torna al sommario

Perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere.


Biografia di Charles-Louis De Secondat Barone di La Brede e di Montesquieu 1689-1755
Premessa Storico-Politica alla Comprensione dello Spirito delle Leggi
Estratti da Lo Spirito Delle Leggi 1748 (libri da primo a ottavo)

Estratti dal Libro undecimo

http://www.homolaicus.com

Biografia di Charles-Louis De Secondat Barone di La Brede e di Montesquieu 1689-1755

Se conoscessi qualcosa di utile alla mia nazione ma dannoso a un'altra, non la proporrei al mio principe perché sono uomo prima di essere francese, o, meglio, perché sono necessariamente uomo, e francese soltanto per caso. Se sapessi qualcosa che giovasse alla mia patria e nuocesse all'Europa, oppure che fosse utile all'Europa ma pregiudizievole per il genere umano, lo considererei come un delitto. (Montesquieu)

•               1689 Nasce Charles Montesquieu a Bordeaux. E' battezzato nella chiesa parrocchiale, padrino un mendicante di nome Carlo. Appartiene a una antica famiglia di magistrati. Nelle sue terre si produceva soprattutto vino.

•               1696 Muore sua madre.

•               1700 -1705 Compie gli studi classici al collegio di Juilly presso Meaux, tenuto dagli Oratoriali.

•               1705-1708 Studia il diritto a Bordeaux, laureandosi in legge il 12 agosto 1708.

•               1708 E' iscritto nell’albo degli avvocati del Parlamento di Bordeaux.

•               1709 Si reca a Parigi per continuarvi gli studi giuridici.

•               1711 Scrive un saggio De la damnation éternelle des Païens, andato perduto, in cui dimostra che gli antichi filosofi non meritano la condanna eterna.

•               1713 Ritorna a Bordeaux dove il 15 novembre muore il padre.

•               1714 Diventa consigliere al Parlamento di Bordeaux.

•               1715 Sposa, nella parrocchia di S. Michele a Bordeaux, Jeanne de Lantigue, protestante.

•               1716 Viene nominato accademico ordinario dell’Accadémie des Sciences, Lettres et Arts di Bordeaux, su proposta di Joseph de Navarre. Nel maggio muore un suo zio che gli lascia in eredità il titolo, i beni e la carica di président à mortier (presidente di sezione) del Parlamento di Bordeaux. Legge all’Accademia di Bordeaux una Dissertation sur la politique des Romains dans la religion e un discorso Sur le système des idées

•               1717 Scrive un Essai sur la différence des génies che sarà poi fuso nell’Essai sur les causes.

•               1718 Legge all’Accademia di Bordeaux un discorso Sur la cause de l’écho, uno Sur le guy; seguono un discorso Sur la mousse des chênes e uno Sur les plates qui peuvent servir à la nourriture e uno Sur l’usage des glades rénales.

•               1719 Scrive un Projet d’une histoire physique de la terre ancienne et moderne, sorta di manifesto in cui invita gli scienziati di tutto il mondo a comunicargli tutte le osservazioni raccolte.

•               1720 Pronunzia all’Accademia un discorso Sur la cause de la pésanteur des corps e un altro Sur la cause de la trasparence des corps.

•               1721 Legge all’Accademia delle Observations sur l’histoire naturelle. Pubblica anonimo ad Amsterdam per i tipi di Jacques Desbordes – ma con falsa indicazione Cologne, chez Pierre Marteau – le Lettres Persanes. Il successo è immediato.

•               1722 Prende alloggio a Parigi in rue Saint Dominique dove d’ora in poi si recherà sovente a soggiornare.

•               1723 Nell’agosto torna a Bordeaux. Discorso all’Accademia sul tema S’il a dans l’univers du mouvement absolu ou si tout n’est que relatif (perduto).

•               1724 A Parigi. Pubblica il Temple de Gnide nella “Bibliotèque française” d'argomento galante ed erotico; scrive il Dialogue de Sylla et d’Eucrate, le Considerations sur les richesses de l’Espagne.

•               1725 Soggiorna a Bordeaux, poi a Parigi. Alla fine di marzo esce in edizione a sé il Temple de Gnide. Legge all’Accademia di Bordeaux il Traité des Devoirs, il saggio De la considération et de la réputation e pronunzia un Discours sur l’équité qui doit régler les jugements et l’exécution des lois, e un Discours sur les motif qui doivent nous encourager aux sciences.

•               1726 Parigi e Bordeaux. Cede a titolo provvisorio la sua carica di presidente à mortier per 5000 franchi annui a Jean-Baptiste d’Albessard. Pronunzia all’Accademia l’Eloge du duc de la Force.

•               1727 A Parigi. Nascita della figlia prediletta.

•               1728 E' eletto membro dell’Accadémie française. Parte per una serie di viaggi in Europa: Vienna, Venezia, Olanda, Milano, Torino, Genova, Pisa, Firenze.

•               1729 Arriva a Roma, poi va a Napoli. Soggiorna di nuovo a Roma. Poi va in Germania, Olanda, parte dall’Aja per l’Inghilterra.

•               1730 Soggiorno in Inghilterra. E' iniziato alla massoneria. Diventa membro dell’Accademia delle Scienze di Londra.

•               1731 Ritorna in Francia. All’Accademia di Bordeaux tiene un discorso Sur le son, presenta una Description de deux fontaines de Hongrie qui convertissent le fer en cuivre e una Mémoire sur le mines d’Allemagne.

•               1732 Legge all’Accademia di Bordeaux una memoria sulla Sobriété des habitantes de Rome comparée à l’intempérance des anciens Romains. Esprime la sua simpatia per il senato romano e per le virtù repubblicane, amando paragonarsi a Cicerone, che si oppose a Cesare.

•               1733 Fa stampare ad Amsterdam le Considérations sur la cause de la grandeur des Romains et de leur décadence e probabilmente le Réflexion sur la Monarchie Universelle. Nell'opera sulla grandezza e la decadenza dei Romani, Montesquieu riconosce le cause della grandezza dei Romani nell'amore della libertà, del lavoro e della patria, in cui erano allevati sin dall'infanzia; e le cause della loro decadenza nell'eccessivo ingrandimento dello stato, nelle guerre lontane, nell'estensione del diritto di cittadinanza, nella corruzione dovuta all'introduzione del lusso asiatico, nella perdita della libertà sotto l'impero.

•               1734 Viene letto, in sua assenza, all’Accademia di Bordeaux un discorso Sur la formation et le progrès des idées, perduto. Escono le Consideration sur… les Romains, pubblicate ad Amsterdam da Jacques Desbordes. L'opera, che deve molto a Machiavelli e al sensismo politico inglese, è un modello di filosofia della storia tesa a identificare cause umane e naturali del processo storico, contro il provvidenzialismo della storiografia precedente. Scrive anche l’Eloge du maréchal de Berwich.

•               1739 Presenta due memorie all’Accademia di Bordeaux : Si l’air que nous respirons passe dans le sang e Froideur et chaleur des eaux minérales.

•               1741 Menziona per la prima volta l’Esprit des Lois in una lettera del 20 dicembre all’amico Barbot.

•               1742 Scrive Arsace et Isménie (pubblicato solo nel 1783).

•               1745 Legge l’Esprit des Lois a Bordeaux al Barbot, al Gusco e al figlio. Esce il Dialogue de Sylla et d’Eucrate sul "Mercure de France".

•               1746 E' eletto membro dell’Accademia delle Scienze di Berlino.

•               1747 E' a Luneville alla corte di Stanislao di Polonia. Manda a Ginevra parte dell’Esprit des Lois per la stampa, tramite Pierre Mussard consigliere di Stato di Ginevra. Sottopone al giudizio di Helvétius una parte dell’opera, ne è vivamente criticato.

•               1748 Nel marzo finisce il libro XXVIII dell’Esprit des Lois. Vende la carica di consigliere al Parlamento di Bordeaux. Vende quella di presidente à mortier. Finisce i libri XXX e XXXI e nel settembre esce l’Esprit des Lois. Dopo quindici anni di lavoro l'opera è completata.

•               1749 Esce un’edizione riveduta dell’Esprit des Lois. Il successo dell'opera sarà enorme: ventidue edizioni in due anni.

•               1750 Pubblica a Ginevra la Défense de l’Espri des Lois seguita dagli Eclaircissement contro le violente critiche, soprattutto da parte giansenista e gesuita. Redige il suo testamento.

•               1751 E' eletto membro all’Accademia di Nancy, alla quale invia il saggio Lysimaque. L’Esprit des Lois è messo all’Indice, dopo essere stato condannato dalla Sorbona. Scrive il Cinquième Mémoire sur les mines e le Remarques sur certaines ojections.

•               1752 All’Accademia di Bordeaux legge una memoria su Le génie des differentes langues.

•               1753 Scrive l’Essai sur le goût, destinato all’Encyclopédie, rimasto incompiuto.

•               1754 Esce l’edizione definitiva delle Lettres Persanes con un Supplément di undici lettere.

•               1755 Muore a Parigi. Una buona parte della sua opera, non sistemata al momento della morte, fu conosciuta molto più tardi: è il caso di I miei pensieri, pubblicati nel 1899, delle Note di viaggio e delle Lettere, alcune delle quali apparvero addirittura nel 1941.

Lettere persiane (Lettres persanes), romanzo epistolare del 1721 apparso anonimo ad Amsterdam, ma di cui tutti avevano individuato l'autore. Quest'opera aprì a Montesquieu le porte dei salotti parigini, che egli frequentò assiduamente fino al 1725.

La trama narra di due giovani persiani (il gran signore Usbek è lo stesso Montesquieu) in viaggio per la Francia, tra il 1712 e il 1720, che scrivono delle lettere ai loro corrispondenti iraniani, facendo una satira dei costumi (vita di corte, divorzio, schiavitù, demografia, forme di governo...) e delle istituzioni politiche francesi, e colpendo in particolare l'oscurantismo religioso e l'assolutismo monarchico di Luigi XIV, ma anche l'Accademia Francese, la giustizia (si rimarca l'ignoranza dei magistrati), il sistema finanziario (a Versailles si era sfiorata la bancarotta...). L'ovvio e il quotidiano, per noi occidentali, diventano l'assurdo e il grottesco e il lettore viene abituato all'ottica del relativismo culturale: la Francia e l'Europa non sono più il centro, ma solo un angolo del mondo.

A questo tema si incrociano le vicende riguardanti il serraglio lasciato da Usbek in oriente: durante la sua assenza infatti, le donne lasciate alla custodia di un eunuco negro si ribellano, e gli ordini sempre più rigorosi mandati da Usbek le irritano ancora di più. La favorita Roxane che sembrava essere rimasta fedele al padrone assente, diventa l'animatrice del complotto. Sapendosi perduta, prima di avvelenarsi scrive una lettera a Usbek: è l'ultima lettera della raccolta, una appassionata apologia della libertà.

Nell'opera confluiscono due mode letterarie allora in voga: le relazioni documentarie su paesi stranieri, e le impressioni di immaginari stranieri ignoranti sugli usi e costumi del tempo. Quest'ultimo accorgimento permetteva di esprimere critiche e stupori sulla struttura sociale e politica del proprio paese. Il successo delle Lettere persiane fu strepitoso.


top


http://www.homolaicus.com

Premessa Storico-Politica alla Comprensione dello Spirito delle Leggi


Aristocrazia e Nobiltà di toga

Intorno al 1750 la restaurazione aristocratica ha bruciato ogni sua possibilità. Le dottrine della nobiltà francese si sono ormai rivelate strumenti inefficaci, visioni regressive e utopiche della realtà sociale che non hanno l’effetto di aggregare un ceto sociale e di imporgli comportamenti univoci. Inoltre, sotto la spinta della favorevole congiuntura, un grande fermento sociale si manifesta nel regno e i ceti borghesi si rafforzano; la grande stagione dei Lumi è quasi al suo culmine e un nuovo sistema di valori fronteggia sia le dottrine della reazione monarchica, sia il tradizionale assolutismo monarchico.

Dopo l’esperimento della Reggenza il potere monarchico ha ripreso tutto il suo spazio e lo Stato burocratico di commessi prevale in modo netto sullo Stato di uffici e sugli ideali di una diretta partecipazione al potere dei ceti aristocratici. Insomma il dispotismo, regio o dei ministri che sia, trionfa. La linea di resistenza delle forze conservatrici passa dalle mani della nobiltà di corte e di spada a quelle del Parlamento e della sua vasta clientela. La discussione sul ruolo politico del parlamento nella Francia di antico regime è stata riaperta da J. Egret che ha rivendicato alla nobiltà di toga un positivo ruolo moderatore a difesa delle libertà costituzionali contro le prevaricazioni dell’autocrazia monarchica.

Questa tesi, che ha un valido fondamento, è però sospinta sino a conclusioni estreme e non del tutto condivisibili. In effetti il ruolo del Parlamento (sono in numero di 12 nei secoli che ci interessano) e dei parlamentari (all’incirca 2000 famiglie) è sicuramente un ruolo storico di mediazione tra l’istituto monarchico e le varie forze sociali che si agitano nella Francia di Antico regime, ma l’istituto parlamentare è a sua volta frutto della storia, e di un periodo particolare della storia di Francia (secoli XVI - XVII).

Natura e funzioni del Parlamento

Una prima definizione può essere la seguente: i Parlamenti sono Corti sovrane (autonome) di giustizia istituite per rendere giustizia in ultima istanza a nome del Re. Ma va subito avvertito che questa definizione ha il torto di escludere una parte considerevole dei poteri (o delle pretese) parlamentari, in particolare i poteri politici e amministrativi, e di dare un’idea insufficiente dell’enorme importanza che l’ordine parlamentare aveva assunto nella Francia di Antico regime. I dodici parlamenti del Regno costituiscono infatti la spina dorsale del sistema istituzionale della monarchia nei secoli XVI - XVIII e la loro autorità diviene sempre più universale e illimitata a mano a mano che si avvicina la Rivoluzione. L’origine dell’istituto è tanto antica (XIII secolo) che permette agli appartenenti al corpo di ritenersi addirittura autentici eredi delle più antiche assemblee feudali e rappresentanti di una mitica sovranità popolare precedente all’esistenza stessa dell’istituto monarchico.

Di fatto le origini dei Parlamenti coincidono con la creazione di un corpo di magistrati delegato dal monarca a rendere giustizia (civile, penale e amministrativa); ma con l’accrescersi delle funzioni dello stato, con l’ingigantirsi delle competenze della Monarchia, con l’espansione territoriale stessa del Regno, il complesso di funzioni che questo ceto di Magistrati assume e si conquista diviene imponente. Inoltre con il sistema della venalità degli uffici (XVI secolo) il Parlamento diviene il luogo privilegiato di accesso delle borghesie al prestigio sociale e al potere politico. Gli incarichi acquistati in seno al Parlamento danno titolo di nobiltà, possono essere gelosamente custoditi e trasmessi per via ereditaria in seno a una stessa famiglia. Si crea così, nel corpo sociale francese, tra il XVI e il XVII secolo, una nobiltà di secondo rango, una nobiltà di ufficio, direttamente collegata al potere della monarchia assoluta da un lato e ai ceti borghesi, al terzo stato, dall’altro: la nobiltà di toga.

Originari del Terzo stato i parlamentari non perdono i contatti con i ceti borghesi, vivono a fianco della nobiltà, ma il loro diritto di pieno accesso al Primo ordine dello Stato è sempre discusso e respinto formalmente dalla grande aristocrazia di corte e di spada, che non riconosce un suo pari nell’ordine della nobiltà di toga. Il ruolo di questo gruppo è dunque intermedio e lo spazio politico che esso occupa è quello del naturale mediatore tra Monarca, aristocrazia e Terzo stato. Ne consegue una mentalità, una ideologia e una vocazione politica del tutto particolare. Infine i Magistrati dei Parlamenti si arrogano formalmente il diritto di sindacare l’autorità del Monarca, possono resisterle opponendo alle decisioni regie il diritto di rimostranza e cioè il diritto di sindacare nei contenuti la legittimità delle ordinanze del Consiglio regio sino a sospendere l’applicazione delle leggi e dei decreti chiedendone la revisione o la cassazione.

Giuristi sottili e ostinati, educati all’arte del cavillo e allo spirito di fronda, consapevoli di tutto il potere che la magistratura può esercitare in un sistema giuridico in cui non esiste diritto scritto, i parlamentari occupano un luogo privilegiato nel dibattito politico. Tutori delle tradizioni e delle consuetudini nazionali e del sistema di patti stipulati nel tempo tra la monarchia e i corpi della nazione (popoli, etnie, città, corporazioni, regioni) essi rivendicano un reale potere che deriverebbe loro dal popolo contro il Monarca e dal Monarca contro il popolo, si ritengono infine i tutori della costituzione e delle leggi fondamentali (non scritte) dell’istituzione monarchica, i garanti del patto tra i vari gruppi sociali, intendono infine assorbire le competenze e le funzioni del Consiglio regio e si definiscono i naturali consiglieri del trono.

Il ruolo politico

Numericamente il ceto parlamentare è esiguo (poche migliaia di unità), ma la sua cultura, la sua centralità nel tessuto sociale e istituzionale del regni gli garantisce un’ampia rete di alleanze (tutto il ceto forense e le professioni liberali, le borghesie cittadine, l’insieme delle corporazioni di arti e mestieri, talune fasce della popolazione contadina) e, in forza della sua abile strategia, nel corso del Sei e Settecento, occupa spazi di competenze e di manovra sempre crescenti.

Polizia, legislazione, finanze, assistenza pubblica, istruzione, organizzazione delle reggenze, cassazione dei testamenti regi, disciplina ecclesiastica, problemi religiosi, rientrano progressivamente nella sfera di competenza del Parlamento. Si giunge persino ad affermare che i Parlamenti sono gli strumenti della divinità per rendere le leggi giuste e utili allo Stato; che essi rappresentano lo stato, parlano in nome del popolo, ne sono gli angeli tutelari, gli economi e gli amministratori dei loro beni! Quanto si tratti di qualche cosa per la quale il popolo ha interesse scrivono i magistrati non è nel consiglio del Re che lo si può affrontare. Il Re non può contrattare con i suoi popoli se non in seno al Parlamento il quale, antico quanto la corona e sorto insieme allo Stato, è la rappresentanza dell’intero corpo della Monarchia.

Cosicché, estremizzando, si giunge a proclamare che il Consiglio del Re, sorta di giurisdizione istituita in spregio alle leggi fondamentali del Regno, non ha alcun carattere costituzionale e compie un’usurpazione manifesta quando cassa o inficia le decisioni assunte dal Parlamento. Vi è quanto basta per aver intuito l’orizzonte e il pensiero politico di questo gruppo sociale che alla monarchia assoluta deve tutto e che può sopravvivere solo resistendole.

La nobiltà di toga in Francia si regge su una ideologia intrisa del tradizionale contrattualismo medievale, sull’equilibrio di forze proprio di una società pluralistica organizzata gerarchicamente in ordini e corporazioni. Solo Luigi XIV, con la sua violenta autocrazia, riuscì a spezzare e ridurre al silenzio la casta parlamentare che tanta parte aveva avuto nello sconvolgimento frondista. Privati del diritto di rimostranza e umiliati nelle loro pretese e nelle loro funzioni i Parlamenti tacquero per più di un trentennio (1680-1715); ma alla morte di Re Sole la loro violenza politica riprese. Riprese insomma quella battaglia di retroguardia (che si concluderà con la rivolta del 1787-1789) condotta senza tregue per mantenere immutato l’assetto sociale di Antico regime in un tempo in cui esso era condannato al mutamento.

Montesquieu affida alle Corti sovrane (i 12 Parlamenti del Regno) e alla magistratura il deposito sacro delle leggi fondamentali, il potere esclusivo di interpretarle e quindi di applicarle, al monarca affida il potere condizionato di legiferare, al governo quello di eseguire, affida alla nobiltà il primo rango sociale che nella monarchia le spetta e la fa tutrice del patrimonio morale dell’intero sistema (che è il senso dell’onore), dà infine all’intero corpo sociale un ordine e una gerarchia che tutto e tutti devono garantire.
Montesquieu riconquista a favore della Nobiltà posizioni di notevole vantaggio perdute nel corso di un lento ripiegamento storico, l’ordine sociale infatti non può essere garantito che dal permanere stesso della Nobiltà quale contrappeso al popolo da un lato e al monarca dall’altro.
Con ciò egli fornisce un’arma potente alla resistenza conservatrice dei parlamenti, conferisce un ruolo, seppure ridotto, alla nobiltà, demolisce la concentrazione dei poteri della monarchia assoluta, soddisfa l’aspirazione alla crescita sociale del Terzo stato per il quale la mobilità sociale si realizza attraverso lo snodo della venalità degli uffici e il passaggio obbligato attraverso i ranghi della magistrature.

Lo Spirito delle Leggi

Lo spirito delle leggi, pubblicato anonimo a Ginevra nel 1748, viene scritto in uno stile chiarissimo, secco e mordente, volutamente epigrammatico. Si tratta di due volumi, trentuno libri, un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico, tant'è ch'egli viene considerato il fondatore della scienza della politica borghese. E' una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento. Montesquieu vi raffronta le leggi e le istituzioni di molti popoli del mondo, dimostrandone la relatività e la dipendenza dalle condizioni economiche, dal clima e dalla posizione geografica. La vita dei popoli non deve perciò modellarsi sulle leggi, ma le leggi devono plasmarsi su di essa.

La grande novità è costituita dal metodo: il sociale, meglio forse sarebbe dire il politico, è indagabile e conoscibile scientificamente perché retto da leggi proprie che, come quelle della natura, regolano i sistemi.

Una filosofia della storia. Montesquieu cercò di dimostrare come, sotto la diversità apparentemente arbitraria degli eventi, la storia abbia un ordine e manifesti l'azione di leggi costanti. Le istituzioni e le leggi dei vari popoli non costituiscono qualcosa di casuale o accidentale, ma sono strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, ecc. Al pari di ogni essere vivente anche gli uomini, e quindi le società, sono sottoposte a regole fondamentali che scaturiscono dall'intreccio stesso delle cose.

Queste regole non debbono considerarsi assolute, cioè indipendenti dallo spazio e dal tempo; esse al contrario, variano al variare delle situazioni; come i vari tipi di governo e delle diverse specie di società. Ma, posta una società di un determinato tipo, sono con ciò stesso dati i principi ai quali essa non può derogare pena la sua rovina.

Conciliare le leggi del tempo con il moto delle passioni è il compito vero del legislatore, perché proprio queste passioni, dice Montesquieu, si raccolgono, si sedimentano, assumono forza trainante, invadono il collettivo e ne determinano l'azione, ne sono l'esprit. "In tutte le società che non sono che un'unità dello spirito si forma un carattere comune. Quest'anima universale assume un modo di pensare che è l'effetto di una catena di cause infinite che si moltiplicano e si combinano di secolo in secolo. quando questo carattere si è dato ed è stato ricevuto, è lui solo che governa e tutto ciò che i sovrani, i magistrati, i popoli possono fare e immaginare, per quanto paia urtare questo carattere, o adeguarvisi, vi si relazionano sempre ed esso domina fino alla totale distruzione".

Forme di governo. Montesquieu nel lungo capitolo XXVIII, l'ultimo del libro diciannovesimo, analizza i generi di poteri, e traccia la costituzione fondamentale di un governo. I tipi di governo degli uomini sono sostanzialmente tre: la repubblica, la monarchia e il dispotismo.

Ciascuno di questi tre tipi ha propri principi e proprie regole da non confondersi tra loro. Il principio che deve informare di sé la repubblica è la virtù, cioè l'amor di patria e dell'uguaglianza; il principio della monarchia è l'onore; il principio del dispotismo, il terrore. "Tali sono i principi dei tre governi; ciò non significa che in una certa repubblica si sia virtuosi, ma che si deve esserlo. Ciò non prova neppure che in una certa monarchia si tenga in conto l'onore e che in uno stato dispotico particolare domini il timore, ma solo che bisognerebbe che così fosse, senza di che il governo sarà imperfetto".

La forma di governo non può prescindere dalle condizioni variabili da cui dipende lo spirito del popolo. E' infatti necessaria la massima integrazione tra l'identità atavica del popolo e la sua qualità caratteristica da una parte, e dall'altra la forma di governo e le leggi che da essa derivano. Ciò in quanto non è possibile, secondo Montesquieu, cancellare o correggere questo spirito che il popolo ha acquisito nel corso di vicissitudini secolari: tale forma mentis collettiva arriverà a condizionare la condotta dei magistrati così come quella dei cittadini. Se uno Stato vuole conservarsi, occorre che tenga conto dello spirito del popolo che lo abita e ad esso si adegui. Montesquieu vede lo Stato come un organismo che tende alla propria autoconservazione, nel quale le leggi riescono a mediare tra le diverse tendenze individuali in vista del perseguimento di un obiettivo comune.

Come non esistono leggi universalmente valide al di là degli specifici contesti applicativi, così non esistono fini ai quali uno Stato debba mirare, sia in riferimento alla cittadinanza, sia per quanto riguarda obiettivi per i quali uno Stato entri in conflitto con altri: unico oggetto degli sforzi della macchina statale deve essere l'autoconservazione, mentre altri fini possono esistere complementarmente a questo (la conquista di un impero, il commercio, la libertà individuale, ecc.), ma non necessariamente sono presenti né restano invariati nel corso dei secoli.

Se le leggi e le forme di governo hanno valore solamente relativo, lo Stato, inteso come aggregazione politica in generale, astraendo cioè dalla sua forma specifica, possiede una sua utilità intrinseca nella misura in cui l'uomo, essere limitato e portato per natura ad errare, trova in esso un senso per la propria esistenza e attività. Mentre l'individuo isolato non persegue alcun fine significativo, lo Stato, aggregazione di molteplici individui, dà forma e contenuto alle aspirazioni dell'uomo.

Il governo repubblicano è quello in cui il popolo, nel suo complesso o soltanto parte di esso, detiene il potere sovrano; il monarchico quello in cui uno solo governa, ma attraverso leggi fisse e stabilite; mentre nel governo dispotico un solo individuo, senza leggi né regole, trascina tutto secondo la sua volontà o i suoi capricci. Quest'ultimo governo non retto dalle leggi ma dalla forza e dall'arbitrio illimitato di un singolo, è considerato da Montesquieu un ordinamento minato da una permanente contraddizione: esso dovrebbe garantire la sicurezza e la pace dei sudditi a prezzo della loro libertà, ma la tranquillità e la sicurezza sono incompatibili con il terrore, che è il principio su cui si fonda il suo potere.

La repubblica (democratica o aristocratica) è la forma di governo in cui il popolo è al tempo stesso monarca e suddito. L'essenza di questo governo è che il popolo fa le leggi e elegge i magistrati, detenendo sia la sovranità legislativa che quella esecutiva. (qui Montesquieu guarda alle repubbliche del mondo antico, entità politiche di limitate dimensioni territoriali, che consentivano a ogni cittadino di essere informato di tutte le questioni che vi si dibattevano. Ma presuppongono altresì la totale devozione del singolo agli interessi della comunità. Mancando queste due fondamentali condizioni le repubbliche decadono e si trasformano in tirannie.

La forma che sta in mezzo è la monarchia regolata o costituzionale, in cui egli vede contemperate le caratteristiche positive sia del regime monarchico assoluto che di quello repubblicano. L'esempio di questa forma di governo a "costituzione mista" è rappresentato dall'Inghilterra, il cui ordinamento Montesquieu considera come la più alta espressione di libertà.

"Può dirsi libera -dice Montesquieu- solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui confidato. L'unica garanzia contro tale abuso è che "il potere arresti il potere", cioè la divisione dei poteri: il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario (i tre poteri fondamentali) debbono essere affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all'altro di esorbitare dai suoi limiti convertendosi in abuso dispotico. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché annullerebbe quella "bilancia dei poteri" che costituisce l'unica salvaguardia o "garanzia" costituzionale in cui risiede la libertà effettiva. Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica".

Proprio in Inghilterra era già stata formulata, da Locke nei suoi Trattati sul governo, una teoria della divisione dei poteri, limitatamente ai primi due poteri (per Locke il terzo potere non era quello giudiziario, ma quello federativo, che dipende dal potere esecutivo): teoria, questa, che verrà perfezionata successivamente da Henry Saint-John Bolingbroke (1678-1751), con il quale Montesquieu venne in contatto nel suo viaggio in Inghilterra.

Una sottolineatura. Per Montesquieu il dispotismo non è una pura e semplice degenerazione del tradizionale potere monarchico dei re di Francia; è una forma (meglio dire un sistema) di governo a sé, storicamente esistita ed esistente in particolari assetti storico-ambientali là ove vi siano le leggi che ne permettono l’esistenza.

Per quanto riguarda la Francia, l’unica forma di governo possibile e reale è, secondo Montesquieu, la monarchia. Dimensione del territorio, clima, strutture sociali, leggi morali dominanti e cultura nel suo significato più vasto, forma e principio, tutto insomma fa sì che la Francia sia per natura delle sue leggi una monarchia. Questa monarchia, proprio perché è un sistema perfetto e scientificamente conoscibile, deve rispettare le sue leggi pena l’inesistenza stessa, non già la semplice degenerazione. 
Deve essere dunque una monarchia temperata da una complessa architettura istituzionale la quale fornisce, più che un freno all’autorità del monarca, una intermediazione di autorità.

Teoria della separazione dei poteri. Viene trattata nel libro XI. Partendo dalla considerazione che "il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente", Montesquieu analizza i tre generi di poteri che vi sono in ogni Stato: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere giudiziario di quelle che dipendono dal diritto civile. Da notare che la divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu, non è pura, in quanto in essa non c'è una netta distinzione tra esecutivo, giudiziario e legislativo, essendo ammessa la possibilità di fondere la carica giudiziaria con quella legislativa.

"Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, poiché si può temere che lo stesso monarca, o lo stesso senato, facciano leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e dall'esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati".

La democrazia delegata. Premessa fondamentale della teoria della separazione dei poteri è la democrazia delegata. "Poiché, in uno Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve governarsi da se medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo. Ma siccome ciò è impossibile nei grandi Stati, e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto quello che non può fare da sé. Si conoscono molto meglio i bisogni della propria città che quelli delle altre città, e si giudica meglio la capacità dei propri vicini che quella degli altri compatrioti. Non bisogna dunque, che i membri del corpo legislativo siano tratti in generale dal corpo della nazione, ma conviene che in ogni luogo principale gli abitanti si scelgano un rappresentante. Il grande vantaggio dei rappresentanti è che sono capaci di discutere gli affari. Il popolo non vi è per nulla adatto, il che costituisce uno dei grandi inconvenienti della democrazia".

Il potere legislativo. In forza del potere legislativo, il principe, o il magistrato, fa le leggi per un certo tempo o per sempre, e corregge o abroga quelle che sono già state fatte.

"Il potere legislativo verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo, ciascuno dei quali avrà le proprie assemblee e le proprie deliberazioni a parte, e vedute e interessi distinti. Dei tre poteri, quello giudiziario è in qualche senso nullo. Non ne restano che due; e siccome hanno bisogno di un potere regolatore per temperarli, la parte del corpo legislativo composta di nobili è adattissima a produrre questo effetto". Montesquieu dimostra di preferire il ceto aristocratico, che è considerato come depositario del principio della moderazione, che garantisce lo stato liberale. Questo principio distingue l'aristocrazia dalla democrazia, caratterizzata invece dal principio dall'uguaglianza, sebbene entrambe - aristocrazia e democrazia - siano forme di governo legittimo e repubblicano.

"Se il corpo legislativo fosse riunito in permanenza, potrebbe capitare che non si facesse che sostituire nuovi deputati a quelli che muoiono; e in questo caso, una volta che il corpo legislativo fosse corrotto, il male sarebbe senza rimedio. Quando diversi corpi legislativi si susseguono gli uni agli altri, il popolo, che ha cattiva opinione del corpo legislativo attuale, trasferisce, con ragione, le proprie speranze su quello che succederà. Ma se si trattasse sempre dello stesso corpo, il popolo, una volta vistolo corrotto, non spererebbe più niente dalle sue leggi, s'infurierebbe o cadrebbe nell'apatia".

Il potere esecutivo. In forza del potere esecutivo, il sovrano fa la pace o la guerra, invia o riceve ambasciate, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. "Il potere esecutivo deve essere nelle mani d'un monarca perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d'una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi; mentre ciò che dipende dal potere legislativo è spesso ordinato meglio da parecchi anziché da uno solo".

"Il potere esecutivo deve prender parte alla legislazione con la sua facoltà d'impedire di spogliarsi delle sue prerogative. Ma se il potere legislativo prende parte all'esecuzione, il potere esecutivo sarà ugualmente perduto. Se il monarca prendesse parte alla legislazione con la facoltà di statuire, non vi sarebbe più libertà. Ma siccome è necessario che abbia parte nella legislazione per difendersi, bisogna che vi partecipi con la sua facoltà d'impedire. Il corpo legislativo essendo composto di due parti, l'una terrà legata l'altra con la mutua facoltà d'impedire. Tutte e due saranno vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello legislativo".

Il potere giudiziario. In forza del potere giudiziario, il magistrato punisce i delitti o giudica le controversie dei privati. "Il potere giudiziario non dev'essere affidato a un senato permanente, ma dev'essere esercitato da persone tratte dal grosso del popolo, in dati tempi dell'anno, nella maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto quanto lo richiede la necessità. In tal modo il potere giudiziario, così terribile fra gli uomini, non essendo legato né a un certo stato né a una certa professione, diventa, per così dire, invisibile e nullo. Non si hanno continuamente dei giudici davanti agli occhi, e si teme la magistratura e non i magistrati. Bisogna inoltre che, nelle accuse gravi, il colpevole, d'accordo con le leggi, si scelga i giudici; o per lo meno che possa rifiutarne un numero tale che quelli che rimangono siano reputati essere di sua scelta. Gli altri due poteri potrebbero esser conferiti piuttosto a magistrati o ad organismi permanenti, poiché non vengono esercitati nei riguardi di alcun privato: non essendo, l'uno, che la volontà generale dello Stato, e l'altro che l'esecuzione di questa volontà. Ma se i tribunali non devono essere fissi, i giudizi devono esserlo a un punto tale da costituire sempre un preciso testo di legge. Se fossero una opinione particolare del giudice, si vivrebbe nella società senza conoscere esattamente gli impegni che vi si contraggono".

Libertà politica. In una società dove ci sono delle leggi, la libertà può consistere soltanto nel poter fare ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere. "La libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono.... La democrazia e l'aristocrazia non sono Stati liberi per loro natura. La libertà politica non si trova che nei governi moderati. Tuttavia non sempre è negli Stati moderati; vi è soltanto quando non si abusa del potere; ma è una esperienza eterna che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad abusarne... Perfino la virtù ha bisogno di limiti. Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere".

Montesquieu sostiene che solamente il governo moderato garantisce la libertà politica, cioè la possibilità di fare tutto ciò che non è proibito dalla legge. In questo senso Montesquieu ha una concezione negativa della libertà; infatti, quando sostiene che la libertà è la possibilità di fare tutto ciò che non lede i diritti altrui e che non si oppone alle leggi, pone l'accento su ciò che essa non deve ostacolare. Da questa definizione derivano tutti gli stati liberali.

La libertà è garantita delle leggi civili e da quelle che istituiscono il passaggio dallo stato di natura a quello civile. Questo passaggio avviene per garantire i diritti fondamentali di proprietà, posseduti dall'uomo in quanto tale; il modello di libertà politica di Montesquieu presuppone dunque quello di proprietà. Secondo Montesquieu, il vantaggio di un popolo libero è la sicurezza di non vedere i propri beni e la propria vita in mano ad un singolo. Per lui le leggi sono un "male" inevitabile, dovuto alla necessità di regolare il comportamento degli individui; gli individui però non devono essere prigionieri dello Stato.

"Siccome tutte le cose umane hanno una fine, lo Stato di cui parliamo perderà la sua libertà, perirà. Roma, Sparta e Cartagine sono pur perite. Perirà quando il potere legislativo sarà più corrotto di quello esecutivo".

Il fatto che la libertà stia nell'armonia e nell'ordine delle cose che si autoconservano porta ovviamente a credere che lo Spirito delle Leggi sia stato scritto per migliorare le forme dello status quo conservandolo nella sostanza. La stessa divisione dei poteri non è che un servizio reso all'unità del potere costituito, l'antidoto a un mutamento radicale che evidentemente Montesquieu sentiva come inevitabile. La moderazione del potere, di cui egli si faceva paladino, è la missione dell'assolutismo di perpetuare se stesso attraverso la procedura di scambio tra concessione del privilegio e raccolta del consenso. "Per formare un governo moderato -dice Montesquieu- bisogna combinare i poteri, regolarli, farli agire, dare, per così dire, un contrappeso a uno per metterlo in grado di resistere a un altro". Più che di poteri però si tratta di "forze", poiché il concetto di "potere" (quello p.es. del Terzo Stato) è proprio dei rivoluzionari, e più che di "separazione dei poteri" bisognerebbe parlare della loro "interdipendenza necessaria" per vincere le trasformazioni alle quali fatalmente conducono la socializzazione della sovranità, la rinuncia al divino e la centralità del sociale.

Diritto di voto. "Tutti i cittadini, nei vari distretti, devono avere il diritto di dare il loro voto per scegliere il rappresentante, eccetto quelli che sono in uno stato di inferiorità tale da esser reputati privi di volontà propria. La maggior parte delle antiche repubbliche aveva un grave difetto: il popolo, cioè, deteneva il diritto di prendervi delle risoluzioni attive, che comportano una certa esecuzione, cosa di cui è completamente incapace. Esso non deve entrare nel governo che per scegliere i propri rappresentanti, il che è pienamente alla sua portata. Infatti, se poche sono le persone che conoscono l'esatto grado di capacità degli uomini, ciascuno tuttavia è in grado di sapere, in generale, se colui che sceglie è più illuminato della maggior parte degli altri". Montesquieu però negava il diritto di voto a chi non fosse proprietario o in una situazione non assimilabile a quella di proprietario, dotato di averi.

L'Assemblea Nazionale Costituente, il 29 ottobre 1789, quando fissò le norme per i cittadini che intendevano farsi eleggere a cariche politiche, si ispirò alle dottrine del Montesquieu. Il diritto di voto fu riservato ai soli cittadini attivi, cioè solo i più ricchi potevano accedere alle cariche pubbliche e quindi dirigere la vita politica ed economica del Paese. Su 25 milioni di abitanti che aveva la Francia, risultarono potenzialmente eleggibili solo 50.000.

Concezione della legge. Montesquieu definisce la legge come "il rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose", e ritiene che ogni essere ha la sua legge, quindi anche l'uomo. Ma le leggi alle quali l'uomo obbedisce nella sua storia non hanno nulla di necessitante. L'ordine della storia non è mai un fatto, né mai un semplice ideale superiore ed estraneo ai fatti storici: è la legge di tali fatti, la loro normatività, il dover essere a cui essi possono più o meno avvicinarsi e adeguarsi.

Gli uomini producono le loro leggi, vivono in rapporto con altre che a loro preesistono: queste regole sono "tra loro in relazione e con la loro origine, con lo scopo che si prefigge il legislatore, con l'ordine naturale delle cose per le quali sono state istituite. Accade allora che quell'impasto di relazioni di potere tra gli uomini (o tra gli uomini e il potere) che il tempo lavora e che sfuggono alla volontà individuale anche se la muovono, e che chiamiamo costumi, tradizioni, comportamenti collettivi, credenze e miti di una certa società, sono le leggi delle leggi, lo "spirito" che occorre penetrare per coniugare i mutevoli rapporti tra tempo e potere.

E poiché le leggi sono rapporti costanti, accade anche nel sociale che "ogni diversità è uniformità, ogni mutamento è continuità. L'uomo, "questo essere flessibile che si piega nella società ai pensieri e alle impressioni degli altri», è dunque il prodotto mutevole dei costumi e dello "spirito" delle leggi che lo formano e lo modificano". "Molte cose governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime di governo, gli esempi dell'antichità, i costumi, le usanze; da ciò consegue uno spirito generale che ne è il risultato. A misura che in ogni nazione una di queste cause agisce con maggiore forza, le altre la cedono in proporzione".

Il compito del sapere è dunque ricercare le condizioni di equilibrio tra i molteplici campi magnetici che le relazioni tra gli uomini istituiscono e produrre leggi che, rispettando lo "spirito generale", e cioè il comune sentire, assicurino il durare degli Stati evitando ogni collisione con l'ordine del tempo.

La ricerca di Montesquieu è diretta a mostrare come ogni tipo di governo si realizzi e si articoli in un insieme di leggi specifiche riguardanti i più diversi aspetti dell'attività umana e costituenti la struttura del governo stesso. Queste leggi riguardano l'educazione, l'amministrazione della giustizia, il lusso, il matrimonio e insomma l'intero costume civile. Dall'altro lato ogni tipo di governo si corrompe quando viene meno al suo principio, ed una volta corrotto, le migliori leggi divengono cattive e si rivoltano contro lo Stato stesso. Così gli eventi della storia, il sorgere e il decadere delle nazioni, non sono frutti del caso o dell'arbitrio, ma possono essere intesi nelle loro cause, che sono le leggi o i principi della storia stessa; e dall'altro canto non hanno alcuna necessità fatale e conservano quel carattere problematico in cui si riflette la libertà del comportamento umano.

Non può esistere su queste premesse alcun criterio pratico di valutazione della legislazione di uno Stato al di fuori della semplice constatazione della sua prosperità o del suo declino. Il valore delle leggi non è dunque assoluto: una legge è buona o cattiva a seconda del suo grado di adeguatezza ai cittadini per i quali essa è vincolante (o ha la pretesa di esserlo). Lo spirito umano è per Montesquieu incapace di definire quei valori assoluti ai quali, in teoria, il diritto positivo si dovrebbe uniformare.

L'unico modo in cui è possibile accostarsi con imparzialità alle leggi per giudicarne l'operato è quello di considerarle sempre all'interno del copro legislativo a cui appartengono, studiare la loro organicità e la loro efficacia nel raggiungimento di fini non in contraddizione gli uni con gli altri. L'unica disarmonia ammessa tra le leggi è quella che si costituisce in vista di un obiettivo particolarmente importante, come la coesione sociale , la quale può essere ottenuta talora solo promulgando leggi diverse a seconda dei soggetti cui fanno riferimento. Secondo Montesquieu "le leggi umane statuiscono sul bene, non sul meglio: di beni ne esistono molti, ma il meglio è uno solo". E il meglio non è conoscibile, né può essere tradotto in leggi applicabili nella concretezza storica.

Teoria del clima. Nelle Considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei romani, Montesquieu afferma che il clima ha un ruolo importante nella storia di una società, perché esso è sia un fattore fisico sia un fattore politico. Egli però non crede che il clima influenzi in modo determinante le leggi e i costumi dello stato. Il buon legislatore deve infatti saper contrastare il clima solamente in determinate società: esso infatti governa solo i popoli selvatici, mentre, grazie allo sviluppo civile, sono i fattori morali ad aver acquistato maggior importanza, riducendo l'azione del clima.

Critiche a Montesquieu

•               Rousseau si opporrà alla democrazia delegata proponendo la democrazia diretta.

•               Secondo Montesquieu la vita della collettività è determinata dalla forza superiore e impersonale della legge. Tutti si devono piegare ad essa, persino il re. E le leggi sono un prodotto della storia: le può proporre un legislatore, talora un popolo, oppure nascono per imitazione dello Stato con cui si confina.

•               La Rivoluzione francese rifiuta di considerare le leggi prodotto dell'iniziativa di un singolo o di un gruppo, data l'arbitrarietà che questa operazione comporterebbe, sia come condizione preliminare alla formulazione della legge stessa, sia come conseguenza dell'assolutezza di cui sarebbe dotato il legislatore rispetto alla sua creatura.

•               Alla natura impersonale della legge non può che corrispondere la non personalità di chi l'ha promulgata: è la volontà generale a avere il diritto di statuire sulla comunità che la esprime, proprio perché solo così chi è tenuto all'osservanza della legge coincide con chi tale legge ha promulgato. In definitiva, la soluzione della sovranità popolare è l'unica a consentire che il legislatore non coincida con un soggetto personale in senso stretto.

•               Nel suo Stato sono le leggi a doversi armonizzare con lo spirito del popolo e le sue tradizioni, invece la Rivoluzione Francese vede l'anima dello Stato come soggetto della legge, detentore legittimo del potere legislativo e quindi della sovranità.

•               Montesquieu sostituiva uno Stato di fatto a quello di diritto. Non basta badare a ciò che è, occorre anche progettare ciò che dovrebbe essere. Così i rivoluzionari dell'89.

•               Occorre definire una giustizia ideale cui uniformare la vita dello Stato: solo così si possono migliorare e correggere le leggi considerate inique.

•               Per Montesquieu la libertà è uno dei tanti fini perseguibili dallo Stato accanto a quello fondamentale dell'autoconservazione. Al contrario, la Rivoluzione vede lo Stato legittimo basarsi sul diritto e orientare i propri sforzi verso il godimento universale di ciò che quel diritto sancisce: se la libertà è un diritto fondamentale dell'individuo, essa non è uno dei tanti obiettivi, ma deve essere annoverata tra gli scopi istituzionali della comunità politica.

•               Per Montesquieu la libertà è finalizzata alla conservazione della proprietà privata.

top


http://www.homolaicus.com

Lo Spirito Delle Leggi 1748
di Charles-Louis Montesquieu


Libro primo - Delle leggi in generale

capitolo I - delle leggi, nei rapporti che hanno con i diversi esseri

Le leggi, intese nel loro significato più ampio sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose, e in questo senso tutti gli esseri hanno le loro leggi: la Divinità ha le sue leggi, il mondo materiale ha le sue leggi, le Intelligenze superiori all'uomo hanno le loro leggi, le bestie hanno le loro leggi, l'uomo ha le sue leggi. Chi disse che una cieca fatalità ha prodotto tutti gli effetti che vediamo nel mondo, disse una grande assurdità: infatti, che cosa ci può essere di più assurdo di una cieca fatalità che avrebbe prodotto esseri intelligenti? Vi è dunque una ragione originaria; e le leggi sono le relazioni fra quella ragione e i diversi esseri, e le relazioni di quei diversi esseri fra loro. (...) Prima che vi fossero leggi stabilite, vi erano rapporti di giustizia possibili. Dire che non vi sia niente di giusto né d'ingiusto al di fuori di quello che prescrivono o proibiscono le leggi positive, è come dire che prima che venisse disegnato il circolo, i suoi raggi non erano tutti uguali.

capitolo II - delle leggi della natura

Innanzi a tutte le leggi su riferite vengono quelle della natura, così dette perché derivano unicamente dalla costituzione del nostro essere. Per conoscerle bene, bisogna considerare l'uomo prima che fosse istituita la società. Le leggi della natura sarebbero quelle che egli riceverebbe in un simile stato. La legge che imprimendo in noi l'idea di un Creatore ci porta verso di lui, è la prima delle leggi naturali per la sua importanza, ma non nell'ordine di queste leggi. L'uomo allo stato di natura avrebbe la facoltà di conoscere piuttosto che conoscenza. t ovvio che le sue prime idee non sarebbero speculative: egli cercherebbe di conservare la propria esistenza prima d'indagarne l'origine. Un uomo simile non sentirebbe dapprima che la sua debolezza; la sua timidità sarebbe estrema; se ci fosse bisogno di ricorrere all'esperienza, ricordiamo che si sono trovati, nei boschi, uomini selvaggi: tutto li fa tremare, tutto li fa fuggire. In queste condizioni ciascuno si sente in stato d'inferiorità, o appena appena uguale agli altri. Nessuno cercherebbe dunque di attaccare, e la pace sarebbe la prima legge naturale. Quello che ritiene Hobbes, e cioè che gli uomini proverebbero sin dal principio il desiderio di sottomettersi a vicenda, non è ragionevole. L'idea dell'impero e del dominio è talmente complessa e dipende da tante altre idee che non sarebbe certo quella che viene in mente per prima. "Perché mai gli uomini" si domanda Hobbes "se non sono naturalmente in stato di guerra, vanno sempre armati, e perché hanno delle chiavi per chiudere le loro case?" Ma non si vede che qui si attribuisce agli uomini prima dell'istituzione delle società, ciò che accade soltanto dopo detta istituzione, la quale può offrire i motivi per attaccare e per difendersi. Al sentimento della sua debolezza l'uomo unirebbe quello dei suoi bisogni. E così un'altra legge naturale sarebbe quella che lo spingerebbe a procacciarsi il cibo. Ho detto che la paura porterebbe gli uomini a fuggirsi, ma i segni della paura reciproca li convincerebbero in breve ad avvicinarsi. A ciò sarebbero portati, del resto, dal piacere che ogni animale trae dall'incontro con un animale della stessa specie. Di più, il fascino che si ispirano i due sessi con le loro differenze, aumenterebbe questo piacere, e la preghiera naturale che si rivolgono sempre l'un l'altro sarebbe una terza legge. Oltre al sentimento, che posseggono sin dal principio, gli uomini giungono ad avere delle cognizioni; ed ecco un secondo legame che gli altri animali non conoscono. Hanno dunque un nuovo motivo di unirsi, e il desiderio di vivere in società è una quarta legge naturale.

capitolo III - delle leggi positive

Non appena si costituiscono in società, gli uomini perdono il senso della loro debolezza, cessa l'uguaglianza che esisteva fra loro e ha inizio lo stato di guerra. Ogni singola società diviene consapevole della propria forza, il che dà origine a uno stato di guerra fra nazione e nazione. Del pari in ogni società i privati cominciano a conoscere la propria forza cercano di rivolgere a loro favore i vantaggi principali di questa società, e ciò crea fra di essi uno stato di guerra. Questi due tipi di stato di guerra determinano l'istituzione delle leggi fra gli uomini. In quanto abitanti di un pianeta tanto grande che non possono non esservi popoli diversi, essi hanno leggi che regolano le relazioni di quei popoli fra loro, e questo è il DIRITTO DELLE GENTI. In quanto vivono in una società che dev'essere conservata, hanno leggi che regolano le relazioni fra i governanti e i governati, ed ecco il DIRITTO POLITICO. Altre infine ne hanno che. regolano i rapporti che tutti i cittadini hanno fra loro, ed è questo il DIRITTO CIVILE. Il diritto delle genti è fondato secondo natura sul principio che le varie nazioni debbano farsi in tempo di pace il maggior bene e in tempo di guerra il minor male possibile, senza nuocere ai loro veri interessi. Lo scopo della guerra è la vittoria; quello della vittoria è la conquista; quello della conquista, la conservazione. Da questo principio, e dal precedente, devono derivare tutte le leggi che formano il diritto delle genti. Oltre al diritto delle genti che riguarda tutta la società, vi è per ciascuna un diritto politico. Nessuna società potrebbe sussistere senza un governo. (...) La forza generale può esser messa nelle mani di un solo o nelle mani di molti. Alcuni ritengono che, poiché la natura ha stabilito la potestà patema, il governo di uno solo sia più conforme alla natura. (... ) È meglio dire che il governo più conforme alla natura è quello il cui particolare carattere si accorda meglio al carattere del popolo per cui è stabilito. Le forze particolari non si possono unire senza che si uniscano tutte le volontà. (...) La legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli della terra, e le leggi politiche e civili di ogni nazione non devono costituire che i casi particolari ai quali si applica questa ragione umana. Devono essere talmente adatte ai popoli per i quali sono state istituite, che è incertissimo se quelle di una nazione possano convenire a un'altra. È necessario che siano relative alla natura e al principio del governo stabilito o che si vuole stabilire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche, sia che lo conservino, come fanno le leggi civili. Devono essere corrispondenti alle caratteristiche fisiche del paese; al clima - freddo, ardente o temperato -; alle qualità del suolo, alla sua situazione, alla sua ampiezza; al genere di vita dei popoli, agricoltori, cacciatori o pastori; devono rifarsi al grado di libertà che la costituzione può permettere, alla religione degli abitanti all'indole di essi, alla loro ricchezza, al numero, al commercio, agli usi e costumi. Hanno, infine, relazioni fra loro, ne hanno con la loro origine, con lo scopo del legislatore, con l'ordine delle cose su cui sono stabilite. là quindi necessario che vengano considerate sotto tutti questi punti di vista. E appunto ciò che tenterò di fare nell'opera presente: esaminerò tutte queste relazioni che costituiscono, nel loro insieme, quello che si chiama lo SPIRITO DELLE LEGGI. Non ho separato le leggi politiche da quelle civili perché, dato che non tratto delle leggi, ma dello spirito di esse, e dato che questo spirito consiste nei vari rapporti che le leggi possono avere con cose diverse, ho dovuto seguire non tanto l'ordine naturale delle leggi stesse quanto quello di questi rapporti e di queste cose. Comincerò con l'esaminare i rapporti delle leggi con la natura e col principio di ciascun governo e poiché questo principio ha un'influenza suprema sulle leggi, mi dedicherò a conoscerlo a fondo: e qualora mi riuscirà di stabilirlo, se ne vedranno scaturire le leggi come dalla loro sorgente. Passerò quindi alle altre relazioni che sembrano più particolari.

Libro secondo - Delle leggi che derivano direttamente dalla natura

capitolo I - della natura dei tre diversi governi

Vi sono tre specie di governi: il REPUBBLICANO, il MONARCHICO e il DISPOTICO. Per scoprisse la natura basta l'idea che ne hanno gli uomini meno istruiti. Io suppongo tre definizioni, o meglio tre situazioni di fatto: che il governo repubblicano è quello in cui tutto il popolo, o soltanto una parte del popolo, detiene il potere sovrano; il monarchico, quello in cui governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse e stabilite; mentre nel dispotico uno solo, senza legge e senza regola, trascina tutto con la sua volontà e i suoi capricci. Ecco quello che chiamo la natura di ogni governo. Bisogna vedere quali sono le leggi che scaturiscono da questa natura, e che, in conseguenza, sono le prime leggi fondamentali.

capitolo II - del governo repubblicano e delle leggi relative alla democrazia

Quando, nella repubblica, il popolo in corpo ha il potere sovrano, ci troviamo in una democrazia. Quando il potere sovrano è nelle mani di una parte del popolo, questa situazione si chiama aristocrazia. Il popolo nella democrazia è, sotto certi aspetti, il monarca. sotto certi altri è il suddito. Non può essere monarca se non per i suoi suffragi che sono la sua volontà. La volontà del sovrano è il sovrano stesso. Le leggi che stabiliscono il diritto di voto sono dunque fondamentali in questo governo. Infatti, stabilire come, da parte di chi e su che cosa devono essere dati i suffragi, è altrettanto importante che, in una monarchia, sapere chi è il monarca e in qual modo deve governare (... ). È essenziale fissare il numero dei cittadini che devono formare le assemblee; senza di che si potrebbe non sapere se ha parlato il popolo o solamente una parte del popolo. A Sparta si richiedevano diecimila cittadini. A Roma, nata piccola per,arrivare -alla grandezza; a Roma, destinata a conoscere tutte le vicissitudini della sorte; a Roma, che aveva talvolta quasi tutti i suoi cittadini fuori le mura e talvolta tutta l'Italia e una parte della terra entro le mura, questo numero non era stato fissato, e fu questa una delle cause principali della sua rovina. Il popolo che detiene il potere sovrano deve fare direttamente tutto quello che è in grado di fare bene; e quello che non è in grado di fare bene, è necessario che lo faccia per mezzo dei suoi ministri. I ministri non sono suoi se non è lui che li nomina: è dunque un principio fondamentale di questo governo che il popolo nomini i suoi ministri, vale a dire i suoi magistrati. Al pari dei monarchi, ed anche di più, ha bisogno di essere guidato da un consiglio, o senato. Ma perché il popolo vi abbia fiducia, bisogna che ne elegga i membri; sia che li scelga lui stesso, come in Atene, sia che li scelga per mezzo di qualche magistrato stabilito per eleggerli, come si praticava a Roma in alcune occasioni. (…) Come la maggior parte dei cittadini, che hanno sufficiente capacità per eleggere, ma non ne hanno abbastanza per essere eletti, così il popolo, che ha abbastanza capacità per farsi render conto dell'amministrazione altrui. non è adatto ad amministrare da sé. Bisogna che gli affari vadano avanti, e che vadano avanti in un certo modo, né troppo lento né troppo veloce. Ma il popolo ha sempre troppa attività, o troppo poca. Talvolta con centomila braccia rovescia tutto, talaltra, con centomila piedi, non avanza che come un insetto. Nello Stato popolare, si divide il popolo in date classi. E appunto nel modo di fare questa divisione che si sono segnalati i grandi legislatori; e da questa sono sempre dipese la durata della democrazia e la sua prosperità. (…) Come la divisione di coloro che hanno diritto di voto è, nella repubblica, una legge fondamentale, così la maniera di darlo è un'altra legge fondamentale. Il suffragio a sorte è proprio della natura della democrazia, il suffragio a scelta lo è di quella dell'aristocrazia. La sorte è un modo d. eleggere che non affligge nessuno; lascia a ciascun cittadino una ragionevole speranza di servire la patria. Tuttavia, essendo di per sé un sistema difettoso, i grandi legislatori hanno cercato di sempre meglio regolarlo e correggerlo. (…) La legge che fissa le modalità del suffragio è un'altra legge fondamentale della democrazia. È un gran problema se i suffragi debbano essere pubblici o segreti. Cicerone scrive che le leggi che li resero segreti negli ultimi tempi della repubblica romana, furono una delle cause principali della sua caduta. Siccome ciò si pratica diversamente in differenti repubbliche, ecco, credo, quello che conviene pensarne. Non v'è dubbio che quando il popolo dà suffragi, questi devono essere pubblici, e ciò deve essere considerato una legge fondamentale nella democrazia. Bisogna che il basso popolo sia illuminato dai principali cittadini, e tenuto a freno dalla serietà di alcuni personaggi. Fu così che nella repubblica romana, col rendere segreti i suffragi, si rovinò tutto: non fu più possibile illuminare una plebaglia che andava perdendosi. Ma quando in un'aristocrazia il corpo dei nobili dà suffragi, o, in una democrazia il senato, siccome non si tratta in tal caso che d'impedire i brogli, i suffragi non potrebbero essere mai troppo segreti. Il broglio è pericoloso in un senato; è pericoloso in un corpo di nobili: non lo è nel popolo, la cui natura è di agire per passione. Negli Stati in cui non ha parte al governo, si scalderà per un attore, come lo avrebbe fatto per gli affari. La disgrazia, in una repubblica, è quando non ci sono più brogli; e ciò avviene quando il popolo è stato corrotto col denaro: si raffredda, si affeziona all'oro, ma non si affeziona più agli affari: senza preoccuparsi del governo e di quello che vi si propone, aspetta tranquillamente il suo salario. Un'altra legge fondamentale della democrazia è che solo il popolo faccia le leggi. Vi sono tuttavia mille occasioni in cui è necessario che il senato possa deliberare; spesso anche conviene mettere in prova una legge prima di stabilirla. La costituzione di Roma e quella di Atene erano saggissime. I decreti del senato avevano forza di legge per un anno; non divenivano perpetui che per volontà del popolo.

capitolo III - delle leggi relative alla natura dell'aristocrazia

Nell'aristocrazia il potere sovrano è nelle mani di un certo numero di persone. Sono queste che fanno le leggi e le fanno eseguire; il resto del popolo non è tutt'al più, rispetto a esse, se non quello che in una monarchia sono i sudditi rispetto al monarca. Non vi si devono dare i voti a sorte; non se ne avrebbero che gli inconvenienti. Difatti, in un governo che ha già stabilito le più dure distinzioni, non si sarebbe meno odiosi anche se si sarebbe eletti a sorte: è il nobile che viene invidiato, non il magistrato. Quando i nobili sono in gran numero, è necessario un senato per regolare gli affari che il corpo dei nobili non sarebbe in grado di decidere, e preparare quelli su cui decidere. In tal caso, si può dire che l'aristocrazia è in qualche modo nel senato, la democrazia nel corpo dei nobili, e che il popolo non è niente. Sarà cosa felicissima, nell'aristocrazia, se, per qualche via indiretta, si farà uscire il popolo dal suo annientamento; così a Genova il Banco di San Giorgio, che è amministrato in gran parte dai principali personaggi del popolo, conferisce a questo una certa influenza nel governo, che ne fa tutta la prosperità. (...) La migliore aristocrazia è quella in cui la parte del popolo che non partecipa al potere è tanto piccola e tanto povera, che la parte dominante non ha nessun interesse a opprimerla. Così Antipatro, quando stabilì in Atene che coloro che non possedevano duemila dramme fossero esclusi dal diritto di voto, formò la migliore aristocrazia possibile; infatti questo censo era tanto modesto che escludeva poca gente, e nessuno che godesse di qualche considerazione nella città. Le famiglie aristocratiche, dunque, devono essere popolo per quanto possibile. Quanto più una aristocrazia si avvicinerà alla democrazia, tanto più sarà perfetta; e lo diverrà tanto meno, a misura che si avvicinerà alla monarchia. La più imperfetta di tutte è quella in cui la parte del popolo che obbedisce è in condizione di servitù civile rispetto a quella che comanda, come l'aristocrazia della Polonia, dove i contadini sono schiavi della nobiltà.

capitolo IV - delle leggi nel loro rapporto con la natura del governo monarchico

I poteri intermedi, subordinati e dipendenti, costituiscono la natura del governo monarchico, cioè di quello in cui uno solo governa per mezzo di leggi fondamentali. Ho detto i poteri intermedi, subordinati e dipendenti: in effetti, nella monarchia, il principe è la fonte di ogni potere politico e civile. Queste leggi fondamentali presuppongono necessariamente dei canali medianti per i quali scorre il potere: poiché, se non vi fosse nello Stato che la volontà momentanea e capricciosa di uno solo, nulla potrebbe essere fisso, e per conseguenza non vi sarebbe nessuna legge fondamentale. Il potere intermedio subordinato più naturale è quello della nobiltà. Essa entra in qualche modo nell'essenza della monarchia, la cui massima fondamentale è: dove non c'è monarca, non c'è nobiltà: dove non c'è nobiltà non c'è monarca. Ma c'è un despota. (...) Non basta che vi siano, in una monarchia, degli ordini intermedi; occorre anche un deposito di leggi. Questo deposito non può essere che nei corpi politici, i quali annunciano le leggi quando vengono fatte e le ricordano quando vengono dimenticate. La naturale ignoranza dei nobili, la loro indifferenza, il loro disprezzo per il governo civile esigono che vi sia un corpo che faccia uscire senza posa le leggi dalla polvere dove rimarrebbero seppellite. Il Consiglio del principe non è un deposito conveniente. Esso è, per la sua stessa natura, il deposito della volontà momentanea del principe che ha il potere esecutivo, e non il deposito delle leggi fondamentali. Inoltre, il Consiglio del monarca cambia senza posa; non è permanente; non potrebbe essere numeroso; non gode in grado abbastanza alto la fiducia del popolo: non è perciò in condizione d'illuminarlo in tempi difficili, né di ricondurlo all'obbedienza. Negli Stati dispotici, dove non vi sono leggi fondamentali, non vi è nemmeno un deposito di leggi. Da ciò deriva che in questi paesi la religione ha di solito tanta forza, in quanto forma di una specie di deposito e di continuità; e, se non è la religione, sono le consuetudini che vi sono venerate, al posto delle leggi.

capitolo V - delle leggi relative alla natura dello stato dispotico

Dalla natura stessa del potere dispotico deriva che l'uomo solo che l'esercita lo faccia del pari esercitare da uno solo. Un uomo a cui i suoi cinque sensi dicono senza posa che egli è tutto, e che gli altri non sono niente, è naturalmente pigro, ignorante, voluttuoso. Abbandona quindi gli affari. Ma se li confidasse a parecchi, sorgerebbero fra quelli dei contrasti; si brigherebbe per essere il primo fra gli schiavi; il principe sarebbe costretto a rientrare nell'amministrazione. E più semplice perciò che l'abbandoni ad un visir, il quale avrà sin dal principio lo stesso potere di lui. L'istituzione di un visir è in questo Stato, una legge fondamentale. (...)

Libro terzo - Dei principi dei tre governi

capitolo I - differenza fra la natura del governo e il suo principio

Dopo aver esaminato quali sono le leggi relative alla natura di ciascun governo, occorre vedere quelle che lo sono al principio di esso. Fra la natura del governo e il suo principio, vi è questa differenza, che la sua natura è ciò che lo fa essere quello che è, e il suo principio ciò che lo fa agire. L'una è la sua struttura particolare, e l'altro le passioni umane che lo fanno muovere. Ora, le leggi non devono essere meno relative al principio di ogni governo che alla sua natura. Bisogna dunque ricercare quale sia il principio. E quello che farò in questo libro.

capitolo Secondo - del principio dei diversi governi

Ho detto che la natura del governo repubblicano consiste in ciò che il popolo in corpo, o alcune date famiglie, vi abbia il potere sovrano: quella del governo monarchico, che il principe vi abbia il potere sovrano, ma lo eserciti secondo leggi stabilite: quella del governo dispotico, che uno solo vi governi secondo le sue volontà e i suoi capricci. Non ho bisogno di più per ritrovare i loro tre principi: ne derivano naturalmente. Comincerò dal governo repubblicano, e parlerò dapprima del democratico.

capitolo III - del principio della democrazia

Non ci vuole molta probità perché un governo monarchico o un governo dispotico si mantenga o si sostenga. La forza delle leggi nell'uno, il braccio del principe sempre alzato nell'altro, regolano e tengono a freno tutto. Ma in uno stato popolare ci vuole una molla di più, che è la VIRTU'. Quello che dico è confermato dall'intero complesso della storia, ed è pienamente conforme alla natura delle cose. Poiché è chiaro che in una monarchia, dove chi fa eseguire le leggi si giudica al di sopra delle leggi stesse, si ha minor bisogno di virtù che in un governo popolare, dove chi fa eseguire le leggi sente di esservi sottomesso lui stesso e di portarne il peso. t chiaro altresì che il monarca il quale, perché mal consigliato o per negligenza, cessa di far eseguire le leggi, può facilmente rimediare al male: basta che cambi il Consiglio, o si corregga al punto di questa negligenza. Ma quando, in un governo popolare, le leggi hanno cessato d'esser messe in esecuzione, siccome ciò non può dipendere che dalla corruzione della repubblica,lo Stato è già perduto. (...)

capitolo IV - del principio dell'aristocrazia

Come nel governo popolare è necessaria la virtù, ce ne vuole anche nell'aristocrazia. là vero che non vi è richiesta in modo tanto assoluto. Il popolo, che è, rispetto ai nobili, quello che i sudditi sono rispetto al monarca, è tenuto a freno dalle loro leggi. Ha quindi minor bisogno di virtù di quanto non ne abbia il popolo nella democrazia. Ma come saranno tenuti a freno i nobili? Coloro che dovranno far eseguire le leggi contro i loro colleghi, sentiranno per prima cosa di agire contro se stessi. La virtù è dunque necessaria in questo corpo, per la natura stessa della costituzione. Il governo aristocratico ha di per sè una certa forza che la democrazia non ha. I nobili vi formano un corpo che, per la sua prerogativa e il suo interesse privato, reprime il popolo: basta che vi siano delle leggi, perché vengano messe in esecuzione a tale scopo. Ma per questo corpo è altrettanto facile reprimere gli altri, quanto è difficile reprimere se stesso. La natura di questa costituzione è tale, che sembra mettere le stesse persone sotto la potestà delle leggi, e insieme sottrarle ad essa. Ora, un corpo siffatto può reprimere se stesso in due modi soltanto: mediante una grande virtù, che faccia sì che i nobili si trovino in qualche modo uguali al popolo, il che può formare una grande repubblica; o mediante una virtù minore, cioè una certa moderazione, che rende i nobili per lo meno uguali a se stessi, il che fa la loro conservazione. L'anima di questi governi è dunque la moderazione. Intendo quella che è fondata sulla virtù, non quella che nasce dalla viltà e dalla pigrizia dell'animo.

capitolo V - la virtù non è il principio del governo monarchico

Nelle monarchie, la politica fa operare le grandi cose col minimo di virtù possibile: come, nelle più belle macchine, l'arte impiega il minor numero possibile di movimenti, di forze e di ruote. Lo Stato sussiste indipendentemente dall'amor di patria, dal desiderio di vera gloria, dall'abnegazione, dal sacrificio dei più cari interessi, e da tutte quelle virtù eroiche che troviamo in tutti gli antichi, e delle quali abbiamo soltanto udito parlare. Le leggi vi tengono luogo di tutte quelle virtù, di cui non si ha nessun bisogno; lo Stato ve ne dispensa: un'azione che si compie senza chiasso è, in certo modo, senza conseguenze. Sebbene tutti i reati siano pubblici per loro natura, si distinguono tuttavia i reati veramente pubblici dai reati privati, così detti perché offendono il particolare più che la società intera. Ora,nelle repubbliche, i delitti privati sono più pubblici,cioè offendono la costituzione dello Stato più che i particolari; e nelle monarchie i delitti pubblici sono più privati, in quanto colpiscono le fortune particolari più che la costituzione dello Stato stesso. Io prego che nessuno si offenda per quello che ho detto: parlo secondo le storie tutte. So benissimo che non è raro che vi siano principi virtuosi; ma dico che, in una monarchia, è difficilissimo che il popolo lo sia. Si legga quello che gli storici di tutti i tempi hanno detto sulla corte dei monarchi; si ricordino i discorsi degli uomini di tutti i paesi sullo spregevole carattere dei cortigiani: non sono, queste, speculazioni filosofiche, ma una triste esperienza. L'ambizione nell'ozio, la bassezza nell'orgoglio, il desiderio di arricchire senza lavorare, l'avversione per la verità, l'adulazione, il tradimento, la perfidia, l'abbandono di tutti gli impegni presi, il timore della virtù del principe, la speranza delle sue debolezze,e, più di tutto, il perpetuo ridicolo gettato sulle virtù, formano, a parer mio, il carattere della maggior parte dei cortigiani, segnalato in tutti i luoghi e i tempi. Ora, è assai difficile che la maggior parte dei notabili di uno Stato siano disonesti, e che gl'inferiori siano persone virtuose; che quelli siano truffatori, e che questi acconsentano ad essere sempre truffati. Chè se nel popolo c'è qualche disgraziato uomo virtuoso, il cardinale Richelieu insinua, nel suo testamento politico, che un monarca deve guardarsi bene dal servirsene. Tant'è vero che la virtù non è la molla di questo governo! Certo non ne è esclusa: ma non ne è la molla.

capitolo VI - come si supplisce alla virtù nel governo monarchico

Mi affretto a proseguire, e a grandi passi, affinché non si creda che io faccia una satira del governo monarchico. No: se manca di una molla, ne ha un'altra. L'ONORE, vale a dire il pregiudizio di ogni persona e di ogni condizione, prende il posto della virtù politica di cui ho parlato e la rappresenta ovunque. Può ispirare le azioni più belle; può, unito alla forza delle leggi, condurre al fine del governo come la virtù stessa. Così nelle monarchie ben regolate tutti saranno presso a poco buoni cittadini, e si troverà di rado qualcuno che sia virtuoso, poiché, per essere virtuosi bisogna avere intenzione di esserlo, e amare lo Stato non tanto per sé, quanto per lo Stato stesso.

capitolo VII - del principio della monarchia

Il governo monarchico presuppone, come abbiamo detto, delle preminenze, dei ranghi, e perfino una nobiltà originaria. La natura dell'onore è di richiedere preferenze e distinzioni; dunque, per la cosa stessa, è al suo posto in questo governo. L'ambizione è perniciosa in una repubblica. Produce buoni effetti nella monarchia; dà la vita a questo governo; e offre questo vantaggio, che in esso non è pericolosa perché può esservi continuamente repressa. Si direbbe che avvenga come nel sistema dell'universo, dove una forza allontana senza posa dal centro tutti i corpi e una forza di gravità ve li riporta. L'onore fa muovere tutte le parti del corpo politico, le lega con la sua azione stessa, e accade che ognuno va verso il bene comune, credendo di andare verso i propri interessi particolari. È vero che, da un punto di vista filosofico, è un falso onore quello che guida tutte le parti dello Stato; ma questo falso onore è altrettanto utile al pubblico di quanto lo sarebbe quello vero ai privati che potessero averlo. E non è già molto obbligare gli uomini a compiere le azioni difficili, e che richiedono forza, senza altra ricompensa che la risonanza di quelle azioni? (...)

capitolo IX - del principio del governo dispotico

Come in una repubblica ci vuole la virtù, in una monarchia l'onore, così in uno Stato dispotico ci vuole la PAURA: quanto alla virtù, non vi è necessaria, e l'onore vi sarebbe pericoloso. Il potere immenso del principe passa tutt'intero a coloro ai quali lo affida. Persone capaci di stimare molto se stesse sarebbero in grado di farvi delle rivoluzioni. Bisogna perciò che la paura vi abbatta ogni coraggio e vi spenga fin l'ultimo sentimento d'ambizione. (... )

capitolo XII - riflessione su tutto questo

Tali sono i principi dei tre governi: il che non significa che, in una data repubblica,si sia virtuosi, ma che bisognerebbe esserlo. Ciò non prova nemmeno che, in una certa monarchia, tutti abbiano l'onore, e che, in un particolare Stato dispotico, tutti abbiano paura, ma che bisognerebbe averne: senza di che il governo sarà imperfetto.

Libro quarto - Le leggi dell'educazione devono essere relative ai principi del governo

capitolo II - dell'educazione nelle monarchia

Non è negli istituti pubblici in cui s'istruiscono i fanciulli che si riceve, nelle monarchie, la principale educazione; l'educazione comincia, in certo qual modo, quando si entra nel mondo. t lì che si trova la scuola di ciò che si chiama onore, questo. maestro. universale che deve guidarci dappertutto. t lì che si vedono e si odono dire sempre tre cose: "che bisogna mettere nelle virtù una certa nobiltà, nei costumi una certa franchezza, nelle maniere una certa cortesia". Le virtù che ci vengono presentate consistono sempre non tanto in ciò che si deve agli altri, quanto in ciò che si deve a noi stessi: non tanto in ciò che ci porta verso i nostri concittadini, quanto in ciò che ce ne distingue. Le azioni degli uomini non sono giudicate in quanto buone, ma in quanto belle; non in quanto giuste , ma in quanto grandi; non in quanto ragionevoli, ma in quanto straordinarie. Non appena può trovare in esse qualche cosa di nobile, l'onore se ne fa il giudice che le legittima, o il sofista che le giustifica. Permette la galanteria, quando è unita all'idea dei sentimenti del cuore, o all'idea della conquista; ed è la vera ragione per cui i costumi non sono mai tanto puri nelle monarchie come nei governi repubblicani. Permette l'astuzia quando è congiunta all'idea della grandezza d'animo o alla grandezza degli affari, come nella politica, le cui sottigliezze non l'offendono mai. (...). Non v'è nulla che l'onore prescriva maggiormente alla nobiltà quanto di servire il principe in guerra. In realtà, questa è la professione distinta su tutte , poiché i suoi rischi, i suoi successi e le sue sventure stesse portano alla grandezza. Imponendo questa legge, tuttavia, l'onore vuol esserne l'arbitro; e se si ritiene offeso, esige,e permette, che ci si ritiri a vita privata. Vuole che si possa indifferentemente aspirare alle cariche o rifiutarle, valuta questa libertà al di sopra della ricchezza stessa. L'onore ha dunque le sue regole supreme, e l'educazione è tenuta a conformarvisi. Le principali sono che ci è permesso, è vero, do far caso delle nostre ricchezze, ma ci è supremamente vietato di far caso della nostra vita. La seconda è che una volta posti in un rango, non dobbiamo far nulla né permettere nulla che dia a vedere che ci riteniamo inferiori a quel rango. La terza, che le cose che l'onore vieta sono vietate più rigorosamente quando le leggi non concorrono a proscriverle; e quelle che esige sono richieste più fortemente quando le leggi non le richiedono.

capitolo III - dell'educazione nel governo dispotico

Come l'educazione nelle monarchie non si sforza che d'innalzare il cuore, così essa non cerca che di deprimerlo negli Stati dispotici. E necessario che ivi sia servile. Aver ricevuto una educazione simile sarebbe un bene perfino per chi è al comando, poiché nessuno è tiranno senza essere allo stesso tempo schiavo. L'obbedienza estrema presuppone ignoranza in colui che obbedisce; la presuppone anche in colui che comanda; questi non ha da deliberare, da dubitare, da ragionare; non ha che da volere. Negli Stati dispotici, ogni cosa è un impero separato. L'educazione, che consiste specialmente nel vivere con gli altri, vi è perciò limitatissima; si riduce a mettere la paura nel cuore, e a dare allo spirito la nozione di alcuni princìpi religiosi semplicissimi. Il sapere vi sarebbe pericoloso, l'emulazione funesta: e quanto alle virtù, Aristotele non crede che ve ne sia qualcuna propria agli schiavi, il che limiterà assai l'educazione in questo governo. L'educazione vi è dunque in certo modo nulla. (...).

capitolo IV - dell'educazione nel governo repubblicano

E nel governo repubblicano che si ha bisogno di tutta la potenza dell'educazione. Negli Stati dispotici la paura nasce da sola tra le minacce e le punizioni; l'onore delle monarchie è favorito dalle passioni e le favorisce a sua volta; ma la virtù politica è una rinuncia a sé, cosa che è sempre molto penosa. Si può definire questa virtù l'amore delle leggi e della patria. Quest'amore, richiedendo una preferenza continua verso l'interesse pubblico in confronto al proprio, conferisce tutte le virtù particolari: esse non sono altro che tale preferenza. Quest'amore è particolarmente legato alle democrazie. Soltanto in esse il governo è affidato ad ogni cittadino. Orbene, il governo è come tutte le cose di questo mondo: per conservarlo, bisogna amarlo. Non si è mai udito dire che i re non amassero la monarchia e che i despoti non amassero il dispotismo. Tutto dipende perciò dallo stabilire quest'amore nella repubblica; e l'educazione deve essere appunto sollecita a ispirarlo. Ma perché i fanciulli possano provarlo, v'è un mezzo sicuro: e cioè che i padri lo provino essi stessi. D'ordinario , si è padroni di trasmettere ai propri figli le proprie cognizioni; lo si è ancor più di trasmetter loro le proprie passioni. (...)

Libro quinto - Le leggi date dal legislatore devono essere in relazione col principio del governo

capitolo II - che cos'è la virtù nello stato politico

La virtù, in una repubblica, è cosa semplicissima: è l'amore della repubblica: è un sentimento, e non una serie di nozioni; l'ultimo cittadino dello Stato può provare, quel sentimento, come il primo. Una volta che il popolo ha buoni principi, vi si attiene più a lungo dei cosiddetti gentiluomini. E raro che la corruzione cominci da lui. Esso ha tratto sovente dalla mediocrità dei propri lumi un attaccamento più forte per quello che è stabilito. L'amore della patria conduce alla bontà dei costumi, la bontà dei costui porta all'amore della patria. Quanto meno possiamo soddisfare le nostre passioni particolari, tanto più ci abbandoniamo a quelle generali. Perché i monaci amano tanto il loro ordine? Proprio per l'aspetto che glielo rende insopportabile. La regola li priva di tutte le cose su cui si fondano le passioni ordinarie: resta dunque la passione per la regola stessa che li tormenta. Quanto più è austera, cioè quanto più riduce le loro inclinazioni, tanto più dà forza a quelle che concede.

capitolo III - che cos'è l'amore della repubblica nella democrazia

L'amore della repubblica, in una democrazia, è quello della democrazia; l'amore della democrazia è quello dell'uguaglianza. L'amore del democrazia è anche l'amore della frugalità. Dovendo infatti ciascuno avervi la stessa felicità e gli stessi vantaggi, vi deve godere gli stessi piaceri e formare le stesse speranze; cosa che non si può pretendere che dalla frugalità generale. L'amore dell'uguaglianza, in una democrazia, limita l'ambizione al solo desiderio, alla sola felicità di rendere alla patria servigi più grandi che ogni altro cittadino. Non tutti possono renderle uguali servigi; tutti però ugualmente gliene devono rendere. Nascendo, si contrae verso la patria un debito immenso, che non si può mai saldare. Così le distinzioni vi nascono dal principio dell'uguaglianza anche quando questa sembra eliminata da fortunati servigi o da talenti superiori. (...)

capitolo IV - come s'ispira l'amore dell'ugualianza e della frugalità

L'amore dell'uguaglianza e quello della frugalità sono favoriti in sommo grado dall'uguaglianza e dalla frugalità stesse, quando si vive in una società in cui le leggi hanno stabilito l'una e l'altra. Nelle monarchie e negli Stati dispotici nessuno aspira all'uguaglianza; non se ne ha nemmeno l'idea; ciascuno vi tende alla superiorità.

capitolo V - come le leggi stabiliscono l'uguaglianza nella democrazia

Alcuni legislatore antichi, come Licurgo e Romolo, ripartirono le terre in ugual misura. Ciò non poteva aver luogo che in occasione della fondazione di una nuova repubblica; oppure allorché la legge antica era tanto corrotta, e gli spiriti in disposizione tale, che i poveri si credevano costretti a cercare, e i ricchi costretti a soffrire un rimedio siffatto. Se, quando fa una divisione come questa, il legislatore non da leggi per mantenerla, fa soltanto una costituzione passeggera; la disuguaglianza rientrerà dal lato che le leggi non avevano impedito, e la repubblica sarà perduta. Bisogna dunque che si regolino, a questo scopo, le doti delle donne, le donazioni, le successioni, i testamenti, tutte insomma, le maniere di contrattare. Infatti, se fosse permesso di donare i propri averi a chi si vuole e come si vuole, ogni volontà privata turberebbe la disposizione della legge fondamentale. (...) Quantunque, nella democrazia, la vera uguaglianza sia l'anima dello Stato, nondimeno è tanto difficile stabilirla che non sempre converrebbe una estrema esattezza in proposito. Basta stabilire un censo che riduca o fissi le differenze fino a un certo punto; dopo di che sta alle leggi particolari di pareggiare, per così dire, le disuguaglianza, con i pesi che esse impongono ai ricchi e il sollievo che accordano ai poveri. Non vi sono che le ricchezze modeste che possano offrire o sopportare questo genere di compensi; (…).

capitolo X - della prontezza dell'esecuzione nella monarchia

Il governo monarchico ha un grande vantaggio sul repubblicano: gli affari essendovi diretti da uno solo, vi è maggior speditezza nell'esecuzione. Ma siccome questa speditezza potrebbe degenerare in precipitazione, le leggi vi metteranno una certa lentezza. Esse devono non soltanto favorire la natura di ogni costituzione, ma altresì rimediare agli abusi che potrebbero risultare da questa medesima natura. (...)

capitolo XI - dell'eccelzenza del governo monarchico

Il governo monarchico ha un grande vantaggio su quello dispotico. Poiché è proprio della sua natura che vi siano sotto il principe parecchi ordini che dipendono dalla costituzione, Io Stato è più stabile, la costituzione più ferma, la persona di chi governa più sicura. (...) Come i popoli che vivono sotto un buon reggimento politico sono i più felici di quelli che, senza regola e senza capo, errano nelle foreste; così i monarchi che vivono sotto le leggi fondamentali dei loro Stati, sono più felici dei principi dispotici, i quali non hanno nulla che ponga una regola al cuore dei loro popoli, né al loro.

Libro ottavo - Della corruzione dei principi dei tre governi

capitolo I - idea generale di questo libro

La corruzione di ogni governo comincia quasi sempre con quella dei princìpi.

capitolo II - della corruzione del principio della democrazia

Il principio della democrazia si corrompe non soltanto quando si perde lo spirito di uguaglianza, ma anche quando si assume uno spirito di uguaglianza estrema e ciascuno vuol essere uguale a quelli che elegge per comandarlo. Il popolo allora, non potendo tollerare nemmeno il potere che conferisce esso stesso, vuole fare tutto da sé, deliberare al posto del senato, eseguire al posto dei magistrati e desautorare i giudici tutti. Non può più esserci virtù nella repubblica. Il popolo vuole fare le funzioni dei magistrati; quindi non li rispetta più. Le deliberazioni del senato non hanno più peso; quindi non si ha più riguardo per i senatori e in conseguenza per i vecchi. Quando non si ha rispetto per i vecchi, non se ne avrà nemmeno per i padri; i mariti non meritano più deferenza, né i padroni sottomissione. Tutti arriveranno ad amare questo disordine; il comando sarà di peso come l'obbedienza. Le donne, i fanciulli, gli schiavi non vorranno più essere sottomessi a nessuno. Non ci saranno più buoni costumi, non più amore dell'ordine, infine, non più virtù. (...) Il popolo cade in questa sciagura quando coloro ai quali si affida, volendo nascondere la loro corruzione, cercano di corromperlo. Perché non veda la loro ambizione, non gli parlano che della sua grandezza; perché non si accorga della loro avarizia, lusingano senza posa la sua. La corruzione aumenterà fra i corruttori e aumenterà fra coloro che sono già corrotti. Il popolo si distribuirà tutto il pubblico denaro; e quando avrà unito alla sua pigrizia la gestione degli affari, vorrà unire alla sua povertà i divertimenti propri del lusso. Ma con la sua pigrizia e la sua smania di lusso, soltanto il tesoro dello Stato potrà essere un obiettivo per lui. Non ci sarà da stupire se vi si vedranno i suffragi dati per denaro. Non si può dar molto al popolo senza prendergli anche di più, ma per prendere da lui bisogna rovesciare lo Stato. Quanto maggiore sarà il vantaggio che gli sembrerà trarre dalla sua libertà, tanto più si avvicinerà al momento in cui deve perderla. Si creano dei piccoli tiranni che avranno tutti i difetti di uno solo. In breve, quanto rimane di libertà diviene insopportabile; si afferma un solo tiranno, e il popolo perde tutto, perfino i vantaggi della propria corruzione. La democrazia deve dunque evitare due eccessi: lo spirito di disuguaglianza che la porta all'aristocrazia o al governo di uno solo; e lo spirito di uguaglianza estrema che conduce al dispotismo di uno solo, come il dispotismo di uno solo finisce con la conquista. (...)

capitolo V - della corruzione del principio dell'aristocrazia

L'aristocrazia si corrompe allorché il potere dei nobili diventa arbitrario: non può più esserci virtù né in chi governa né in chi è governato. Quando le famiglie regnanti osservano le leggi, si ha una monarchia che ha parecchi monarchi e che è ottima di sua natura; quasi tutti questi monarchi sono legati dalle leggi. Ma quando non le osservano è come uno Stato dispotico che abbia parecchi despoti. In questo caso la repubblica non esiste che per i nobili, e fra loro soltanto. Essa è nel corpo che governa, e lo Stato dispotico è nel corpo che è governato: il che costituisce i due corpi più disunti del mondo. L'estrema corruzione si ha quando i nobili diventano ereditari: non conoscono più nessuna moderazione, ma la loro sicurezza diminuisce; se sono più numerosi, il loro potere è minore e maggiore la loro sicurezza; di modo che il potere va crescendo e la sicurezza diminuendo fino al despota che ha su di sé l'eccesso del potere e del pericolo. Il gran numero di nobili nell'aristocrazia ereditaria renderà dunque il governo meno violento; ma poiché vi sarà poca virtù, si cadrà in uno spirito d'indolenza, di pigrizia, di abbandono, per opera del quale lo Stato non avrà più né forza né energia. Un'aristocrazia può. mantenere la forza del suo principio se le leggi sono tali da far sentire ai nobili i pericoli e le fatiche del comando più che le sue delizie; e se lo Stato è in siffatta condizione da aver qualche cosa da temere; e se la sicurezza nasce dall'interno e l'incertezza dall'esterno. (...)

capitolo VI - della corruzione del principio della monarchia

Come le democrazie vanno in rovina quando il popolo spoglia delle loro funzioni il senato, i magistrati e i giudici, così le monarchie si corrompono quando a poco a poco vi vengono soppresse le prerogative degli ordini e i privilegi delle città. Nel primo caso si va al dispotismo di tutti, nell'altro al dispotismo di uno solo. La monarchia va in rovina quando un principe crede di mostrare meglio il proprio potere mutando l'ordine delle cose piuttosto che seguendolo; quando toglie le funzioni che spettano naturalmente agli uni per darle arbitrariamente ad altri, e quando è più innamorato delle sue fantasie che delle sue volontà. La monarchia va in rovina quando il principe, avocando tutto unicamente a se stesso, restringe lo Stato alla sua capitale, la capitale della corte, e la sua corte alla sua sola persona. Infine, essa va in rovina quando un principe disconosce la sua autorità, la sua posizione, l'amore dei suoi popoli; e quando non si rende ben conto che un monarca deve giudicarsi al sicuro come un despota deve reputarsi in pericolo.

capitolo X - della corruzione del principio del governo dispotico

Il principio del governo dispotico si corrompe senza posa perché è corrotto per la sua stessa natura. (...)

Vi sono in ogni Stato tre specie di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, ed il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto civile. Grazie al primo, il principe o il magistrato fa delle leggi per un certo tempo o per sempre e emenda o abroga quelle che sono già fatte. Grazie al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve ambasciate, organizza la difesa, previene le invasioni. Grazie al terzo, punisce i delitti, o giudica le controversie dei privati. Chiameremo quest'ultimo potere giudiziario e l'altro semplicemente potere esecutivo dello Stato. La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza dà a ciascun cittadino; e condizione di questa libertà è un governo organizzato in modo tale che nessun cittadino possa temere un altro. Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo o da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se un'unica persona o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati.

Nella maggior parte dei regni europei, il governo è moderato, perché il principe, che ha i due primi poteri, lascia ai propri sudditi l'esercizio del terzo. Presso i Turchi, dove questi tre poteri sono riuniti nella persona del sultano, regna uno spaventoso dispotismo.
Poiché, in uno Stato libero, ogni uomo presumibilmente dotato di uno spirito libero deve governarsi da sé, bisognerebbe che tutto il popolo esercitasse il potere legislativo. Ma essendo ciò impossibile nei grandi Stati e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, occorre che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto ciò che non può fare da sé. Il grande vantaggio dei rappresentanti sta nel fatto che essi sono capaci di discutere i problemi di interesse pubblico. Il popolo non è per nulla adatto ad un tal compito, ed è questo uno dei grandi inconvenienti della democrazia. Un vizio fondamentale della maggior parte delle repubbliche antiche era che il popolo aveva il diritto di prendere delle risoluzioni attive, che richiedevano una esecuzione, cosa di cui è assolutamente incapace. Esso deve entrare nel governo solo per scegliere i propri rappresentanti, il che è pienamente alla sua portata. Il corpo rappresentativo non deve essere scelto per prendere risoluzioni attive, cosa che non potrebbe far bene, ma per fare delle leggi o per garantire la buona esecuzione di quelle che egli ha fatto, cosa che può benissimo fare, che nessun altro, anzi, può far meglio. In uno Stato vi sono sempre delle persone che si distinguono per nascita, ricchezze ed onori; se fossero confuse tra il popolo e non avessero che una voce come gli altri, la libertà comune si cambierebbe per loro in schiavitù, e non avrebbero alcun interesse a difenderla, perché la maggior parte della risoluzione sarebbe contro di loro. La parte che costoro hanno nella legislazione deve essere dunque proporzionata agli altri vantaggi di cui godono nello Stato. A tale scopo essi debbono formare un corpo che abbia il diritto di arginare le azioni del popolo, così come il popolo ha il diritto di arginare le loro. Il potere legislativo sarà quindi affidato sia al corpo dei nobili, sia al corpo eletto per rappresentare il popolo; entrambi avranno le loro assemblee e le loro deliberazioni separate, e punti di vista ed interessi pure separati.

Dei tre poteri di cui abbiamo parlato, quello giudiziario è in un certo senso nullo. Ne restano dunque soltanto due, e poiché hanno bisogno di un potere moderatore che li freni, sarà la parte del corpo legislativo composta di nobili ad assolvere adeguatamente tale funzione. Il potere esecutivo deve essere nelle mani di un monarca, perché questa parte del governo, che richiede quasi sempre un'azione immediata, è amministrata meglio da uno solo che da molti; mentre il compito del potere legislativo spesso è assolto meglio da molti che non da uno solo. Che se non vi fosse alcun monarca, e il potere esecutivo fosse affidato ad un certo numero di persone, tratte dal corpo legislativo, non vi sarebbe più libertà: i due poteri verrebbero, infatti, a trovarsi uniti, in quanto le stesse persone talvolta parteciperebbero, o comunque potrebbero sempre partecipare, a entrambi i poteri. Se il potere esecutivo non ha il diritto di arrestare le azioni del corpo legislativo, questo diverrà dispotico: infatti, una volta che sia in grado di attribuirsi tutto il potere che vuole, annienterà tutti gli altri poteri. Ma non bisogna che, inversamente, il potere legislativo abbia la facoltà di arrestare il potere esecutivo. Infatti, è inutile limitare l'esecuzione, che già di per sé è limitata; inoltre il potere esecutivo si esercita su cose contingenti. Il potere dei tribuni di Roma era viziato dal fatto che poteva arrestare, non solo la legislazione ma anche 1'esecuzione: il che causa gravi mali. Pure, se in uno Stato libero il potere legislativo non deve avere il diritto di arrestare il potere esecutivo, ha tuttavia il diritto e deve avere la facoltà di esaminare in qual modo le leggi che ha emanate siano state eseguite.

top