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28/12/2010  

 

Tra i preti «villeros» di Buenos Aires

di Lucia Capuzzi

 

Nelle baraccopoli alla periferia della capitale vivono almeno 300 mila persone. Qui disoccupazione, violenza e dipendenza dal «paco», micidiale droga locale, creano un’emergenza sociale, denunciata con coraggio dalla Chiesa

 

L'autobus non arriva alla villa «21-24-Zavaleta». La fermata più vicina è Avenida Velez Sarsfield, una delle infinite spine dorsali della sterminata Buenos Aires. Un esiguo marciapiede costeggia il fiume d'auto in corsa. A parte qualche officina meccanica, non ci sono negozi, né case. Solo macchine, camion e smog. Difficile pensare di trovarsi ad appena venti minuti dalla centralissima Plaza de Mayo e dagli edifici «parigini» del Paseo Colón.

L'inizio dello sterrato segna l'entrata alla «21-24-Zavaleta». Un'altra città, dimenticata nel cuore della più europea delle metropoli del Sud America. Una «città» confusa. Disegnata, nel corso degli ultimi sette decenni, dalla fantasia di migliaia e migliaia di persone, arrivate dal resto dell'Argentina o del continente, per inventarsi un futuro. Ora sono 45 mila gli abitanti di questo microcosmo. Le casupole - a uno o due piani, di mattoni, la maggior parte finite a metà - spuntano ovunque. Le stradine procedono a zig-zag, s'insinuano tra pantani melmosi, tratteggiando un labirinto indecifrabile per i visitatori inesperti. Di continuo, ci si imbatte in scarpe da tennis legate ai pali dell'elettricità. «Vuol dire che lì si vende droga, spiega Luis Alberto Rodas, memoria storica del quartiere. Spesso, però, i luoghi di spaccio non sono segnalati. Tanto si conoscono. E, poi, sarebbero troppi...». Alla «21-24-Zavaleta» - come nel resto delle villas argentine, dilaga il paco, una sostanza altamente tossica, ricavata dallo scarto della cocaina, che si scalda e, poi, si fuma. Procurarsela, per gli squattrinati adolescenti del quartiere, è fin troppo facile: una dose costa appena due o tre pesos (40-60 centesimi di euro). Certo, l'effetto dura qualche minuto, poi il desiderio si fa di nuovo lacerante. Alla fine, si arriva a consumarne anche 80 dosi al giorno. La vita di un dipendente è una ricerca ossessiva di altro paco. In sei mesi, il cervello viene devastato. E i paqueros si trasformano in zombie. Una strage sociale - ha denunciato anche di recente l'associazione «Madri contro il paco». Alla periferia di Buenos Aires, almeno dieci ragazzini alla settimana - sostiene l'organizzazione - muoiono a causa di questa droga. I dipendenti sono oltre 50 mila. E il loro numero cresce: secondo l'Onu, rispetto al 2001, l'anno della grande crisi, il consumo di paco è quadruplicato. Il profilo del paquero è monotonamente simile: ha 12-13 anni, è maschio (fra le ragazze l'uso della droga è fortunatamente ancora ridotto) e abita in una villa. Dove, spesso, condivide la dipendenza con più della metà dei coetanei. «Le villas sono funzionali al narcotraffico - spiega padre Facundo Beretta, uno dei sacerdoti della «21-24-Zavaleta» -. Qui non ci sono controlli, la polizia ha paura di entrare. È una zona franca, abbandonata dallo Stato, dove i signori della droga possono vendere indisturbati morte. I villeros sono le prime vittime della violenza».

 

IN QUESTE ENCLAVI, che in Italia chiamiamo baraccopoli, Buenos Aires tenta a fatica di nascondere, anche se dalla recessione del 2001 è impossibile perché la miseria dilaga fin nella scintillante Nueve de Julio, il suo volto povero e latinoamericano. Nelle centinaia di slum vivono, secondo i dati ufficiali, almeno 300 mila persone. Il numero reale è, però, di certo ben più alto. Negli ultimi nove anni, ai «poveri storici» si sono aggiunti i tanti che hanno perso la casa dopo l'ultima crisi. Dal 2003, la popolazione delle baraccopoli è raddoppiata.

È la miseria, la mancanza di opportunità, l'assenza dello Stato a consegnare i ragazzi alla schiavitù del paco. Nell'indifferenza generale. Un dramma denunciato pubblicamente, senza timori né giri di parole, da padre José Maria De Paola, il parroco della «21-24-Zavaleta» e dagli altri sacerdoti villeros in un documento diffuso nel 2009: «La droga nelle villas depenalizzata di fatto». Una presa di posizione coraggiosa contro l'inerzia dello Stato e, soprattutto, l'arroganza dei narcotrafficanti. Che hanno reagito con la solita ferocia: padre De Paola è stato ripetutamente minacciato di morte. Sarebbero state proprio le continue intimidazioni la causa del prossimo trasferimento del sacerdote in una diocesi del nord del Paese. L'8 dicembre, padre José Maria - alias padre Pepe - lascerà dopo 14 anni la parrocchia di Nostra Signora di Cacupé, nel cuore della villa.

La chiesa appare, nel caos, come un faro d'orientamento. Un edificio piccolo, non alto ma riconoscibile a distanza, per il candore dei muri che contrasta col grigio-lamiera e rosso-mattone degli altri fabbricati. Anche il tetto della struttura è di latta, ma è lucido. All'interno, l'arredamento è semplice: pavimento di pietra, un enorme tavolo come altare e disegni coloratissimi ovunque. Ci sono scritte di ringraziamento, un'immagine di Don Bosco e un enorme Cristo, oltre alla statua della Madonna di Cacupé, protettrice del Paraguay. «L'ha portata qui il parroco nel 1997 in omaggio ai tanti paraguayani immigrati che vivono nella villa», afferma Luis Alberto. Le porte sono spalancate. Anche la sera. E il via vai è continuo. Uomini e donne si siedono nei banchi a chiacchierare, sorseggiando mate (infuso tipico argentino). Così, trascorrono le ore. «Molti aspettano di parlare con il padre Pepe - aggiunge Luis -. Altri restano qui perché non sanno dove andare. Non hanno lavoro e le case sono troppo piccole...». La chiesa è una sorta di luogo di incontro, di scambio, una casa comune. «È il cuore della villa», come ama definirla il padre Pepe. Lo studio del sacerdote è una camera minuscola - non arriva ai due metri per due - che riesce a fatica a contenere un tavolo e due sedie. A rendere la stanza accogliente sono le pareti stracariche. Ci sono foto del religioso coi ragazzi del quartiere, immagini della Madonna, di Madre Teresa, un fazzoletto delle Madri di Plaza de Mayo. E un grande quadro di padre Carlos Mujica, tra i primi sacerdoti argentini ad abbandonare le parrocchie di città per trasferirsi nelle baraccopoli. Il suo impegno in favore dei diseredati gli costò la vita. Padre Mujica fu assassinato dai paramilitari delle «Triple A», nel 1974. La Chiesa, però, non ha abbandonato le villas. Nemmeno negli anni sanguinosi della dittatura militare, quando attività come questa erano considerate sovversive. Nel maggio 2009, l'arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Jorge Bergoglio, ha voluto dare ai sacerdoti villeros - venti attualmente - un riconoscimento importante, con la creazione della «Vicaría para las villas de emergencia». A guidarla, almeno fino all'8 dicembre, è padre Pepe. L'incarico ha avuto un duplice valore, perché è arrivato proprio poco dopo la pubblicazione del «documento anti-paco» e le minacce di morte. «Il cardinale mi ha dato un sostegno importante. Crede nell'impegno dei sacerdoti villeros per i poveri», dice il padre Pepe.

 

NON È FACILE terminare una conversazione col religioso. Le interruzioni sono continue. Nel giro di mezz'ora arriva la signora Josefa che ha finito il latte e chiede al padre se ne ha un po'. «Sa, ho due bambini», dice quasi per scusarsi. Poi, Ramon che vuole che il padre chiami un'ambulanza per lo zio malato. «Se telefona lei, arriva prima», spiega. E, infine, Daniel che chiede solo una benedizione «per allontanare la malasorte». «Qui ho imparato un modo di vivere la fede che non conoscevo - racconta padre Pepe -. Più autentica e genuina. La gente della villa mi ha insegnato tanto». E aggiunge ridendo: «Certo, a volte fanno un po' di confusione...». Per capire che cosa intenda basta sporgersi fuori dalla chiesa. Accanto all'edificio, c'è la cappella del «Gauchito Gil», santo popolare mai beatificato dalla Chiesa. Agli argentini poveri, però, non importa: lo considerano il loro protettore, insieme alla Defunta Correa, anche lei mai canonizzata. Al Gauchito portano candele e nastri rossi, alla Defunta bottiglie d'acqua. «Perché è morta di sete, spiega Mari che ne porta al collo l'immagine. Ci protegge. Ha salvato mia madre dopo un incidente».

«Io dico sempre che dai villeros si apprende molto più di quello che si insegna - afferma padre Pepe -. La gente di "fuori" (gli abitanti del resto di Buenos Aires), in genere, li etichetta come criminali o disadattati senza conoscerli. Niente di più falso... Per me sono "operai ottimisti", gente che ha avuto il coraggio di rimboccarsi le maniche per costruire dal niente un quartiere. È vero, le strade non sono asfaltate, gli allacciamenti a luce e acqua sono abusivi. Ma questa, prima, era una discarica...». Ora è un universo surreale e composito. «Certo, la violenza esiste. Ma si deve comprenderne le cause. La gente, a volte, diventa violenta perché subisce violenza. È violento aspettare per ore un'ambulanza, con tuo figlio in agonia, perché gli infermieri hanno paura di entrare nella villa. È violento che ti venga rifiutato un lavoro perché "sei un villero e, dunque, inaffidabile". È violento che lo Stato resti fuori dal quartiere, lasciando chi è dentro in mano dei narcotrafficanti...», afferma con passione padre De Paola. È la Chiesa a riempire «il vuoto». I sacerdoti sono la figura di riferimento. «Abbiamo realizzato asili, centri per bambini e anziani, otto mense, corsi professionali. Nel gruppo scout ci sono 5 mila iscritti. Cerchiamo di dare una mano soprattutto ai giovani. E abbiamo messo su un programma di recupero per i paqueros».

Ancora non si sa se a sostituire il sacerdote sarà uno dei tre che lavorano con lui - padre Facundo, padre Carlos, padre Juan - o qualcun altro. «Ma il lavoro continuerà». Nei viottoli della villa appaiono, spesso, minuscoli santuari intorno a un Cristo col braccio destro alzato. «È il Cristo della villa. Un Cristo vittorioso - conclude padre Pepe -. La gente qui non si arrende. Gliel'ho detto che sono ottimisti...».

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