Congo; un capitolo è dedicato all’‘arte’ – diciamo così – della flagellazione, “la minore tra le punizioni, inferta per lo più a donne e bambini. È una tortura terribile, che lascia la vittima scorticata e priva di sensi. C’è una scienza nella sua amministrazione, tramandata dagli ufficiali belga. Félicien Challaye racconta di un alto militare che gli ha detto, ‘Abbiamo una legge che proibisce di dare più di venticinque colpi, di fermarci quando scorre sangue. Così abbiamo architettato un metodo per sferrare ventiquattro colpi, vigorosamente, senza fermarsi, fino a far svenire la vittima: il venticinquesimo è quello che fa schizzare il sangue…’”. La copertina del libro, stampato da Hutchinson & Co., è clamorosamente potente: un bambino congolese, a cui hanno mutilato il braccio destro e la gamba sinistra, si afferra, per stare diritto, a un bastone; ha la veste bianca e una scritta, sotto di lui, ci ricorda, “Questo me l’avete fatto voi”. Certo, non siamo agnelli, il libro di ACD s’inserisce in una campagna inglese – non dei novellini in questioni coloniali, gli inglesi – contro l’impero africano del Belgio; malizia, strategia, stortura, però, sono le stesse che hanno caratterizzato la storia del Congo degli ultimi decenni.
Iscriviti al nostro bollettino settimanale.

Durante il disastroso viaggio in Congo, Joseph Conrad appuntò un diario – scarno, pieno d’informazioni marinare, e di accenni ai soprusi lì osservati – che gli servì come schema per scrivere Cuore di tenebra.  Nonostante la reazione di Chinua Achebe, che nel 1975 scrive un saggio al veleno, An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness, quel breve romanzo pubblicato sul “Blackwood’s Magazine” nel 1899, spina scura che ancora ci lacera l’iride, è la metafora perfetta del Congo. Semplicemente, Chinua Achebe è uno scrittore nigeriano che esordisce nel 1958, mentre Conrad è un uomo intriso di XIX secolo. Non è tanto per la polemica coloniale che va letto Cuore di tenebra – che pure balugina, nella milizia anonima di schiavi sfruttati dagli agenti occidentali avidi d’avorio: “File di neri polverosi e dai piedi piatti arrivavano e partivano, un flusso di merci lavorate, cotonate di scarto, conterie, e filo di ottone andava a finire nelle profondità di quelle tenebre e in cambio ne tornava un prezioso gocciolio d’avorio” – ma per la visione disincantata, trasognata, torbida sull’essere umano, che setaccia gli spazi più disparati del mondo come fossero porzioni smangiate di uno stesso, demoniaco incubo. Sapeva, lo scrittore, di essere sceso nel “cuore delle tenebre”, in una catabasi geografica ed esistenziale, per fare speleologia nel cuore oscuro dell’uomo. “La conquista della terra, che soprattutto significa toglierla a chi ha una carnagione diversa o un naso un po’ più schiacciato del nostro, non è una gran bella cosa… Ciò che la redime è soltanto l’idea… e una fede disinteressata a quell’idea – qualcosa che si possa innalzare e davanti alla quale ci si possa inchinare e alla quale offrire sacrifici…”, dice Marlow, raccontando il delirante viaggio in Congo, tra uomini tetragoni al feticcio del successo, di una libertà che procede ammazzando. Sembra di ascoltare Dostoevskij: tutta Europa inchinata al Baal del denaro, alla famelica avidità di fama, di sopruso, quasi che l’uomo si realizzasse soltanto soggiogando l’uomo. Del Congo, per altro, Conrad raccontò il magnetismo, il desiderio – anche questo ci strugge – di una vita ferina, improntata al selvatico, all’autentico. “Credetemi, nessuno ha mai pagato più caro di me le righe che ha scritto… Non sapevo che io godessi della crudeltà né che lo spargimento di sangue fosse la mia ossessione. Il fatto è che sono una persona assai più semplice”, scrive Conrad ad Arthur Symons, nel 1908.
E il Congo è lì, come il cuore oscuro estratto dal corpo di un dio, e fa luce, sinistra.

Una leggenda Bantu, tramandata dai Bena Lulua, che abitano l’attuale Repubblica Democratica del Congo, fa dire a Fidi Mukullu, l’essere supremo: “Io faccio gli uomini. Gli uomini fanno incantesimi, malattie, il coltello, il dardo, la guerra. Senza incantesimi, malattie, il coltello, il dardo, la guerra, la morte, senza tutto ciò la vita non è che mangiare, bere, dormire, digerire. La vita non è bella senza la morte”.


https://www.lintellettualedissidente.it/
3 Dicembre 2020

Elogio di Kurtz
di Davide Brullo

Il geniale e mefistofelico protagonista di “Cuore di tenebra”, capolavoro inquieto di Joseph Conrad, volta le spalle all’Occidente per imbracciare l’istinto. La sua sapienza è l’orrore. Marlon Brando lo ha reso immortale

Nel 1890 Józef Korseniowski, nato il 3 dicembre del 1857, battezzato a Berdy?iv, Polonia zarista – ora Ucraina – era già Joseph Conrad, aveva preso la cittadinanza inglese quattro anni prima. Era stato a Singapore e nel Borneo, aveva guidato brigantini tra Bangkok e Sydney. Quell’anno compiva gli anni di Cristo in croce e voleva levarsi lo sfizio, un sogno. L’Africa. Se la ricordava, nitida come una morgana, possente come l’ineffabile, nelle carte geografiche che sfogliava da bimbo. “A Londra, grazie ai buoni uffici di una lontana parente… ottiene il comando di un battello fluviale sul Congo” (Mario Curreli). Il viaggio – lo testimonia anche il ruvido, monotono “Diario del Congo” – è deludente, la malaria lo sfianca. “A bordo, con lui, c’è anche un altro agente della compagnia, Georges Antoine Klein, gravemente malato, che poco dopo muore ed è sepolto nella riva fangosa” (Curreli). Conrad interrompe il viaggio, torna in Europa, va a curarsi in Svizzera. Quel nome, però, Klein, gli tortura il cervello: “Il nome di Klein figurerà nel manoscritto di ‘Heart of Darkness’, sostituito poi con quello di Kurtz”. Farà ancora qualche viaggio – in Australia – ma l’Africa, di fatto, è l’ultima avventura esotica, in favore di rischio. Nel 1895 nasce uno scrittore: Conrad pubblica La follia di Almayer.

Cuore di tenebra, il più grande, ferino, inafferrato tra i romanzi di Conrad, celato tra le nubi del sogno (“È impossibile, è impossibile trasmettere la sensazione di vita di qualsiasi periodo della propria esistenza – quel che ne rende la verità, il significato – l’essenza sottile e penetrante- è impossibile. Si vive, così come si sogna – soli…”, dice Marlow, dal cuore del libro), esce per la prima volta sul ‘Blackwood’s Magazine’ nel febbraio del 1899, ed è, a cavallo del secolo, la rivoluzione secolare, la teoria della relatività in letteratura, il romanzo come matrioska di finzioni, gioco d’equilibrio a lame tra il ‘selvaggio’ e l’ordinario, tra desiderio e atto, indicibile e indecente. “Heart of Darkness è il migliore romanzo breve ch’io conosca e a mio parere l’opera di Conrad più bella e densa. Il racconto è emozionante e profondo, lucido e disorientante… Conrad prefigura i metodi di Kafka e di Beckett”, scrive Cedric Watts.

Come Re Lear, come Don Chisciotte, come Achab, come il Giudice Holden di Meridiano di sangue. Joseph Conrad era consapevole di aver creato, con Kurtz, una delle creature più potenti della storia letteraria. Solo che… Kurtz non esiste neanche sulla pagina letteraria: è il frutto di fraintendimenti, menzogne, chiacchiere, timori. Cuore di tenebra converge, a spirale, intorno a Kurtz, uomo mefistofelico, dissimulatore, che sovverte ogni pretesa di inquadrarlo. Già… ma chi è Kurtz. Abilissimo commerciante d’avorio in Africa, ha una donna, di pallida bellezza, che lo adora, a Londra, è preso per un semidio da una tribù indigena, è per metà francese, è stato un musicista di talento, un pittore, uno scrittore, un oratore di formidabile eloquenza. “È una persona davvero notevole”, ci è detto di lui, all’inizio del libro; “Kurtz era un uomo notevole”, afferma Marlow alla fine del libro. Ma cosa c’è da annotare di Kurtz, che cosa è degno di nota? “Tutta l’Europa aveva contribuito a foggiare Kurtz”; e Kurtz, questa specie di superuomo a testa sotto, l’occidentale perfetto, meccanico, aveva voltato le spalle all’Occidente, alla ragione, per darsi al rito tribale, all’istinto sinistro, all’indole divina, senza dottrina. Aveva preso a morsi il cuore di tenebra dell’uomo. “Tutto gli apparteneva… L’importante era sapere a che cosa appartenesse lui, quante potenze delle tenebre lo reclamassero come cosa propria”.


Joseph Conrad pubblica Cuore di tenebra nel 1899; nove anni prima aveva valicato il fiume Congo

Cuore di tenebra è l’estasi di un moribondo: con Kurtz, forse, muore la vita imperniata sull’estro di Conrad, la vita preda di oceani, pericoli, scelte. Il rischio. La scrittura – la professione dello scrittore – imprigiona in legacci verbali, nell’anomalia dell’essere compresi, dell’avere successo. Di Kurtz sappiamo che “era calvo in modo impressionante”, che ha la voce cupa di un re, che è cinto da “una tenebra impenetrabile”. Quest’uomo, uno dei demoni, forse, “allo stesso tempo Faust e Belzebù e anche Lucifero” (Mario Curreli),tradisce ogni nostra attesa: non dice nulla. L’unico singulto, la sua rivelazione, è orrore.  

Certi brani mi hanno sorpreso. Non sapevo di avere un cuore di tenebre e un’anima di fuorilegge. L’aveva il signor Kurtz, e io non l’ho trattato con la tranquilla indolenza di un dilettante. Credetemi, nessuno ha mai pagato più caro di me le righe che ho scritto
Joseph Conrad

Per primo, fu Orson Welles a tentare di tradurre Cuore di tenebra in film. Per fortuna, ha risolto il gioco Francis Ford Coppola. Dal 1979 siamo pacificati: Kurtz non potrebbe avere altro corpo che quello di Marlon Brando in Apocalypse Now, immenso, immane, mefistofelico, mentre si deterge il capo, cioè riemerge arcaico da un blasfemo battesimo, e dice a Willard/Martin Sheen – che poi è il miracoloso Marlow di Conrad –, “Ha mai preso in considerazione le vere libertà? Libertà dalle opinioni altrui. Addirittura dalle proprie”. Il genio fu l’innesto del romanzo di Conrad sulla quinta vietnamita, far sbarcare il Congo/Inferno nel tempio di Angkor Wat. Basato su un testo di Michael Herr, l’autore di Dispacci, fu John Milius a intersecare frammenti di Conrad nel film – così, una pellicola di guerra, allucinata e corrusca, diventò un’opera epica. Nel 2006 le edizioni Alet hanno pubblicato la sceneggiatura originale di Coppola+Milus, Apocalypse Now Redux. Eppure, il Kurtz di Coppola non è quello di Conrad.

Mario Curreli è tra i grandi studiosi di Conrad – ha curato il doppio volume delle opere per Bompiani – ma io resto legato alla versione di Ugo Mursia, devoto conradologo, del 1978, che si intitolava Cuore di tenebre. E mi piace quanto scrive Glauco Cambon: “Per Conrad l’angelo da sconfiggere era anche il demonio… Le avventure di Conrad risalgono un Congo tenebroso che è il tracciato della storia e dell’anima umana, fino alle sue origini intemporali, fino alla purezza di un terrore assoluto attinto, sfiorato e abbandonato”.

Certo, il guizzo di Coppola è il finale, il colpo di machete con cui Marlow ammazza Kurtz, mentre si va scannando, ritualmente, il bue. Il finale ipotizzato da Conrad è più fine, Marlow lo narra “nella posa di un Budda meditabondo”. Kurtz muore seppellendo il suo segreto – l’uomo che ha scelto di sterminare le proprie convinzioni, dandosi in pasto al selvaggio. Marlow va dalla donna di Kurtz, che lo attende da anni, dopo averne spiato il ritratto – “mi dava l’impressione che fosse bella” –, roso dalla curiosità. “Venne avanti, tutta vestita di nero, con una faccia pallida, fluttuando verso di me nel crepuscolo”. Mentre “le tenebre si infittivano”, la donna sussurra, “era impossibile conoscerlo e non ammirarlo, no?”, e poi scatta, “nessuno lo conosceva meglio di me!”. Mentre la donna, fieramente, implora Marlow – “io l’amavo, l’amavo, l’amavo”, come se amare fosse uccidere – chiedendogli di rivelarle “l’ultima sua parola”, albeggia la bugia, “L’ultima parola che pronunciò fu – il vostro nome”. Lei sospira, si fa di gioia, muta la morte in carisma, “Lo sapevo – ne ero sicura”. Come se orrore e amare fossero la stessa cosa.

John Malkovich è John Malkovich, che ovvietà, ma nel film di Nicolas Roeg, Heart of Darkness (1994), barbaricamente didascalico – Marlow è interpretato da un credibile Tim Roth – è un Kurtz maniaco a malaticcio, appena reduce da Il tè nel deserto.

Ogni singola frase è un gradino che ci conduce a Kurtz, che prelude all’incontro. Ma Kurtz non parlerà, se non pronunciando la parola ambigua e celeberrima, eraclitea, “The horror! The horror!”, dietro cui ogni soluzione e nessuna è possibile. Siamo condotti dentro un imbuto infernale, nel grande intestino del Congo, per scontrarci contro quella orrenda risposta. L’assioma che sigilla la nostra esistenza terrena, “Kohèlet” assemblato in un versetto, Giobbe in vitro, Amleto barbaro, privo di carnevale retorico. Ciascuno faccia la propria partita a dadi e giunga a patti con sé e con Kurtz; Conrad, per ciò che gli riguarda, come ogni gigante, ci pone sul ciglio dell’abisso, non costruisce il ponticello per passare dall’altra parte – se poi esiste un’altra parte.

Il potere è uccidere se stessi e poetare sul proprio cadavere, danzando con corpo muto e mutevole sguardo, pronti al commercio come al bosco che cresce sulla schiena.
Il Kurtz di Conrad farnetica, quello di Coppola fa dottrina. Legge Thomas S. Eliot nel momento cruciale del film, e si tiene sul comodino, oltre a una copia della Bibbia, il libro di Jessie L. Weston, From Ritual to Romance, e quello di James G. Frazer, The Golden Bough – entrambi, a detta di Eliot, stanno a fondamento della Waste Land. Che poi Eliot amasse mentire come pochi e sviare l’attenzione dei critici è un fatto, come è papale l’operazione filologica di Coppola. Che c’entra Eliot con Conrad, a parte il fatto che entrambi sono stranieri – uno è americano, l’altro polacco – catapultati in Inghilterra, e che entrambi hanno cambiato per sempre la storia della letteratura occidentale? Chiamiamola affinità elettiva e riavvolgiamo il nastro.

La poesia declamata a sorseggi, come un sermone biblico (“Siamo gli uomini vuoti, Siamo gli uomini impagliati/… Figura senza forma, ombra senza colore,/ Forma paralizzata, gesto privo di moto”),  da Brando/Kurtz è The Hollow Man di Eliot, che porta in esergo una frase da Cuore di tenebra (“Mistah Kurtz – he dead”) e ambisce a essere la “scatola nera” di quel romanzo breve, il discorso che Kurtz non ha mai pronunciato. Ma cosa c’entra, pigiamo ancora, la Waste Land? C’entra, perché Eliot avrebbe desiderato posizionare lì, all’ingresso della sua opera più nota, la frase di Conrad, degno ringraziamento al maestro. Fu Pound a sconsigliarglielo (in una lettera del 24 dicembre 1921 gli scrisse netto: «I doubt if Conrad is weighty enough to stand the citation»), Eliot chinò il capo e si rivolse a Petronio. Thomas il grande, però, aveva capito qualcosa che a Ezra sfuggiva, cioè che Cuore di tenebra è la riscrittura del libro XI dell’Odissea e del libro VI dell’Eneide, che è una catabasi nelle viscere dell’animo umano, e che il fiume Congo è una specie di Flegetonte, e che Marlow è un pellegrino dantesco privo di Virgilio e di Beatrice – e che per questo, fisicamente e spiritualmente, si smarrisce –, che Conrad è un antico greco perché sa che il nostro destino è irrisolvibile e immodificabile, ma pure un severo profeta: sa che un’inestirpabile colpa scalcia.

Ha mai preso in considerazione le vere libertà? Libertà dalle opinioni altrui. Addirittura dalle proprie
Marlon Brando in forma di Kurtz

“Certi brani mi hanno sorpreso. Non sapevo di avere un cuore di tenebre e un’anima di fuorilegge. L’aveva il signor Kurtz, e io non l’ho trattato con la tranquilla indolenza di un dilettante. Credetemi, nessuno ha mai pagato più caro di me le righe che ho scritto”, scrive Conrad all’amico Arthur Symons nell’agosto 1908. Come ogni genio anch’egli “paga” di persona ciò che ha scritto, ne è martoriato, ferito, zappato. Ma c’è di più. Quella scrittura, terminata nel 1899 e durata tre mesi febbrili, ha qualcosa di straordinario anche per Conrad. Egli è letteralmente sopraffatto da quel libro, come noi dopo ogni lettura, come Coppola dopo averlo letto (per comprenderne il rivissuto delirio durante la lavorazione del film si legga il libro della moglie, Eleanor Coppola, Diario dall’Apocalisse. Dietro le quinte del capolavoro di Francis Ford Coppola, minimum fax, Roma 2006, e il “dietro le quinte” documentato da Fax Bahr e George Hickenlooper in Hearts of Darkness: A Filmaker’s Apocalypse, 1992).

Andiamo per gradi. L’editio princeps del testo fu pubblicata il 13 novembre 1902 in Inghilterra dalla Blackwood, nella raccolta Youth: A Narrative, and Two Other Stories. I tre racconti lunghi, procedimento che terrà a mente James Joyce, narrano la vicenda più o meno disperata – ogni romanzo di Conrad è il sunto di un’esperienza “limite” – di un uomo nei diversi stadi della sua esistenza. Youth, manco a dirlo, è la gioventù, Heart of Darkness l’età di mezzo, nel mezzo del cammino –  dantesco –, The End of Tether, il testo meno risolto, l’età ultima, la vecchiaia. In questi racconti c’è Conrad per intero. Il primo è quello più celebre, è il Conrad di The Nigger of the “Narcissus” e di The Shadow Line; l’ultimo, più lieve e più letterario, quello che compete con la scrittura leggiadra dell’amico Henry James, è il Conrad “laterale” di Chance e degli ultimi romanzi. E poi c’è il bubbone, il grumo di Cuore di tenebra. Che aleggia come un solido spettro nei libri maggiori, in Lord Jim e in Nostromo, in Typhoon come in Victory, in cui viene sbozzata la figura del “reietto” – che cospicua differenza con l’“inetto” novecentesco! –, ma è anche qualcos’altro, qualcosa di distinguibile e perentorio, qualcosa di non più replicabile. E che sta lì, come un’incisione e un suggello sullo stipite del “modernismo”. Quella scrittura tumorale e torta è il prototipo di ogni “romanzo limite”, azzardato e infero. Senza di esso William Faulkner e Malcolm Lowry sarebbero qualcosa d’altro, così come l’Hemingway maggiore – quello di The Snows of Kilimanjaro, ad esempio – e Cormac McCarthy. “Qualcosa di umano è più caro per me che tutta la ricchezza del mondo”, è l’inciso, ricavato dai Grimm, con cui Conrad marchia la raccolta Youth. È bene leggervi l’indizio di una poetica. Un uomo che s’incarica della propria tenebra, ne distilla la luce. Tutto qui, cosa “genuina, completa, cristallina, pura”, direbbe Brando/Kurtz.

 

top