L'Anarchismo Pragmatico di Colin Ward


Alcuni Estratti da "Acqua e Comunità"
di Colin Ward


Il Seme Sotto La Neve
Francesco Codello Intervista Colin Ward


Paolo Finzi Ricorda Colin Ward
Antonio Carioti Ricorda Colin Ward

Goffredo Fofi Ricorda Colin Ward

Francesco Codello Ricorda Colin Ward
Il Funerale di Colin Ward
Discorso di apertura di Ben Ward

George West Ricorda Un'amicizia dal ritmo stabile
Un'influenza costante di John Pilgrim
Ben Ward Ricorda Com'e' stato avere un papa' come Colin Ward
Nescafe' e una Craven a di David Downes
Indirizzo di benvenuto e introduzione di Ken Worpole
Harriet Ward Ricorda Com'era Colin negli anni sessanta
Stuart White Ricorda Colin Ward, come rendere l'anarchia rispettabile, ma non troppo
Peter Marshall Ricorda Colin Ward, seminatore di idee

Paolo Finzi Ricorda Colin Ward


La Nonviolenza è in Cammino
Da “A. Rivista anarchica” n. 352 dell’aprile 2010 riprendiamo il seguente ricordo apparso col titolo “Mio padre e Colin”.
Paolo Finzi (Milano, 1951) giornalista e saggista, politologo e conferenziere, e' una delle figure piu' prestigiose e autorevoli della cultura libertaria in Italia; fa parte della redazione di "A. rivista anarchica" fin dalla sua fondazione nel 1971. Tra le opere di Paolo Finzi: La nota persona. Errico Malatesta in Italia, La Fiaccola, Ragusa 1990; Insuscettibile di ravvedimento. L'anarchico Alfonso Failla (1906-1986), La Fiaccola, Ragusa 1993; amico fraterno di Fabrizio De Andre' fin dal 1974, ha pubblicato, dopo la sua morte, il dossier "Signora liberta', signorina anarchia" (2000), il cd "Ed avevamo gli occhi troppo belli" (2001), il dvd "Ma la divisa di un altro colore" (2003) e il doppio cd "Mille papaveri rossi" (2004), tutti dedicati alla figura del cantautore genovese.
Colin Ward (1924- 2010) e' stato uno straordinario militante, pensatore, educatore e saggista anarchico; e' deceduto l'11 febbraio 2010 a Ipswich. Dalle sue opere molto abbiamo appreso.
 
Una piccola premessa. Nella coppia dei miei genitori, e’ sempre stata mia madre l’anima politica, la partigiana, la socialista, l’attivista dell’Udi (le donne di sinistra) e del Cemp (educazione sessuale e diffusione della pillola anticoncezionale). Mio padre, morto 21 anni fa, era una brava persona, un imprenditore legato al fare, al lavoro, una persona sicuramente antifascista, politicamente direi un liberal, con la mente curiosa e aperta, troppo pratico per sentir proprie le ideologie. Era persona interessata a conoscere; parlava con lo stesso interesse del suo incontro con mio suocero, l’anarchico Alfonso Failla, e di quello avvenuto in ben altro contesto con il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Era come spiazzato dalla mia militanza anarchica. Venne a sentire alcune mie conferenze, una volta si spinse addirittura a Rimini per sentirmi parlare di Errico Malatesta. Apprezzava, cercava di comprendere, ma c’era troppa ideologia, troppi programmi futuri da realizzare. E la sua concezione antropologica, espressa al meglio dalle poesie di Trilussa (tante ne recitava a memoria), non lasciava spazio a utopie, sogni, anarchie.
All’inizio degli anni ’70, una mattina, entro’ in camera mia insolitamente agitato. Gli avevo dato da leggere un libro di Colin Ward, in inglese: Anarchy in action, che dopo sarebbe stato tradotto per i tipi dell’Antistato con il titolo Anarchia come organizzazione. In sostanza mi disse: e’ inutile che stampiate una rivista e tanti libri pieni di teorie, che servono a voi che siete gia’ convinti, ma non convincono nessuno. E’ questo il libro che dovete tradurre. L’anarchia spiegata da questo Ward e’ una cosa seria, comprensibile, che si fa rispettare. Se voi anarchici volete un consiglio, stampate e distribuite questo libro.
Era un imprenditore, mio padre, seppure di quelli “all’antica”. Di fronte al mio antimilitarismo mi ripeteva spesso “Se sei qui, ringrazia per tutta la tua vita i resistenti di Stalingrado e i piloti inglesi della Raf”. Ebreo, poliglotta, aveva vissuto la stagione dell’Olocausto. La vita era per lui una cosa terribilmente concreta. Conobbe e apprezzo’ tanti compagni nostri, suoi coetanei. Ma solo Colin Ward riusci’ nel miracolo di fargli apparire “concreta” l’utopia anarchica. Scusate se e’ poco.


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Alcuni Estratti da "Acqua e Comunità"
di Colin Ward


La Nonviolenza è in Cammino
Riproponiamo - ripresi dal sito www.tecalibri.it - i seguenti estratti dal libro di Colin Ward, Acqua e comunita'. Crisi idrica e responsabilita' sociale, Eleuthera, Milano 2003 (ed. orig.: Reflected in Water, A Crisis of Social Responsibility, 1997)
 
Indice del volume
Presentazione dell'edizione italiana, di Teresa Isenburg; Al lettore italiano; Prefazione; I. La condivisione di un bene comune; II. La "tragedia dei beni comuni"; III. Societa' idrauliche e speranze regionali; IV. Il fascino della diga; V. Zuffe per l'acqua; VI. Piccolo e locale; VII. Donne al pozzo; VIII. L'acqua mercificata; IX. L'ineguale mondo dell'acqua; X. Acqua sporca; XI. Crisi confluenti; XII. I piaceri dell'acqua; Suggerimenti bibliografici, a cura di Teresa Isenburg.
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Da pagina 19
Prefazione
"C'e' qualcosa che lega tutti gli uomini e le donne del mondo in modo tanto stretto e intimo che ogni differenza di colore, religione e cultura diventa, di fronte a esso, insignificante... composto per il 55 per cento di acqua, il flusso vitale del sangue che scorre nelle vene di ogni membro della specie umana dimostra che la famiglia umana e' una realta'. Migliaia di anni fa, l'essere umano ha scoperto che questo fluido gli era indispensabile e prezioso oltre ogni prezzo" (Richard M. Titmuss, The Gift Relationship)
Richard Titmuss scriveva non dell'acqua ma del sangue. Studiava la trasfusione di sangue e le sue implicazioni, mettendo a confronto il mercato commerciale, dove il sangue viene acquistato, con la donazione volontaria. Aveva rilevato che il carattere dominante del sistema americano delle banche del sangue era una redistribuzione dei prodotti ematici dai ceti poveri a quelli ricchi, poiche' le persone che vendono il proprio sangue, non avendo nient'altro da vendere, sono tendenzialmente quelle senza specializzazione e senza lavoro appartenenti ai "gruppi a basso reddito, oggetto di sfruttamento". Aveva anche osservato come in Gran Bretagna i donatori volontari di sangue, interrogati circa le loro motivazioni, fornissero indicazioni la cui "vivacita', individualita' e diversita' davano vita e senso comunitario alle generalita' statistiche", tanto che l'80 per cento delle risposte "suggeriva sentimenti di responsabilita' sociale verso gli altri membri della societa'".
La sua conclusione era che il mercato commerciale del sangue fosse negativo, per quattro ragioni non etiche e verificabili: "Sotto il profilo dell'efficienza economica, provoca un grande spreco di sangue; il rapporto tra domanda e disponibilita' e' caratterizzato da una scarsita', cronica e acuta, che rende illusoria ogni idea di equilibrio. E' amministrativamente inefficiente, poiche' genera un aumento delle pratiche burocratiche e ancor piu' dei costi fissi di gestione, computo e registrazione. In Gran Bretagna, il prezzo che il paziente (o consumatore) deve pagare per unita' di sangue e' da cinque a quindici volte superiore a quello del sistema volontario. Infine, per quanto riguarda la qualita', nella distribuzione commerciale e' piu' facile che possa circolare sangue contaminato".
Titmuss e' morto nel 1974, e quindi non e' vissuto abbastanza da assistere in Gran Bretagna al passaggio dell'ideologia mercantile da teoria economica a dogma politico. E non ha nemmeno potuto vedere il disastro che ha colpito i pazienti emofiliaci, pesantemente dipendenti dagli emoderivati, in conseguenza dell'importazione di sangue contaminato. Cio' che lo spingeva era semplicemente la volonta' di contestare "la resurrezione rozzamente materialistica dell'homo oeconomicus nella politica sociale".
Il sangue, come si dice, e' piu' denso dell'acqua. Il sangue e' una proprieta' individuale, l'acqua e' una necessita' collettiva. Eppure le due sostanze hanno qualcosa in comune, poiche' e' l'acqua a tenere insieme i costituenti del sangue ed e' altrettanto indispensabile per la sopravvivenza. Come dice Michael Allaby: "Un essere umano adulto deve assumere almeno 1,75 pinte [un litro circa] di acqua al giorno, bevendola direttamente o come ingrediente degli alimenti. Senz'acqua una persona non puo' sopravvivere per piu' di sei giorni circa, e appena due o tre nei climi caldi. Al contrario, una persona in buona salute puo' resistere diverse settimane senza cibo solido".
L'acqua e' vitale al pari del sangue, e pertanto anch'essa, come diceva Titmuss, e' preziosa oltre ogni prezzo. Questa consapevolezza spiega la nostra indignazione quando sentiamo di famiglie inglesi cui l'acqua e' venuta a mancare per non aver pagato le tariffe imposte dalle compagnie private, alle quali il governo ha venduto quella che e' una risorsa collettiva. A maggior ragione dovremmo provare angoscia a sapere che un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ad acqua potabile sicura, e che un terzo di tutti i decessi che si verificano ogni giorno nel mondo sono la conseguenza di malattie di origine idrica.
Qualcuno deve riaffermare il fatto di per se' evidente che l'acqua, risorsa continuamente rinnovata ma non inesauribile, appartiene a tutti e non a un particolare gruppo che ha scelto di controllarne la disponibilita'. Il che non significa che chi la distribuisce non debba essere compensato. Il venditore di acqua rientra in un'antica attivita' di servizio. Nel Bangladesh vi sono contadini senza terra che si guadagnano da vivere in imprese cooperative per la fornitura di acqua, che viene portata mediante dispositivi mobili agli agricoltori la cui proprieta' e' troppo dispersa per l'irrigazione meccanica.
Ma l'acqua e' anche essenziale per produrre tutto cio' che mangiamo, beviamo e usiamo, per tutte le produzioni industriali e per ogni tipo di pulizia e comfort. Come il sangue, e' troppo preziosa per essere considerata una merce. Ed e' anche strumento di gioia umana infinita, come ben sappiamo dal piacere che traiamo da fiumi, torrenti, laghi e mari, come dimostrano le fontane e le piscine che si trovano in ogni citta' o paese.
Questo libro non e' il tentativo di ripetere per l'acqua lo studio che Titmuss ha fatto per il sangue, visto come trasferimento di risorse dal povero al ricco o come un dono da parte dei piu' fortunati ai meno fortunati. Esso intende semplicemente fornire un breve resoconto delle gigantesche implicazioni sociali, a livello tanto locale quanto globale, generate dall'universale bisogno di acqua e dalle varie crisi idriche che si prospettano al mondo.
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Da pagina 33
Quando nel 1979 e' entrato in carica il nuovo governo conservatore, nessuno immaginava che tra le sue realizzazioni ci sarebbe stata quella di cambiare la natura dell'acqua da bene comune a merce. Eppure, dieci anni piu' tardi, l'acqua e' stata venduta, insieme ad altri beni di proprieta' pubblica, ai consumatori che gia' la possedevano collettivamente. Gli storici di un'altra industria ci ricordano che la privatizzazione della fornitura idrica non e' stata facile. I politici responsabili sono "stati sconfitti nella Camera dei Lord e hanno corso il rischio di essere incriminati dall'Unione Europea per gli standard qualitativi dell'acqua. Sono stati contestati dai gruppi ambientalisti per il medesimo motivo e per le massicce occupazioni di territorio da parte delle amministrazioni idriche". Ciononostante, la vendita delle azioni, nel novembre 1989, ha avuto successo al punto che la domanda ha superato di 5,7 volte l'offerta. Tuttavia, il guadagno netto dell'operazione e' risultato negativo per il governo. A fronte di un incasso dalla vendita pari a 5,3 miliardi di sterline, c'era da coprire un passivo di 5 miliardi, piu' un'iniezione di liquido di 1,6 miliardi per finanziare le amministrazioni e 100 milioni di spese di vendita. Cosi', l'affare si e' concluso con una perdita di 1,4 miliardi di sterline per il governo.
Il popolo dei consumatori d'acqua (il che significa tutte le famiglie della nazione) non si e' probabilmente reso conto che il bene inestimabile che gia' possedeva era stato venduto in perdita sulla spinta di una transitoria ideologia governativa. Ma si e' ben presto reso conto delle conseguenze. Ogni gruppo familiare ha constatato un incremento medio delle tariffe del 67 per cento tra il 1989-90 e il 1994-95, mentre i profitti delle compagnie erano aumentati in media del 20 per cento all'anno tra il 1989-90 e il 1992-93, e i margini di profitto erano saliti dal 28,7 al 35,6 per cento. Il malumore per i prezzi dell'acqua e' andato crescendo man mano che si veniva a conoscenza dei ricchi stipendi e delle partecipazioni agli utili che la dirigenza delle compagnie idriche si era attribuita, del fatto che le operazioni di diversificazione finanziaria effettuate al di fuori dell'industria idrica erano state disastrose, e del fatto che per l'adeguamento di impianti e installazioni era stato speso assai meno di quanto si fosse fatto credere pubblicamente.
Possiamo anche ritenere tutto cio' un aspetto scontato dell'economia imprenditoriale. Ma e' la situazione dei ceti poveri che mi interessa. Nel rapporto sul prezzo dell'acqua del National Consumer Council si legge che nel distretto idrico dove le tariffe sono piu' elevate, cioe' quello denominato South West Water, "la bolletta media assorbe il 4,9 per cento del reddito di una famiglia di due adulti e due bambini, il 7,6 per cento di quello di un genitore single con un unico figlio, e il 9,1 per cento nel caso di un pensionato che vive da solo". Il rapporto commenta che "queste percentuali costituiscono un peso finanziario cospicuo per le famiglie con inferiore capacita' di far fronte all'aumento di prezzo dei servizi essenziali".
Dove vivo, gli affittuari delle case di proprieta' pubblica pagavano settimanalmente una somma modesta per questo servizio, che era controllato dall'autorita' comunale. Questa, oggi, si rifiuta di fungere da esattore per conto di una compagnia privata, e la bolletta dell'acqua, maggiorata e da pagare in anticipo, e' diventata un altro dei costi fissi della vita che i ceti meno abbienti devono in qualche modo far rientrare nel proprio bilancio. Fino al 1988, chi aveva diritto ai "benefici supplementari" governativi era esentato dalle spese di fornitura idrica. Oggi tale esenzione e' stata soppressa e costoro devono pagare quei soldi di tasca propria. La privatizzazione dell'acqua ha fatto conoscere ai consumatori piu' poveri un nuovo approccio aggressivamente commerciale, tant'e' che migliaia di famiglie si sono viste interrompere la fornitura. Ritenevo che tale azione fosse illegale, come lo e' in Scozia e in Irlanda del Nord, ma mi sbagliavo. Nel 1992 il rappresentante della societa' Thames Water ha dichiarato alla stampa: "Siamo troppo concilianti, ed e' per questo che le interruzioni della fornitura dovranno aumentare". Un manipolo di parlamentari, guidato da Helen Jackson, ha tentato di far approvare una legge che imponesse alle compagnie idriche di recuperare le morosita' per via legale, come ogni altro creditore, e non tramite l'interruzione del servizio. Non hanno avuto successo, nonostante la cospicua documentazione di un numero infinito di casi in cui persone in difficolta' erano state penalizzate dalla politica spietata delle compagnie idriche.
A un meeting indetto dalla Jackson nel 1993, John Middleton, direttore sanitario della Sandwell Health Authority nel West Midlands, ha fatto notare come il senso di moralita' pubblica sia andato progressivamente decadendo dalle campagne sanitarie di centocinquanta anni fa, rammentando che "in epoca vittoriana veniva almeno riconosciuta la necessita' che a tutti, ricchi e poveri, fosse garantita una provvista d'acqua igienicamente sicura. Le interruzioni della fornitura sono qualcosa che non dovrebbe essere tollerato in una societa' civile". E ha aggiunto che durante il 1992 e il 1993, anni in cui si e' verificato un sensibile incremento delle sospensioni nella sua zona, dove piu' di 1.400 famiglie sono rimaste senz'acqua, "i casi di dissenteria ed epatite sono aumentati di dieci volte". La British Medical Association, intervenendo sul medesimo argomento, ha rilevato che esisteva un numero elevato di gruppi sociali vulnerabili per i quali la garanzia della disponibilita' idrica era vitale. Erano le persone in condizioni di salute tali da richiedere l'uso di quantitativi suppletivi di acqua, per l'igiene personale, per fare il bucato, per lavare i bambini e gli anziani. Il Policy Studies Institute ha condotto uno studio rigoroso sul fenomeno della morosita' e delle conseguenti sospensioni di fornitura, dal quale e' emerso che "solo i consumatori piu' anziani sembrano essere meno a rischio di morosita' e quindi di sospensione". Nel medesimo studio e' detto anche che "durante il 1994 circa 2 milioni di famiglie hanno avuto problemi di morosita' e per 12.500 di esse cio' si e' risolto nella sospensione della fornitura idrica".
Personalmente, al di la' di ogni considerazione medica, non posso immaginare una situazione in cui sia possibile vivere senz'acqua, ne' certamente lo possono i miei lettori. Abbiamo tutti bisogno di bere e di mangiare, tutti produciamo feci e urina di cui ci dobbiamo liberare, tutti abbiamo bisogno di lavarci. Negare a chiunque di noi l'accesso all'acqua ci mette nella condizione di quella donna di Preston che prima ho citato, portata in tribunale e condannata per furto d'acqua.
Quello avveniva centocinquanta anni fa, ed e' sconvolgente rendersi conto che nella nostra civile Britannia le fantasie degli opulenti sostenitori della logica di mercato ci vorrebbero ridurre alla brutalita' di quel tipo di atteggiamento. L'equivalente moderno di Elizabeth Stubbs e' in certo senso in una situazione ben peggiore della sua. Perche' un secolo fa, come abbiamo visto, ogni paese aveva la sua pompa comunale, frutto di uno sforzo comunitario o di un'iniziativa filantropica, accessibile a tutti. C'e' una fontana di acqua potabile, ora asciutta, nella East Street di Colchester che reca l'iscrizione "Con gioia trarrai quest'acqua", e tutti i londinesi di una certa eta' ricorderanno gli innumerevoli punti per l'abbeveraggio umano o animale messi a disposizione dalla Metropolitan Drinking Fountain e dalla Cattle Trough Association. L'acqua era allora riconosciuta come un diritto umano universale e non come una merce.
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Da pagina 128
Abbiamo visto nel capitolo I che se in epoca vittoriana, malgrado la fiducia riposta nel sistema di mercato, era riconosciuto come "dovere morale vincolante" assicurare a ogni famiglia l'accesso all'acqua potabile, indipendentemente dalla possibilita' di pagare, nel 1994 12.500 famiglie inglesi si sono viste tagliare la fornitura per morosita'.
Nel 1887 l'anarchico Petr Kropotkin riteneva che "la crescente tendenza a fornire l'acqua alle abitazioni private senza tener conto dell'esatto ammontare usato da ciascun individuo" fosse uno dei sintomi - insieme all'uso pubblico e gratuito di biblioteche, scuole, parchi e strade pavimentate e illuminate - della tendenza verso una societa' dove "chi contribuisce al bene comune con tutte le sue capacita' riceve dal comune fondo sociale i mezzi per soddisfare al meglio i propri bisogni".
Un secolo dopo, questa interpretazione sembrerebbe decisamente ottimistica per due ragioni. La prima e' stata la rinascita del culto del mercato e della privatizzazione dei beni pubblici a ogni costo. La seconda, la crescita della coscienza ecologica e la consapevolezza che tutte le risorse sono limitate. Ad esempio, Sandra Postel, una riconosciuta autorita' sul problema della scarsita' idrica, fa notare che "sorprendentemente, il costo dell'acqua nella maggior parte delle famiglie britanniche e' legato al valore della casa e non ha niente a che vedere con il consumo reale... Prove fatte in Gran Bretagna hanno dimostrato che con i contatori il consumo dell'acqua nelle famiglie puo' calare del 10-15 per cento".
Nel 1995, con il rapporto Water Conservation: Government Action (Interventi governativi per la tutela idrica), il governo britannico ha dato grande rilevanza alla necessita' di far pagare l'acqua in base al consumo. Un portavoce dell'opposizione ha anzi lamentato che "ventinove dei settantuno paragrafi di questo documento trattano della misurazione del consumo idrico. I Conservatori vogliono obbligare tutti a mettersi in casa un contatore dell'acqua". E aggiungeva che i dati dell'industria idrica dimostravano che le perdite giornaliere lungo le tubature della rete ammontavano a un valore complessivo di 826 milioni di galloni d'acqua [3 miliardi e 350 milioni di litri circa], su cui il controllo dei consumi non avrebbe avuto alcuna influenza.
Il governo stesso ammette che l'installazione dei contatori potrebbe costare fino a 200 sterline per famiglia. Il che significherebbe una spesa complessiva da 4 a 5 miliardi a carico dei consumatori. E le spese di esercizio dei contatori ammonterebbero fino a 500 milioni all'anno.
La tutela idrica e' un problema vitale tanto nei Paesi ricchi che in quelli poveri, ma viene di fatto banalizzato applicando a entrambi lo stesso meccanismo mercantile. Commenta Jean Robert: "I governi che intendono regolare i consumi idrici attraverso il mercato dovrebbero tenere a mente che solo se l'acqua e' un bene comune, gratuitamente accessibile ai ceti poveri, e' possibile contenere l'eccesso di consumo dei ceti ricchi per mezzo di prezzi elevati, senza provocare la rovina dei poveri. A Lima, ad esempio, dove il governo tenta di gestire il consumo idrico con questi sistemi, i prezzi sono troppo elevati per i poveri, che non hanno l'acqua in casa e la comprano in bidoni per strada, e troppo bassi per i ricchi, che corrompono gli autisti delle autocisterne che dovrebbero servire i quartieri poveri e usano quell'acqua per lavare le proprie automobili".
[...] In Gran Bretagna la privatizzazione della fornitura idrica non e' stata inibita da alcuna opposizione efficace, all'epoca, e le sue conseguenze non sono state notate pubblicamente se non molti anni piu' tardi. I dettagli amministrativi sull'industria idrica britannica, dati nel capitolo I, sono importanti per due ragioni. La prima e' che le riforme del 1974 hanno portato la fornitura e lo smaltimento dell'acqua per la prima volta sotto il controllo diretto del governo centrale, e il ministero del Tesoro, sia con i Conservatori sia con i Laburisti, ha costantemente ridotto la spesa a favore delle Authority idriche tra il 1974 e il 1986. Nel 1982 la somma messa a disposizione dell'industria idrica dal governo era la meta' di quella prevista come investimento di capitale nel 1974. La seconda ragione e' che il riassetto dell'industria idrica da parte del governo ha permesso di metterla insieme alle altre strutture pubbliche che nel 1980 sono state offerte in vendita a una cittadinanza che gia' le possedeva collettivamente.
Le isole britanniche sono ricche d'acqua, con precipitazioni cospicue, eppure vanno incontro occasionalmente a periodi di scarsita' idrica. E' affascinante paragonare l'atteggiamento pubblico durante la siccita' del 1995 con quello dei sedici mesi di asciutta tra il maggio 1975 e l'agosto 1976. Nel 1976 le famiglie britanniche non avevano ancora maturato alcun mutamento di percezione di fronte all'acqua trasformata da bene comune in prodotto commerciale. Fred Pearce, corrispondente per i problemi idrici del "New Scientist", riferisce che fino ad allora i responsabili della pianificazione avevano considerato "qualunque forma di restrizione della fornitura, anche un semplice hosepipe ban (divieto di uso non domestico dell'acqua) come un'ammissione di fallimento. Si rendevano conto che era privo di senso spendere milioni di sterline per ridurre la frequenza degli hosepipe bans da un anno su cinque a un anno su dieci". Ma Pearce sottolinea anche gli sforzi delle Authority, allora regionali, per agevolare l'accesso alle fonti d'approvvigionamento e i progetti a lungo termine come quello della conduttura anulare di Londra o il sistema per ricaricare le falde con le acque invernali dei fiumi. La reazione pubblica era stata piu' che mai interessante. Il National Water Council infatti rilevava che "la disponibilita' a risparmiare volontariamente l'acqua durante la siccita' era molto diffusa tra la popolazione e le industrie. La campagna per invitare al risparmio durante la siccita' aveva ridotto la domanda d'acqua perfino del 30 per cento in certe zone... e ulteriori interventi come la verifica delle perdite impreviste e la riduzione della pressione nelle tubature avevano prodotto risparmi di un altro 10 per cento".
Il 90 per cento della popolazione aveva risposto all'invito a ridurre i consumi per il bagno e piu' dell'80 per cento aveva dichiarato di aver fatto attenzione a mettere il tappo al lavandino, anche se solo il 9 per cento aveva detto di aver messo un blocco nello sciacquone del WC. Nel 1976 c'era dunque stata un'intensa cooperazione tra le varie amministrazioni idriche, tanto che Fred Pearce nota che "nel peggior caso di siccita' in duecentocinquant'anni, i tecnici sono riusciti a non interrompere l'erogazione dell'acqua", e c'era stata cooperazione anche da parte degli utenti per ridurre i consumi. Nessuna recriminazione: semplicemente il desiderio di trarre insegnamento dall'esperienza. Durante la siccita' del 1995, il clima e' cambiato. La gente ha dato la colpa alle compagnie idriche e queste hanno dato la colpa alla gente. Il ministro dell'Ambiente, John Gummer, ha avvertito la popolazione di attenersi ai precetti del 1976, di riciclare nell'orto l'acqua usata per lavare e di mettere un blocco nello sciacquone. Il giornale locale della mia citta', che difficilmente potrebbe essere definito di sinistra, ha sottolineato in un articolo di fondo la differenza fondamentale tra allora e adesso: "Allora l'acqua era proprieta' pubblica, e il pubblico aveva interesse a conservarla. Ma poi e' arrivato Mr Gummer con i suoi colleghi e ci ha detto che dovevamo cambiare idea, che l'acqua non era una risorsa naturale ma un prodotto capitalistico come gli altri".
Le compagnie idriche appena privatizzate hanno cercato di giustificare i loro profitti esorbitanti spiegandoci quali grandi miglioramenti stavano apportando al servizio. Si sono auto-compensate con enormi aumenti "di incentivazione". Non dovremmo allora aspettarci, se paghiamo la bolletta, di poter usare tutta l'acqua che vogliamo? E che importa alle compagnie, che mirano al loro profitto, se la usiamo per innaffiare l'orto o per lo scarico del gabinetto? Forse che, come qualunque acquirente, non abbiamo il diritto di usare come vogliamo il bene che abbiamo comprato, al pari di qualunque prodotto commerciale?
E' vero che tali atteggiamenti non vanno troppo d'accordo con il risparmio idrico, ma se questo fosse stato tenuto nella giusta considerazione a suo tempo, forse la privatizzazione non sarebbe apparsa un'idea tanto buona.
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Da pagina 150
I disastri prodotti dalla concentrazione della produzione agricola sulle colture da reddito per l'esportazione voluta dall'alto non si esauriscono con le frustrazioni finanziarie. Ovunque nel mondo i contadini si sono basati sulla coltivazione di prodotti di sussistenza per il consumo locale adattando le loro tecniche alla disponibilita' d'acqua e di fertilizzanti. Ben diversamente, le piu' importanti colture da esportazione non solo richiedono superiori apporti nutritivi (con il ricorso a costosi prodotti agro-chimici di importazione, che a loro volta possono provocare l'inquinamento delle falde idriche), ma anche quantitativi d'acqua superiori a quelli delle coltivazioni alimentari locali. Per secoli, la richiesta di cotone da parte dei Paesi piu' ricchi ha prodotto disastri umani. Nelle parole dei redattori della rivista "The Ecologist": "Le ripercussioni del commercio del cotone sono state catastrofiche e hanno colpito popolazioni praticamente di ogni colore e clima. Negli Stati Uniti, circa 90.000 indiani Cherokee sono stati scacciati dalle loro terre per far posto alle piantagioni di cotone, e 30.000 di essi sono morti nella famosa marcia verso ovest. Il periodo tra il 1784 e il 1860 ha visto il numero degli schiavi negli Stati del sud aumentare di otto volte, specificamente per le piantagioni di cotone, un aumento che e' sfociato nel piu' sanguinoso conflitto del secolo XIX".
Il processo non riguarda solo la storia passata. Come abbiamo visto, era il desiderio di produrre piu' cotone che stava dietro ai tentativi di imbrigliare il Nilo, scatenando infiniti problemi politici e sociali per l'Egitto e gli Stati confinanti. E lo stesso vale per la distruzione del lago d'Aral, risultato della politica dell'ex-Unione Sovietica. "The Ecologist" riporta la storia ai giorni nostri: "Durante il terzo Piano quinquennale dell'Etiopia, il 60 per cento dei terreni messi a coltura nella fertile valle di Awash e' stato dedicato alla produzione di cotone. I pastori Afar del luogo sono stati allontanati dai loro pascoli tradizionali e spinti verso i fragili territori piu' in alto, contribuendo a quella deforestazione che in parte e' responsabile della crisi ecologica dell'Etiopia".
Le fortune ammassate per secoli dall'industria cotoniera mai, in alcun continente, sono andate a beneficio di chi e' stato impiegate per piantare, curare e raccogliere il cotone, uomini donne e bambini cui l'acqua e' stata sottratta per irrigare la coltura. Contadini di sussistenza e pastori sono spinti via per far posto alle necessita' di uno stracolmo mercato mondiale. Joan Davidson riporta l'esperienza di altri Paesi africani, come Burkina Faso, Ciad e Mali: "Nella parte del Mali detta Koutiala, lo sviluppo della produzione cotoniera ha accelerato i problemi di degrado ambientale, con l'abbattimento di aree boscate e la progressiva occupazione di terreni prima usati per le colture alimentari. Il risultato di una simile pressione sulle risorse naturali e' stata la scarsita' di terra per i piccoli agricoltori e quindi il collasso del sistema agricolo tradizionale basato sul riposo periodico dei terreni. A causa del disboscamento, c'e' poca legna da ardere e gli abitanti dei villaggi devono usare come combustibile deiezioni bovine e stocchi di cotone, che altrimenti potrebbero essere impiegati per ripristinare la fertilita' del suolo in un'area gia' vulnerabile per la siccita' e l'erosione".
L'imperialismo vecchia maniera e' morto, ma e' stato sostituito da un ben piu' efficiente imperialismo economico, che obbliga i Paesi poveri a distruggere la loro precaria economia e il loro ambiente a beneficio dell'economia consumistica del mondo industrializzato. L'acqua che potrebbe essere gestita in modo da garantire la vita locale viene dissipata a favore dell'esportazione, in un mercato altamente competitivo, o dell'industria turistica. E come sempre le vittime dell'economia del mercato globale sono le popolazioni locali, private della loro dotazione di acqua per l'esclusivo vantaggio di estranei lontani. A organizzazioni solidaristiche non ufficiali come Oxfam e' lasciato il compito di ribadire il principio elementare secondo cui l'acqua deve essere usata per le necessita' umane, magari poca per tutti, ma non tutta per pochi.
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Da pagina 158
Un quarto di secolo dopo, lo scenario e' cambiato. Non solo le industrie di approvvigionamento idrico e scarico sono state privatizzate, ma adesso e' anche presente una lobby ambientalista che si preoccupa degli aspetti economici dell'approvvigionamento idrico e dei problemi ecologici connessi con lo smaltimento degli scarichi fognari. E siamo tutti diventati consapevoli del fatto assurdo che il 32 per cento dell'impiego domestico di un prodotto sottoposto a costosa depurazione e' per lo scarico dei gabinetti.
Un altro cambiamento deriva dall'impegno del governo britannico a conformarsi agli standard stabiliti dagli accordi internazionali. L'Unione Europea, quando ancora si chiamava Comunita' Europea, ha emesso una lunga serie di standard idrici che sono serviti soprattutto a fornire argomenti per le campagne delle organizzazioni non ufficiali. Ad esempio, ha emesso direttive sulla qualita' delle acque di balneazione, dal punto di vista fisico, chimico e microbiologico, in base alle quali la Marine Conservation Society e la Coastal Anti-Pollution League pubblicano una loro "Guida alle buone spiagge", mentre il Tidy Britain Group gestisce il sistema di valutazione "Bandiera azzurra". I tentativi del governo britannico di diluire l'efficacia di queste valutazioni vengono definiti da David Kinnersley, un'autorita' in materia di qualita' idrica, come "clamorose mistificazioni".
Un effetto salutare simile hanno avuto le direttive europee in materia di controllo dell'inquinamento fluviale e qualita' dell'acqua potabile. Kinnersley nota l'ironia del fatto che, da quando l'acqua di rete e' stata sottoposta a controlli analitici indipendenti, "gli inglesi si sono rivolti al consumo di acqua in bottiglia in misura difficilmente immaginabile prima. Quest'acqua viene acquistata nei supermarket a un prezzo per litro piu' di mille volte superiore a quello dell'acqua di rubinetto". E' stato anche detto, nel 1996, che alberghi e ristoranti vendono acqua imbottigliata prodotta semplicemente filtrando la normale acqua di rete, con un profitto superiore al 1000 per cento. Sono le follie di una societa' ricca, dove nessuno si preoccupa di separare l'acqua da bere da quella usata per gli scarichi igienici o per lavare la macchina. Reti idriche separate sono di improbabile realizzazione, ma molto si potrebbe fare anche solo riducendo la quantita' complessivamente consumata e usando meno acqua per lo scarico dei gabinetti.
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Da pagina 160
La situazione britannica e' meno clamorosa, ma anche qui e' ovvia la scarsa volonta' di applicare "tecniche di risanamento". L'ente di controllo dell'industria idrica, l'Ofwat, nel novembre 1995 ha appurato che "quasi un quarto dell'acqua teoricamente potabile dell'Inghilterra e del Galles e' al di sopra dei limiti per il contenuto in pesticidi". Ed esiste anche una lunga serie di rapporti che dimostra come l'aumento delle tariffe venga giustificato con la necessita' di ridurre l'inquinamento, mentre poi non viene fatto alcunche' al riguardo. Ad esempio, nel 1993 e' stato scritto che "le compagnie idriche ingannano i consumatori perche' li costringono a pagare per il disinquinamento dei pesticidi, mentre i responsabili sono gli agricoltori e l'industria chimica". Due anni piu' tardi, un documento governativo riservato filtrato all'esterno ha rivelato che "gli impianti di trattamento per disinquinare spiagge e corsi fluviali sono stati posticipati nonostante un incremento delle tariffe apparentemente finalizzato a pagare quegli impianti".
Le direttive europee sulla qualita' delle spiagge sono state disattese poiche' il governo britannico ha sostenuto che la definizione di spiaggia "deve essere applicata solo a luoghi dove almeno 500 bagnanti siano effettivamente presenti in acqua, o dove siano piu' di 1.500 per miglio lineare di spiaggia". Tale definizione esclude non solo tutte le spiagge gallesi, ma anche Blackpool, la spiaggia piu' conosciuta di tutta la Gran Bretagna.
Un'altra direttiva dell'Unione Europea, accettata dal governo britannico nel 1991, stabiliva i limiti di riferimento per lo smaltimento dei reflui urbani nei corsi d'acqua superficiali. Una scappatoia nel testo della direttiva imponeva limiti meno severi per le "aree a elevata dispersione naturale", cioe' dove il mare potrebbe allontanare rapidamente gli scarichi. Nel 1994 il ministro per l'ambiente, John Gummer, ha realizzato "una bizzarra manipolazione geografica per consentire alla privatizzata Yorkshire Water Company di evitare l'obbligo di costruire un nuovo impianto da 100 milioni di sterline per il trattamento degli scarichi inquinanti [di Hull]". Costui ha dichiarato mare aperto piu' di 30 miglia [48 chilometri] del fiume Humber, cosicche' potesse continuare a ricevere gli scarichi fognari non trattati della citta' di Hull. L'inghippo e' stato ripetuto adottando un provvedimento simile per Bristol e il fiume Severn. In entrambe le citta' l'amministrazione civica ha fatto opposizione e nel 1996 l'Alta Corte ha stabilito che tale tentativo di evadere la legislazione sull'ambiente era "illegittimo".
Questa manipolazione governativa della geografia e' esattamente il tipo di risposta ai tentativi di controllare lo smaltimento dei reflui civili e industriali che induce le industrie manifatturiere a spostare i loro impianti dai Paesi ricchi dotati di legislazione ambientale alle nazioni povere, dove normative simili mancano o non vengono fatte rispettare. Da questo punto di vista, aveva ragione Jean Robert a dichiarare la nostra manifesta incapacita' a disattivare la bomba a orologeria epidemiologica ed ecologica: i leader politici non vogliono accettare le conseguenze delle leggi che sono stati costretti a promulgare.
Cosi' come le compagnie idriche non intendono affrontare il costo di impianti e condutture separate per fornire acqua costosamente purificata per bere e fare da mangiare e acqua meno trattata destinata agli altri usi che formano la gran parte del consumo domestico e industriale, anche le aziende che si occupano dello smaltimento dei reflui non sono disposte ad affrontare i costi per tenere separati quelli civili da quelli industriali.
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Da pagina 173
Ai britannici viene fatto credere che la Francia sia la nazione piu' centralizzata dell'Europa, ma un tale dubbio onore e' invece piu' meritato dalla Gran Bretagna. E' impossibile pensare che una qualunque citta' britannica possa recuperare la propria capacita' di controllo sulla sua fornitura idrica, quantomeno nell'attuale clima politico. Ma la disastrosa conclusione che dobbiamo trarre dal dibattito che ha avuto luogo in Gran Bretagna e' che la crisi di responsabilita' sociale e' stata ridotta al problema di "acquistare dove costa di meno". Centocinquant'anni prima del dibattito parlamentare sull'introduzione della concorrenza nell'industria idrica, come e' stato sottolineato nel capitolo d'apertura di questo libro, era evidente che "l'acqua e' indispensabile alla salute e al benessere dell'umanita' come l'aria che respiriamo, e quando gli esseri umani si radunano in masse conteggiabili a decine di migliaia, e' essenziale per la salute pubblica che sia disponibile nella misura piu' abbondante possibile".
Questo antico concetto e' andato perduto tanto nei Paesi ricchi che in quelli poveri. Le decisioni sulla disponibilita' di acqua potabile sono prese su basi economiche invece che sociali, tranne i vari casi in cui intervengono istituzioni non governative ad aiutare gli attivisti locali. Se e' il meccanismo dei prezzi a determinare la distribuzione dell'acqua, i ceti poveri muoiono di sete; se e' in base a esso che si stabilisce quali coltivazioni devono essere irrigate per l'immissione sul mercato, i ceti poveri muoiono di fame; se e' sempre questo a decidere la convenienza finanziaria a controllare l'inquinamento, i ceti poveri si avvelenano; e se sono i prezzi a determinare la disponibilita' idrica per l'igiene personale, un gran numero di bambini del mondo non industrializzato muore prima dei cinque anni per malanni banali come la diarrea.
In occasione del discorso tenuto da Christiaan Barnard, pioniere della chirurgia a cuore aperto, di fronte a migliaia di persone in uno stadio sudamericano, Ivan Illich ha sottolineato la probabilita' statistica che una rilevante percentuale degli astanti soffrisse di parassitosi intestinali.
Il problema dell'acqua, un bene limitato ma rinnovabile all'infinito, e' un problema globale. Esistono grandi soluzioni tecnologiche che generalmente penalizzano le popolazioni locali e vanno a profitto di imprenditori stranieri e metropolitani. Il che, a sua volta, acuisce le dispute internazionali, combattute con armamenti di gran lunga piu' sofisticati delle semplici tecniche di gestione idrica. Il messaggio di questo libro e' che se le comunita' umane potessero realmente ottenere il controllo e la gestione dell'acqua che a loro serve, opererebbero con equita' e senso di responsabilita', riconoscendo le necessita' di tutti, comprese quelle di chi, accanto a loro, fa uso della medesima risorsa.
La tragedia della crisi idrica mondiale e' che questo e' l'ultimo approccio che chi controlla l'economia dell'acqua a livello globale intende prendere in considerazione. L'uso responsabile dell'acqua non dipende dall'imposizione di prezzi esorbitanti ai ceti poveri, estromettendoli cosi' dal mercato, ma dall'accettazione del principio elementare di un equo accesso per tutti, un concetto che ogni bambino impara fin dall'infanzia finche' il realismo politico non gli insegna che cio' che conta e' il potere. Se in una situazione di scarsita' il prezzo dell'acqua venisse lasciato all'azione del mercato, i ceti poveri morirebbero di malnutrizione e malattia, come gia' accade in molte parti del mondo, mentre le classi agiate pagherebbero senza problemi, appunto perche' sono agiate.
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Esiste davvero un parallelismo tra il nostro comune godimento dell'acqua pubblica, che non appartiene a nessuno ed e' condivisa da tutti, e il nostro bisogno individuale di acqua domestica idonea e sicura. Mari, fiumi, laghi e fontane non sono strutture private, anche se puo' esserlo l'accesso a essi. La pioggia non appartiene a nessuno, ma purificarla e portarla fino alla nostra cucina o stanza da bagno e' un servizio vitale, per il quale paghiamo individualmente o collettivamente. L'esperienza dimostra che per il bene della societa' nel suo complesso ogni famiglia deve avere la sua quota, per quanto modesto sia il suo contributo economico. Prima che cio' fosse capito, nel 1844 Elizabeth Stubbs (vedi capitolo I) e' stata multata per aver tratto acqua dalla bocchetta della Preston Water Company senza contratto che la autorizzasse a farlo. E' assai deprimente leggere che centocinquant'anni dopo Rachel e Steve, cui l'acqua era stata tagliata, abbiano dovuto confessare che "giriamo dietro la casa dei vicini e riempiamo la vasca da bagno con il loro tubo di gomma per innaffiare, e quella e' l'acqua che usiamo per lavare, per il gabinetto, per far da mangiare e tutto il resto". In teoria, sono colpevoli del medesimo reato.
Il fatto che una simile situazione sarebbe stata inconcepibile in una citta' britannica del XX secolo fino agli anni Ottanta ci rammenta che in Gran Bretagna i dogmi dell'economia di mercato sono stati assorbiti con la forza incontenibile di un risveglio religioso. Hanno cambiato il linguaggio di noi tutti, convertiti o eretici, con il risultato che chi usa l'acqua, come il passeggero delle ferrovie, viene oggi descritto come "utente". Un corrispondente del "New Statesman" ci invita, a mio parere correttamente, a "riconoscere che gli 'studi economici' che attualmente ci vengono proposti sono il piu' efficace programma di propaganda politica mai intrapreso in questo Paese". Il medesimo assunto ha dominato per anni la politica delle istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nel loro approccio al problema dell'approvvigionamento idrico nei Paesi non industrializzati.
A ognuna di queste ondate evangeliche segue una reazione che riconferma gli antichi valori. E' per questo che nella prefazione ho citato il pensiero di Richard Titmuss, che mette a confronto il sistema della donazione di sangue (basato sul senso di solidarieta' e responsabilita' sociale verso gli altri, membri sconosciuti della societa') e il mercato commerciale del sangue, che e' risultato essere essenzialmente una redistribuzione dai ceti poveri a quelli ricchi. E ho suggerito che ci fossero somiglianze, ma anche differenze, tra la distribuzione di queste due sostanze ugualmente necessarie alla vita. Nel corso del libro ho anche mostrato che, nel fondamentale dovere sociale di preservare l'acqua, l'esperienza britannica indica l'esistenza di un diverso atteggiamento popolare a seconda che questa sia fornita come bene pubblico o come il risultato di una transazione commerciale.
Anni prima, Titmuss sosteneva che "e' probabile che nei prossimi cinquant'anni, in Gran Bretagna, le idee sociali saranno importanti quanto l'innovazione tecnica". La maggior parte di quei cinquant'anni e' trascorsa, e tutto quello che abbiamo potuto vedere nel campo delle idee sociali e' stato cio' che Titmuss condannava come "l'ipocrita resurrezione dell'uomo economico nella politica sociale".
Eppure, questo libro ha anche dimostrato che in tutto il mondo una varieta' di societa' umane ha messo a punto sofisticati sistemi di distribuzione idrica che combinano la conservazione dell'acqua con un automatico rispetto per l'equita' e la reciprocita'. Il problema idrico non e' un problema di natura tecnica, ma una crisi di responsabilita' sociale.




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Il Seme Sotto La Neve
Francesco Codello Intervista Colin Ward

L'anarchismo ha senso nel ventunesimo secolo? Le sue idee fondanti sanno dare risposte convincenti di fronte a una società che cambia a velocità sempre più elevata? Le domande esistenziali, sociali, culturali, organizzative che si pone l'uomo del terzo millennio quanto possono riconoscersi nell'anarchismo? E, infine, lo stesso anarchismo quanto deve trasformarsi per essere coerente con se stesso in una situazione profondamente mutata? Quanto deve saper perdere del suo passato per essere capace di progettare una futura società fondata sulla libertà? Domande complesse, però se l'interlocutore di Libertaria è Colin Ward il problema può essere affrontato con maggiore facilità. Come mai? Perché Ward rappresenta, con la sua opera investigativa, l'esempio dell'intellettuale impegnato nelle questioni sociali, il ricercatore e sperimentatore mai pago dei risultati raggiunti. Insomma, un utopista che non si ferma a contemplare il "radioso avvenire", ma vuole trasfondere la sua utopia nella quotidianità. Nato nel 1924, Ward ha percorso le rotte principali della cultura moderna alla ricerca di risposte libertarie in vari ambiti della vita sociale e lo ha fatto seguendo un metodo completamente empirico, applicando gli insegnamenti di quello che può essere considerato il suo principale maestro: Pëtr Kropotkin. Già nel 1947 lo troviamo nella redazione di Freedom, giornale anarchico londinese fondato proprio da Kropotkin, dove è rimasto fino al 1960. Nel 1961 ha fondato, e diretto fino al 1970, il mensile Anarchy, che ha rappresentato, nel panorama dell'editoria, non solo anglosassone, un esempio riuscito di pragmatico e disincantato confronto dell'anarchismo con le più interessanti acquisizioni scientifiche, sociali, culturali moderne. Per fare emergere il libertarismo che comunque si manifesta già oggi nonostante la "società del dominio". La ricerca di Ward è focalizzata proprio su come la società possa produrre (e spesso produca) proposte e risposte alternative a quelle dominanti. Fin dagli anni Settanta Ward ha pubblicato libri che spaziano dall'educazione all'urbanistica, ma legati da una comune convinzione, cioè il fulcro del suo pensiero: l'anarchia è la più efficace forma di organizzazione sociale. Non è un'organizzazione ipotetica ma una vivente realtà sociale. Una realtà che è sempre esistita e tuttora esiste, come "seme sotto la neve", pur schiacciata dall'oppressione della gerarchia, dello stato e del capitalismo. Ward sostiene queste sue tesi fin dal 1973, anno di pubblicazione di quello che è ormai diventato un classico del pensiero anarchico: Anarchy in action (La pratica della libertà, Elèuthera, Milano, 1996). Lo fa avvalendosi di una notevole mole di fonti e argomenti tratti da diverse discipline scientifiche come sociologia, antropologia, cibernetica, economia, psicologia e pedagogia, ma anche da esperienze tratte dal campo della pianificazione urbanistica, dall'architettura, dall'organizzazione del lavoro, dalla dimensione ludica. Gran parte dei suoi libri si occupano dei modi "non ufficiali" utilizzati dalle persone per rimodellare l'ambiente, sia rurale sia urbano, secondo le proprie necessità o bisogni. Ecco perché si è occupato di vandalismo, di orti urbani, di autocostruzione, di occupazione di case, ma soprattutto di educazione. Ha scritto anche libri per bambini su tematiche come il lavoro, la violenza e l'utopia (pubblicati dalla Penguin Education, dal 1973 al 1976). Numerosi sono i suoi saggi e articoli, alcuni dei quali pubblicati in italiano sul trimestrale Volontà e sul mensile A rivista anarchica. Suoi contributi sono apparsi anche su testate nazionali inglesi come New Statesman & Society, su People & Ideas, su The Guardian. In lingua italiana, oltre al già citato libro, sono apparsi: Dopo l'automobile (Elèuthera, Milano, 1992); La città dei ricchi e la città dei poveri (E/O, Roma, 1998) che raccoglie le conferenze tenute da Colin Ward come visiting professor alla London School of Economics nel 1996; Il bambino e la città (L'Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000). Attualmente vive nel Suffolk e continua la sua attività editoriale. Ma i suoi indubbi meriti in ambito intellettuale e anarchico non possono competere con la sua straordinaria umanità.

Il 1989 rappresenta il simbolo della rottura definitiva della continuità, la discontinuità con il secolo ventesimo. La caduta del muro, oltre che svelare la fine irreversibile del comunismo di stato, mette in crisi anche le società social-democratiche ed evidenzia il trionfo del capitalismo. L'anarchismo come reagisce a questo evento, come può evitare di essere coinvolto in questa "caduta" del socialismo?

Una delle cose più interessanti della caduta del muro e del crollo dell'impero sovietico è il fatto che non fosse prevista da nessuno e neppure si poteva pensare che avvenisse così rapidamente. L'anarchismo come reagisce alla fine dello stato comunista? Gli anarchici possono sicuramente vantare che la natura del regime sovietico era stata preannunciata in modo preciso da Michail Bakunin nella sua polemica con Karl Marx nel 1870-1873, e da Kropotkin nelle sue lettere a Lenin nel 1920. Una di quelle lettere termina così: "Una cosa è certa. Anche se una dittatura di partito fosse il giusto mezzo per assestare un colpo al sistema capitalista (anche se ho forti dubbi), è certamente dannosa per la costruzione di un nuovo sistema socialista. Ciò che è necessario e di cui vi è bisogno è di istituzioni locali, forze locali. Ma non ve ne sono, da nessuna parte. Invece, da qualunque parte si osservi, ci sono persone che non hanno mai conosciuto nulla della realtà, commettendo, in questo modo, i più atroci errori, errori pagati con migliaia di vite e con la devastazione di interi distretti". Quando gli anarchici attivisti, per esempio Emma Goldman e Alexander Berkman, cercarono di pubblicare in Occidente la verità sull'Unione Sovietica, furono osteggiati dall'intellighenzia di sinistra che preferiva tenere nascosta la verità. Lo stesso George Orwell incontrò difficoltà nel trovare un editore per La Fattoria degli animali nel 1944. Senza dubbio la rivoluzione bolscevica ebbe un effetto disastroso sui movimenti socialisti nel resto del mondo, dividendoli tra i portavoce della politica dei bolscevichi e quelli che preferivano ragionare con la loro testa. Non solo gli anarchici dell'impero sovietico, ma anche quelli delle altre nazioni furono vittime della politica estera di Stalin. Ormai questa è storia. L'attuale "trionfo del capitalismo" nell'Europa occidentale non è il risultato della caduta del muro ma della globalizzazione del mercato. Industriali britannici, francesi, tedeschi o italiani possono comprare il lavoro degli operai in Cina, Malesia, Vietnam o Indonesia sempre più a buon mercato, a una frazione del costo della manodopera dell'Occidente e senza che migliori condizioni di lavoro siano sostenute da generazioni di sindacati. C'è un ulteriore aspetto del trionfo del capitalismo. Kropotkin, nel suo saggio del 1887 sul Comunismo anarchico, vide attraverso la sua visione ottimista, che la tendenza crescente della società moderna andava proprio verso il comunismo, il libero comunismo, nonostante lo sviluppo apparentemente contraddittorio dell'individualismo. Egli pensava che questa tendenza stesse continuamente affermandosi e continuando a farsi strada nella vita sociale. Scrive ancora Kropotkin: "Musei, biblioteche libere, scuole pubbliche libere, parchi e luoghi di ricreazione, strade pavimentate e illuminate, liberamente usate da tutti, acqua fornita a tutte le abitazioni private, con una crescente tendenza a trascurare l'esatta quantità che viene usata da ciascun individuo; il sistema tramviario e ferroviario che ha già iniziato a introdurre l'abbonamento o la tassa unica e che sicuramente andrà oltre su questa linea quando non ci saranno più proprietà private…". Ebbene, questo elenco di servizi pubblici così prosaico è interessante se si pensa che un secolo dopo, il governo britannico di Margaret Thatcher, cominciò ad applicare "i valori di mercato" agli aspetti della vita nei quali il suo partito aveva precedentemente accettato il socialismo spontaneo della società civile. Per esempio chiese che venisse pagata l'entrata ai musei pubblici, vendette l'industria dell'acqua a imprese private e vendette il sistema ferroviario a chiunque volesse acquistarlo, con il risultato che le ferrovie britanniche sono diventate tra le meno affidabili e le più costose d'Europa. Chiunque si rende conto di come il linguaggio delle facoltà di economia e commercio e del mercato sia entrato nel vocabolario dell'organizzazione sociale. E tutto questo rende più difficile il nostro compito di propagandisti anarchici. Molto più difficile di quanto lo fosse un secolo fa, quando militanti come Kropotkin ed Errico Malatesta potevano estrapolare il loro discorso anarchico anche dall'esperienza comune. Purtroppo il culto del mercato continuerà perché ha ampliato il divario fra i ricchi e i poveri.

Quali sono ancora oggi i valori e i punti irrinunciabili e fermi dell'idea anarchica? Questi valori sono propri dell'anarchismo oppure sono universali? Ma l'anarchismo così come si è definito nel corso di questi ultimi centocinquant'anni è un'ideologia universale, oppure è semplicemente il prodotto di un'epoca storica e un contesto geografico?

Come tutti sappiamo, ci sono una varietà di interpretazioni della parola anarchismo, cercherò comunque di dare una definizione che sia abbastanza ampia per includerne diverse. Vorrei sottolineare che in tutte le scelte della nostra vita sociale, in famiglia, nella comunità locale, nel lavoro, nel tempo libero, nelle comunicazioni, nei trasporti e nelle arti, ci sono una varietà di soluzioni. L'anarchico è una persona che di solito ricerca, sceglie ed è a favore di soluzioni libertarie opposte a quelle autoritarie. I valori che io vorrei descrivere come anarchici sono sostenuti da un grande numero di persone che non si ritengono anarchiche, così vorrei felicemente considerarli come universali, e il più importante fra tutti è la fiducia nell'aiuto reciproco, alla base della vita sociale umana, anche se la competizione rimane la caratteristica dominante. L'anarchismo così come si è sviluppato è il prodotto della sua storia e geografia. Deriva dal liberalismo dell'Illuminismo del diciottesimo secolo e dal socialismo dell'Europa del diciannovesimo secolo. Così ha in comune con il primo di questi la fiducia nella perfettibilità umana e con il secondo la convinzione che una "lotta finale" rivoluzionaria metterebbe fine allo sfruttamento e al governo dell'uomo sull'uomo. Tuttavia non ho mai incontrato un anarchico moderno che sostenga queste tesi semplicistiche. Storici anarchici come Max Nettlau ed etnografi anarchici come i fratelli Réclus hanno cercato di dimostrare che l'anarchismo non era semplicemente un prodotto dell'Europa del diciannovesimo secolo, scoprendo idee anarchiche anche fra culture tradizionali di molte parti del globo, dall'antica Cina all'Africa tribale. Sono anche consapevole che negli Stati Uniti, la parola "libertario" è stata assunta dai sostenitori di un'economia di mercato senza limitazioni. E questo avviene in una nazione in cui il 5 per cento delle famiglie possiede più di quanto possiede il rimanente 95 per cento. Per di più gli Stati Uniti hanno una percentuale più alta di popolazione carceraria rispetto a qualsiasi altro stato di cui abbiamo le statistiche.

Schematizzando: esistono due tendenze diverse nella tradizione anarchica rispetto alla lettura della storia sociale. Una mette l'accento maggiormente sulla capacità dello stato e del dominio organizzato di trasformare le rivolte e le contestazioni in nuove tecniche più aggiornate del potere, l'altra è più disposta a cogliere i progressi sociali, generalmente intesi, e vedere nell'allargamento di maggiori spazi di libertà e giustizia sociale, una conquista comunque positiva. Dalle due consegue una diversa interpretazione storica e ideologica della democrazia liberale. Chi, nel primo caso, tende a vederla come la forma più astuta di dominio, peggio anche dei sistemi totalitari, chi, nella seconda lettura, privilegia comunque gli spazi di libertà che in essa esistono. L'anarchismo in quanto insieme di valori radicalmente diversi da quelli delle società finora esistite, è per sua natura rivoluzionario, anche se oggi non ha più senso, nel contesto occidentale, considerarlo insurrezionalista. Può l'anarchismo del ventunesimo secolo definirsi ancora rivoluzionario ed eventualmente in che senso e con quali modalità?

Sono uno di quegli anarchici che preferiscono vivere in una democrazia liberale e che si è rallegrato quando la stampa anarchica è riapparsa in Spagna, Russia e Argentina. Questo non significa che io mi illuda sul sistema di potere delle democrazie liberali. Credo anche che gruppi di minoranze, come gli anarchici, possano avere un'influenza al di là del loro numero. Nel mio libro La pratica della libertà affermai che "Una nuova fiducia in se stessi, la rivendicazione del diritto a esistere con le proprie caratteristiche, si è diffusa nei gruppi sociali sottoposti a forme particolari di discriminazione. Già lunga è la lista dei movimenti di liberazione: neri, donne, omosessuali, carcerati, persino bambini ed è destinata ad allungarsi man mano che la gente si renderà conto che la società in cui vive è organizzata in modo da negare a tutti i diritti più elementari". Sarebbe troppo drammatico descrivere il movimento anarchico moderno in Occidente come insurrezionale, tuttavia le aspirazioni e le richieste dell'anarchismo oggi sono così lontane dal capitalismo di mercato nel quale credono i politici di destra e di sinistra, che le dobbiamo descrivere come rivoluzionarie. Ogni incontro mondiale (Wto, Ocse, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale) negli ultimi anni, a Londra, Seattle, Praga, Nizza, è stato assediato e interrotto da dimostrazioni all'interno delle quali non è mancata la presenza anarchica. Il fatto che io menzioni queste opposizioni puramente simboliche all'economia globale capitalistica, indica quanto lontani siamo dall'influenzare il clima politico. È comunque importante ricordare che tutti i movimenti socialisti che criticarono gli anarchici per un secolo per la loro mancanza di realismo pratico, sono esattamente nella stessa posizione degli anarchici oggi. Si pensi alla forza opprimente che le idee marxiste hanno tenuto per decenni sull'intellighenzia accademica europea. Autorganizzazioni popolari e cooperative riemergeranno come ideale politico e gli anarchici dovranno essere pronti con una teoria e pratica convincente.

Tu sostieni (e lo fai da tanto tempo) che l'anarchismo è come "un seme sotto la neve": cova all'interno delle società e si manifesta in molteplici forme ed espressioni spontanee e variegate. È chiaro il tuo riferimento al pensiero di Kropotkin: il recupero di una tradizione illuministica dell'anarchismo. A che cosa serve, se serve, dare a queste espressioni un senso di appartenenza comune, uno stesso sentire e riconoscersi parte di un progetto più ampio?

Ogni insegnante accresce la conoscenza che il suo studente già possiede. Di conseguenza per i propagandisti anarchici è importante attirare l'attenzione su quegli elementi di libertà, cooperazione volontaria che esistono in ogni nazione. L'anarchismo prevede l'espansione di questi elementi all'intera vita sociale e produttiva. Penso sia importante per gli anarchici enfatizzare l'esistenza di un anarchismo "diffuso" e "sotterraneo". Primo perché il fenomeno è più ampio di quanto credano gli stessi anarchici, poi per poter meglio mettere in evidenza i falsi della propaganda governativa. Faccio un esempio: in Gran Bretagna i partiti politici, sia di destra sia di sinistra, rivendicano questo territorio come proprio. Il governo di Margaret Thatcher dichiarò che stavano "arretrando le frontiere dello stato". Mentiva: il suo governo imponeva un controllo centrale sull'amministrazione locale ancora più rigido di qualsiasi precedente governo britannico. Il governo di Tony Blair fece lo stesso genere di dichiarazione alla "società civile", facendo intendere che quegli elementi non-capitalistici dell'organizzazione sociale non sono controllati dal governo centrale. A questo punto è importante enfatizzare come l'elemento di aiuto reciproco familiare nella vita quotidiana è un modello per gli anarchici e non esiste nei programmi dei partiti politici.

Il processo di globalizzazione economica ha portato con sé anche un pensiero unico, quello proprio della tradizione occidentale e capitalista. Sia il pensiero liberale e l'economia di mercato sia la tradizione socialista hanno sempre sostenuto, in teoria e nei fatti, la necessità di un internazionalismo generalizzato, che superi e contempli da un lato il liberismo economico, dall'altro il socialismo universale. L'anarchismo come si può porre rispetto a queste questioni? L'anarchismo è relativista o pluralista?

La tua domanda evidenzia una particolare ironia. Furono i movimenti della sinistra: il socialismo e l'anarchismo a mettere in rilievo la solidarietà globale. È stata l'economia di mercato della destra a garantire la possibilità di acquistare nei negozi europei prodotti meno costosi grazie allo sfruttamento della manodopera in Africa, Asia o America latina. Tuttavia è l'internazionalismo della sinistra a sostenere che questa è una situazione temporanea e il libero movimento del popolo così come quello dei prodotti è inevitabile in un mondo di comunicazioni immediate. Per quanto riguarda la distribuzione globale della produzione industriale, immagino che gli anarchici siano propensi a prediligere la produzione locale per soddisfare i bisogni locali rispetto al trasporto a grande distanza di prodotti agricoli e manufatti, caratteristica dell'economia capitalista. Infine, "relativismo e pluralismo": la tradizione anarchica alla quale noi apparteniamo ha le sue origini nella storia europea, ma incontriamo forme equivalenti in tutto il mondo. Per esplicitare questa tradizione diversificata, basta ricordare quanto dice Malatesta: "noi siamo, in ogni caso, soltanto una delle forze che agiscono nella società, e la storia avanzerà come sempre, in direzione dei conseguenti risultati di tutte le forze in campo".

Quali possono essere le possibilità di affermare e diffondere una cultura della partecipazione diretta alla formulazione delle decisioni, al rispetto e all'agibilità del dissenso, alla molteplicità della sperimentazione sociale e individuale?

Quando ero un giovane propagandista anarchico, il governo laburista del dopoguerra introdusse in Gran Bretagna l'assistenza sanitaria nazionale, e un vasto programma per l'edilizia e l'assicurazione nazionale. E allora la gente mi avrebbe potuto replicare:"La tua immagine dello stato come macchina tirannica e oppressiva è folle, perché non tiene conto della sua funzione principale: fornire sicurezza e benessere ai suoi cittadini". C'erano due modi di rispondere a questa obiezione: il primo era di attirare l'attenzione sulle origini del benessere sociale basato sulla solidarietà popolare. (Questo è il contenuto del dodicesimo capitolo del mio libro La pratica della libertà). La seconda risposta era osservare l'amaro resoconto di Kropotkin (in La scienza moderna e l'anarchia) dove sostiene che saremo costretti a trovare nuove forme di organizzazione per le funzioni sociali cui lo stato adempie tramite la burocrazia e che "finché non si farà ciò, nulla cambierà". Ho cercato di applicare questo consiglio al settore che meglio ho conosciuto: l'edilizia. In Gran Bretagna negli anni Sessanta, quasi un terzo della popolazione viveva in case o appartamenti di proprietà dello stato e presi in affittato dalle autorità locali. Nella rivista Anarchy e successivamente nel mio libro Tenants taken over ho analizzato la trasformazione dell'edilizia pubblica in cooperative di inquilini. In una certa misura questo effettivamente accadde (nel 1970 c'erano solo due cooperative di affittuari in tutta la Gran Bretagna; oggi ce ne sono forse duemila). Ma una buona parte delle abitazioni pubbliche è passata sotto il controllo di organizzazioni non a fini di lucro, non controllate dagli affittuari. Questi sforzi erano senza dubbio un tentativo di "diffondere una cultura della partecipazione diretta nel processo decisionale". Ci sono molti altri aspetti della vita sociale quotidiana che richiederebbero sperimentazione anarchica. Per esempio: il controllo e l'amministrazione dell'assistenza sanitaria.

In un articolo dal titolo What will anarchism mean tomorrow? (apparso sulla rivista londinese Freedom il 6 marzo 1993) di fronte alla diffusione delle concezioni fondamentaliste sostieni che spesso diventa inevitabile difendere lo stato moderno, in quanto comunque "meno" opprimente di quello teocratico. Anche gli anarchici in determinate circostanze storiche e specifici contesti culturali e sociali dovrebbero, allora, difendere gli spazi di libertà democratiche delle attuali società statuali?

Non mi sono mai sentito in grado di dire agli altri anarchici come devono comportarsi, ma il dilemma che cito è presente in varie parti degli Stati Uniti dove viene difeso lo stato moderno contro i Cristiani Rinati (Born Again), o per gli anarchici in Israele che difendono lo stato dal giudaismo ultra-ortodosso, o per gli anarchici egiziani che si difendono contro il fondamentalismo islamico, o per gli anarchici indiani che difendono lo stato secolarizzato contro l'estremismo induista. Ho voluto evidenziare che, come altre persone non religiose e non nazionalistiche, non abbiamo idea di come frenare questi fenomeni indesiderati. Attacchiamo il revival religioso, con il rischio di alimentare, piuttosto che ridurre, il suo potere. Non ho ancora trovato una risposta a queste domande. Ma ho il sospetto che dietro alla tua domanda ci sia una preoccupazione per la questione del compromesso. Questo non mi ha mai disturbato eccessivamente, perché ogni giorno tutti noi facciamo compromessi con la società in cui viviamo e con le sue regole. (Infatti, se si considerano i meccanismi quotidiani di una ipotetica società libertaria, scopriremmo che il compromesso fra opposte visioni sarebbe il suo principio guida). Un vecchio anarchico inglese mi ha raccontato il suo rapporto con un ispettore delle imposte che gli mandava un modulo da completare ogni anno. Lui forniva ogni dettaglio delle sue entrate e cercò più volte di convincere l'ispettore a visitarlo personalmente per discutere la questione. Naturalmente il suo reddito era talmente basso da non meritare la considerazione dell'ispettore; egli comunque mi sottolineò che il tipo di persona che froda il fisco è, secondo lui, anche il tipo di persona che renderebbe impossibile una società anarchica.

Finora, sostieni sempre nel citato articolo, che l'anarchismo è stato, anche quando non europeo, fondamentalmente eurocentrico. Quali tracce vedi di un anarchismo contemporaneo di diversa etnia culturale?

Dal momento che i primi propagandisti anarchici, come Kropotkin ed Elisée Réclus, furono per caso geografi ed etnologi, ci fu una precoce scoperta dell'esistenza del pensiero anarchico in culture non europee. Sarebbe difficile affermare che l'anarchismo contemporaneo influenza le culture non europee, ma con la globalizzazione della cultura, la maggior parte di noi ha qualche idea dell'esistenza di idee anarchiche taoiste e buddiste dal lontano Est e di tradizioni anarchiche indiane nel movimento conosciuto come Sarvodaya, e dei movimenti contemporanei in America latina, noti come "basismo".

Quali pensatori consideri tuttora validi per comprendere in senso libertario l'evoluzione della società?

Io sono nato nel 1924 e sono stato influenzato soprattutto dagli anarchici classici, come Kropotkin, e da alcuni pensatori non propriamente anarchici, come Alexander Herzen del diciannovesimo secolo e da Martin Buber e Isaiah Berlin del ventesimo secolo. L'anarchico del ventesimo secolo più vicino alle mie idee è stato Paul Goodman. Appartengo a una generazione per la quale la parola stampata è stata il più importante mezzo di propaganda e mi stupisce davvero scoprire che scrivo per la stampa anarchica britannica dal 1943. Tuttavia, sono sicuro che la mia propaganda è stata più efficace quando ho avuto l'opportunità di scrivere per la stampa non anarchica. Fui infatti invitato a scrivere un articolo ogni settimana nel New Society dal 1978 fino al 1988 e poi fino al 1996 su New Stateman & Society.

Tu hai affermato che probabilmente nel ventunesimo secolo l'anarchismo, potrà essere chiamato con altri nomi, definito con altre espressioni, colto in altre manifestazioni: che cosa intendi dire?

Volevo mettere in risalto che secondo il mio punto di vista l'anarchismo non è un tipo di utopia, ma un modello di organizzazione sociale e sottolineavo questa osservazione di Paul Goodman: "una società libera non può essere realizzata sostituendo un ordine nuovo a quello vecchio, ma piuttosto con l'ampliamento delle sfere di azioni libere fino a che esse vengano a costituire il fondamento della vita sociale". Essendo così, è probabile che l'anarchismo sarà reinventato da persone che non hanno alcuna conoscenza della tradizione a cui, in teoria, appartengono.

Che rapporto c'è tra l'ecologismo, l'ecologia sociale e l'anarchismo del futuro?

C'è un rapporto molto stretto. Quando Fields Factories and Workshops (Campi fabbriche e officine) di Kropotkin (il suo manuale per una società ecologicamente vitale) fu ristampato nel 1919, il libro conteneva una nota introduttiva che sottolineava questo: "Si richiede una nuova economia nelle energie usate per provvedere ai bisogni della vita umana, poiché questi bisogni stanno aumentando e le energie non sono inesauribili". Questa è un'osservazione molto insolita intorno ai problemi ambientali nella letteratura socialista di quei tempi. Fra gli anarchici moderni mi rallegro del fatto che la voce di Murray Bookchin sia presente nel movimento ambientalista americano che conduce una campagna per l'"ecologia sociale", opposta all'"ecologia profonda", propria di persone che preferiscono i loro sentimenti mistici ai problemi che affrontano i loro simili. Il futuro dell'anarchismo è legato alla sua consapevolezza ambientalista.

Se tu dovessi spiegare a un essere di un altro pianeta che cos'è l'anarchia, cosa gli diresti?

Il mio primo sforzo sarebbe quello di persuadere il mio ospite a dividere il pasto con me, mi è sempre stato detto che il primo gesto che le popolazioni nomadi compiono verso gli estranei è quello di metterli a proprio agio spiegando che la parola "compagni" significa persone che dividono il pane con te. Il secondo passo sarebbe quello di spiegare che alcuni di noi credono che la spontanea condivisione dei beni e dei servizi porta al massimo piacere per tutti e che se l'ospite fosse disponibile a partecipare al lavoro della nostra comunità sarebbe il benvenuto fra noi. Sarebbe comunque libero di partire, con un avvertimento: molte comunità sono ostili agli estranei di diverso colore e potrebbero giudicarlo come "immigrato illegale" o "emigrante economico".


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Antonio Carioti Ricorda Colin Ward


La Nonviolenza è in Cammino
Dal "Corriere della sera" del 24 febbraio 2010 riprendiamo il seguente necrologio dal titolo "Colin Ward, l' anarchia applicata alla citta'" e il sommario "Addii. Aveva 85 anni. Pacifista, voleva meno automobili e piu' spazi per le esigenze dei bambini"
 
Meno automobili, piu' spazio per le esigenze dei bambini. Nel pensiero anarchico l' inglese Colin Ward, scomparso a Ipswich (nel Suffolk) all'eta' di 85 anni, aveva portato la sua esperienza di architetto e urbanista, convinto che i luoghi per abitare e per vivere dovessero essere radicalmente riorganizzati a misura d'uomo. "L'attenzione alla citta' - ricorda Goffredo Fofi, che lo ha conosciuto personalmente - e' un tratto distintivo di vari autori libertari del Novecento, da Lewis Mumford ai fratelli Paul e Percival Goodman, che influenzarono molto Ward. Lui apparteneva al filone anarchico revisionista e pacifista, che non punta a sovvertire lo Stato, ma a promuovere tra gli uomini relazioni diverse, fondate sulla solidarieta' e la cooperazione. Due erano le priorita' del suo impegno: ripensare la citta' come luogo di convivenza armonica e proporre un'educazione non autoritaria per i bambini. Quando un mio amico gli chiese una definizione dell'anarchia, Ward rispose: una forma di disperazione creativa. Manifestava cosi' il suo pessimismo per la china verso cui pare indirizzata la nostra societa', ma anche la sua fiducia nella capacita' inventiva dell'uomo". Nato nell'agosto 1924, Ward si era avvicinato agli ambienti anarchici durante la guerra, poi aveva alternato le attivita' di militante, architetto, saggista. Diversi suoi libri sono stati pubblicati in italiano dall'editrice libertaria Eleuthera: Dopo l' automobile (1997), Acqua e comunita' (2003), Anarchia come organizzazione (2006), L'anarchia. Un approccio essenziale (2008). Da segnalare poi, per quanto riguarda il suo pensiero in campo urbanistico, i saggi di Ward Il bambino e la citta' (L' ancora del Mediterraneo, 2000) e La citta' dei ricchi e la citta' dei poveri (edizioni e/o, 1998).


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Goffredo Fofi Ricorda Colin Ward

La Nonviolenza è in Cammino
Dal quotidiano "L'Unita'" del 21 febbraio 2010 riprendiamo il seguente ricordo dal titolo "Il sogno della citta' per l'uomo"
 
Non mi pare che nessun giornale abbia ricordato la figura e l’opera di Colin Ward, educatore e urbanista inglese morto l’11 febbraio scorso. Cerco di rimediare e di spiegare le ragioni della mia affezione a questa singolare figura di anarchico, le cui opere sono pubblicate in Italia da Eleuthera (consiglio per cominciare le Conversazioni con David Goodway, anche per la ricostruzione di un’epoca e di una storia - la classe operaia inglese, la guerra di Spagna e la mondiale, la cultura inglese antistalinista e anticapitalista alla Orwell...), mentre Il bambino e la citta', che mi pare il suo capolavoro, e' edito da L’ancora del Mediterraneo con la prefazione di Marco Rossi-Doria.
Ho accompagnato Ward molti anni fa in un suo viaggio italiano e lo ricordo nei vicoli di Napoli affascinato e spaventato dalle prodezze dei ragazzini in motorino e lucidissimo analista dei problemi della citta' con gli studenti di architettura. I grandi utopisti si sono interessati tutti, per prima cosa, di bambini e di citta', e cioe' del futuro dell’uomo e dei suoi modi di convivere. Lo stesso hanno fatto i grandi riformatori, i grandi urbanisti, e Colin, urbanista di formazione e impegnato in cento progetti di edilizia popolare in Inghilterra, e' stato molto vicino ai grandi teorici di una citta' a misura d’uomo, come i fratelli Goodman o Lewis Mumford (quello di La citta' nella storia, un libro che gli studenti di architettura dovrebbero imparare a memoria non fosse che per sputtanare certi loro professori).
Anni fa Enzensberger scrisse, scandalizzando alcuni, che gli architetti sono diventati i peggiori nemici dell’uomo moderno. Non direi che avesse torto, a giudicare dalle gabbie in cui essi ci costringono, dalla loro accettazione delle regole imposte dai costruttori e da altri “padroni della citta'”, primi fra tutti i fabbricanti di automobili. (A loro unica giustificazione, l’amore che “l’uomo moderno” sembra avere per le sue “moderne” gabbie primarie: l’appartamento in mezzo a migliaia e migliaia tutti uguali e ugualmente barricati, e l’automobile, che e' una prigione piu' piccola e ancora piu' soffocante. Tra parentesi, Ward ha scritto anche di temi centrali come l’automobile e l’acqua). Oggi che l’urbanistica e' morta, e gli urbanisti si sono arresi all’idea che ci possa essere solo la “citta' diffusa” e cioe' una scalcinata e disordinata valanga di capannoni villette supermercati in un pianeta tutto urbanizzato, e pronti a cantarne le lodi pur di continuare a guadagnar bene e a sentirsi importanti, oggi che l’architettura privata ha bisogno al piu' di geometri e quella pubblica si esalta per i grandiosi mega-progetti holly e bollywoodiani alla Renzo Piano (uno dei pochi super-celebrati super-divi mondiali dei super-monumenti che celebrano il nostro super-tempo e i suoi super-boss, certamente amico e sodale di Gae Aulenti, super-specializzata nello stupro di vecchie piazze) tutti questi discorsi possono sembrare muffa e forse lo sono, ma ogni ipotesi di futuro riguarda... i bambini e la citta', per l’appunto, e su queste due cose e' doveroso, e' moralmente obbligatorio riflettere.
La seconda ragione per ricordare Colin Ward e' il pensiero anarchico moderno, non quello di certi patetici individualisti (o pseudo) di ieri o di chi teorizza il modo di farsi i fatti suoi (ma allora nulla e' piu' anarchico del Capitale, ricordava Marx) ma quello dei “revisionisti” del Novecento, primi fra tutti Malatesta e Berneri maestri di un’Italia migliore, poco studiati o dimenticati o censurati dal pensiero dominante delle grandi “parrocchie”. Occorrerebbe dunque parlare dell’anarchia come di un pensiero moderno che ha finito necessariamente per contagiare i migliori pensatori a cavallo di secolo, i piu' preoccupati delle sorti del mondo.
Per dirla in breve e parafrasando un detto - sano - di Croce, in un mondo come quello in cui viviamo, dominato da forze mai del tutto palesi e in cui gli individui contano solo oltre un certo livello di reddito, per chi non accetta il mondo cosi' come ce lo impongono e' diventato legittimo dire che non possiamo non dirci, in qualche modo, anarchici. Oltre ogni significato ed esperienza storica dell’anarchia, e oggi e proprio oggi. D’altra parte, alla domanda, "Ma in definitiva che cos’e' l’anarchia per te?", il saggio e gentile, il pacato e umile Colin Ward, in un incontro con un gruppo di giovani romani organizzato con quattro amici architetti (sic) e operatori sociali e volontari, rispose con la piu' bella definizione attuale di anarchia che io abbia mai sentito: "E' una forma di disperazione creativa".


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Francesco Codello Ricorda Colin Ward

La Nonviolenza è in Cammino
Da “A. Rivista anarchica” n. 352 dell’aprile 2010 riprendiamo il seguente ricordo apparso col titolo “La lezione di Colin Ward” e il sommario "La scomparsa del militante e pensatore anarchico inglese costituisce un momento di dolore per chi l’ha conosciuto, ma anche di riconoscimento e gratitudine per il contributo davvero eccezionale che Colin ha dato ad una visione moderna e realistica dell’anarchismo".
Francesco Codello, storico della pedagogia libertaria, dirigente scolastico di Treviso, da anni impegnato nella ricerca storico-educativa, e' autore di numerosi articoli e saggi apparsi su diverse riviste, animatore dell'Iden (International Democratic Education Network) in Italia e redattore della rivista "Libertaria". Opere di Francesco Codello: Educazione e anarchismo. L'idea educativa nel movimento anarchico italiano (1900-1926), Ferrara 1995; La buona educazione. Esperienze libertarie e teorie anarchiche in Europa da Godwin a Neill, Franco Angeli, Milano 2005.
Colin Ward (1924- 2010) e' stato uno straordinario militante, pensatore, educatore e saggista anarchico; e' deceduto l'11 febbraio 2010 a Ipswich. Dalle sue opere molto abbiamo appreso
 
La sera dell’undici febbraio di quest’anno e' morto, all’ospedale di Ipswich, Colin Ward. Una e-mail della sua insostituibile compagna, Harriet, ce lo comunicava subito con poche toccanti parole.
Colin e' stato ed e', per me, tuttora un maestro, una persona che non ti rivela mai la verita', ma umilmente ti incita a cercarla dentro di te e nelle piccole quotidiane cose della vita. L’averlo conosciuto e l’averlo sentito amico mi appare ora piu' che mai un privilegio e il vuoto che egli lascia dentro di me, e in altri come me che l’hanno conosciuto e frequentato, e' veramente grande.
Colin appartiene a una generazione ormai molto rara di anarchici che, dal dopoguerra ad oggi, hanno tenuto accesa la luce del nostro ideale e testimoniato, con la loro coerente vita, la loro scelta, nobilitando con una sensibilita' e una umanita' vera e profonda, l’idea anarchica stessa.
La notizia della sua scomparsa si e' diffusa rapidamente nella rete (lui che usava ancora la sua vecchia macchina da scrivere!) e nella stampa di tutto il mondo e numerose e sincere sono state le testimonianze di dolore e dispiacere che sono arrivate ad Harriet e all’intera famiglia. Non solo nel milieu anarchico e libertario questa notizia ha turbato gli animi di molti di noi, ma soprattutto in una vasta area di uomini e donne che si sono incrociate, personalmente o attraverso i suoi numerosi scritti, con questa persona cosi' umanamente sensibile e dotata di una cultura cosi' poco ostentata ma cosi' profonda e intelligente (solo nel 2001 riceverà un dottorato onorario in filosofia).
*
Una vita intensa
Figlio di un militante laburista, Arnold Ward, maestro elementare, e di una stenografa, Ruby West, Colin nasce il 14 agosto del 1924 a Wanstead, una cittadina dell’Essex. Frequenta la County High School for Boys di Ilford, non dimostrandosi uno studente particolarmente brillante, che abbandonera' all’eta' di quindici anni. Il suo primo lavoro si svolge presso una ditta che costruisce rifugi aerei e poi nell’ufficio tecnico del comune di Ilford dove entra in contatto con le ingiustizie burocratiche nell’assegnazione degli alloggi popolari, in una regione particolarmente sofferente la poverta' e la miseria. La sua sensibilita' e' gia' affinata dall’influenza della cultura domestica e non a caso uno dei suoi piu' graditi ricordi e' di aver partecipato col padre a un comizio per il primo maggio del 1938 di Emma Goldman ad Hyde Park a Londra.
Nel 1942, in piena guerra mondiale, viene chiamato alle armi ed entra in contatto con le idee anarchiche quando conosce, a Glasgow dove e' di servizio, un ex minatore anarchico di nome Frank Leech, il quale lo invita da subito a scrivere in una pubblicazione antimilitarista di Londra dal titolo “War Commentary” nella quale fa il suo esordio come scrittore, con un articolo sul nuovo ordine che si vuol dare all’Europa liberata, dal titolo Allied Military Government (Il governo militare alleato). A Glasgow e' attivo uno dei pochi gruppi anarchici autoctoni (a Londra infatti la maggior parte dei militanti e' ebrea o esule, comunque immigrata) che egli frequenta assiduamente e compatibilmente con le ristrettezze imposte dal periodo e dal suo essere in servizio nell’esercito.
Qui inizia ad ampliare la sua istruzione e ad arricchire la sua cultura in modo aperto e plurale presso la locale biblioteca pubblica, la Mitchell Library. La frequentazione delle biblioteche pubbliche sara' una costante di tutta la sua vita, coerentemente con il suo stile di vita sobrio, tanto che nella sua casa a Debenhan nel Suffolk, dove abitera' con Harriet dal 1979, ci sono pochi libri e molti ritagli di giornali e appunti, perche' si avvale sempre del servizio bibliotecario pubblico.
Quando va a trovare in carcere Frank Leech (che sta facendo uno sciopero della fame) in divisa militare (non ha altri indumenti da indossare) viene spedito per punizione alle isole Orcadi e Shetland dove rimarra' fino alla fine della guerra.
Congedato finalmente nell’estate del 1947, nel frattempo trasferito nell’Inghilterra meridionale, gia' e' autore di diversi articoli sul periodico “Freedom” col quale stringe rapporti sempre piu' stretti fino all’ingresso nella redazione nel medesimo anno. Attorno a questa gloriosa testata ruotano compagni e simpatizzanti, che ha gia' frequentato e conosciuto, che divengono suoi amici come John Hewetson, Vernon Richards, Philip Sansom e Maria Luisa Berneri e poi George Woodcock, Herbert Read, Alex Confort, Geoffrey Ostergaard, Gerald Brenan. La sua collaborazione e' assidua e costante. Fin dall’inizio degli anni Cinquanta emergono le sue tematiche piu' caratteristiche quali l’abitare, lo spazio urbano, il controllo operaio e l’auto-organizzazione in fabbrica, i metodi per rendere economicamente sostenibili le attivita' agricole, la decolonizzazione. Particolarmente attento, proprio perche' molto empirico e aperto, a ogni manifestazione dell’universo intellettuale e' sempre pronto a segnalare i contributi piu' interessanti per l’ottica libertaria che provengono dall’esterno del gia' numericamente scarso e povero ricostruendo movimento anarchico, seguendo particolarmente gli sviluppi della ricerca sociologica o storica come, ad esempio, nel caso degli studi di Isaiah Berlin.
Nel fare un bilancio degli anni Cinquanta Ward identifica il suo successivo impegno scrivendo che lo scopo della sua ricerca sara' quello di far rientrare l’anarchismo nel flusso vitale dell’intellettualita', nel campo delle idee che sono prese sul serio.
Questo auspicio e questa sfida troveranno compimento nella fondazione di una nuova rivista, sicuramente la piu' prestigiosa e interessante pubblicazione anarchica del dopoguerra, “Anarchy”, che dirigera' dal 1961 al 1970. Colin confeziona il mensile da casa sua inserendo all’inizio molti pezzi scritti da lui stesso con diversi pseudonimi (John Ellerby, John Schubert, Tristram Shandy) o senza nome. “Anarchy”, ha scritto il suo biografo e amico David Goodway, “trasuda vitalita', e' in sintonia con le tendenze dell’epoca, si rivolge ai giovani. Le tematiche di cui si occupa sono soprattutto quelle relative alle abitazioni e all’occupazione di case, alla scuola, al controllo operaio, al sistema penale” e, grazie alla conoscenza con Murray Bookchin, a quelle ecologiche, tutto alla luce di una nuova cultura libertaria, aggiornata dalle piu' recenti innovazioni scientifiche, sociologiche e filosofiche e rinnovata dalle piu' obsolete speculazioni anarchiche. I collaboratori divengono sempre di piu' e sempre piu' qualificati e preparati, provenienti dai diversi settori della conoscenza e attivi all’interno di gruppi e associazioni non autoritarie.
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Alla scuola di Kropotkin
Ma la caratteristica fondamentale del pensiero di Colin Ward, mutuando da Kropotkin l’attenzione pragmatica verso un anarchismo inteso come teoria e pratica dell’organizzazione sociale, sara' fin da ora quella particolare interpretazione delle idee anarchiche come gia' esistenti (il “seme sotto la neve”) nelle soluzioni spontanee che gli esseri umani si danno di fronte ad un problema collettivo. Cio' avviene ogniqualvolta gli uomini e le donne scelgono liberamente la soluzione libertaria al posto di quella autoritaria di fronte alle piu' disparate questioni.
Grazie al successo di “Anarchy” egli riceve richieste di collaborazione da parte di altre riviste come “Peace Now” e “Liberation” di New York, ma anche di testate piu' tradizionali come “The Twentieth Century” e “New Society” che diverra' poi “New Statesman and Society”.
Nel 1970, nel 1972, nel 1974 escono per una collana della “Penguin Education” i suoi primi libri, Violence, Work, Utopia, rivolti agli adolescenti. Il terzo libro, l’unico, fino all’ultimo Anarchism. A Very Short Introduction (2004) e tradotto come L’anarchia. Un approccio essenziale nel 2008, esplicitamente e direttamente sull’anarchismo, e' stato Anarchy in action (La pratica della liberta'. Anarchia come organizzazione, varie edizioni).
Questo e', per gli anarchici, il suo libro fondamentale perche' capovolge la concezione tradizionale di anarchia non piu' vista come qualche cosa che deve ancora venire ma come una realta' che gia' c’e', con tutte le implicazioni metodologiche e ideologiche che cio' comporta. Scrive infatti: Questo libro vuole dimostrare che una societa' anarchica, una societa' che si organizza senza autorita', esiste da sempre, come un seme sotto la neve (come recitava il titolo di uno dei romanzi di Silone preferiti da Colin all’epoca - ndr), sepolta sotto il peso dello stato e della burocrazia, del capitalismo e dei suoi sprechi, del privilegio e delle sue ingiustizie, del nazionalismo e della sua lealta' suicida, delle religioni e delle loro superstizioni e separazioni.
Le implicazioni di questa stravolgente prospettiva sono non solo teoriche ma eminentemente pratiche perche' tutti i mezzi per compiere quest’opera sono gia' a portata di mano, basta guardare con occhi diversi e piu' profondi la realta' spontanea che si muove e agita tra gli esseri umani senza il filtro del dominio e dell’oppressione. Cosi' Ward si immerge nella sociologia e dimostra con esempi concreti, attingendo dalle varie scienze sociali tutti i dati possibili, per evidenziare appunto questa realta'. Egli riprende quella parte delle tesi di Kropotkin (curera' tra l’altro una splendida edizione aggiornata di Campi, fabbriche, officine) che giudica piu' attuali e, attraverso appunto questo nuovo metodo di indagine e di sperimentazione, scrive e descrive situazioni libertarie in ambito urbanistico, economico, educativo, ecc.
Con questa visione dell’anarchismo Colin non poteva non incrociare e fare sue alcune riflessioni di Alexander Herzen quando questo sosteneva che una meta che si situi infinitamente lontana da noi, non e' una meta, e' una mistificazione. Cosi' come non poteva non condividere la geniale intuizione di Gustav Landauer a proposito dello Stato e dell’Autorita', quando scriveva che lo Stato non e' una cosa che si puo' distruggere con una rivoluzione, ma e' una condizione, un certo modo di mettersi in relazione tra esseri umani, una manifestazione del loro comportamento; lo distruggiamo stabilendo relazioni diverse, comportandoci in un altro modo. Infine il suo pensiero si e' nutrito, non solo in ambito urbanistico, ma anche filosofico e sociologico di quello di Paul Goodman laddove sottolineava che il principio fondamentale dell’anarchismo non e' la liberta' bensi' l’autonomia, vale a dire la capacita' di intraprendere un compito e di farlo a modo proprio, oppure quando scriveva che una societa' libera non puo' essere l’imposizione di un ordine nuovo al posto di quello vecchio ma l’ampliamento degli ambiti di azione autonoma fino a che questi occupino gran parte della vita sociale.
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L’alternativa anarchica
Colin Ward ha saputo descrivere in modo esemplare l’uso non convenzionale che gli esseri umani (a partire dai bambini) fanno del loro ambiente, delle loro citta', delle loro scuole, dei loro giochi e delle loro attivita', quando si liberano dall’egemonia soffocante del dominio, e come questo uso libertario ci permetta di intravedere che rapporti egualitari, solidali e liberi, esistono gia' e, pertanto, debbano essere incoraggiati, stimolati, creati e sviluppati per costruire fin da subito societa' diverse. Si badi bene, tante societa' sperimentali, non un’unica soluzione necessariamente totalitaria. Infatti egli ribadisce con forza che “l’alternativa anarchica e' quella che propone la frammentazione e la scissione al posto della fusione, la diversita' al posto dell’unita', propone insomma una massa di societa' e non una societa' di massa”.
I libri scritti su questi argomenti sono molti, la maggior parte purtroppo non tradotti in italiano, e lo hanno visto impegnato per tutti gli anni che ha vissuto, guadagnandosi da vivere attraverso lavori vari di architetto, insegnante, scrittore. Tra le sue opere tradotte in italiano oltre a quella dedicato al valore universale e allo sfruttamento perpetrato dagli stati e dal capitalismo nei confronti dell’acqua (Acqua e comunita', 2003), alle conferenze da lui tenute presso la London School of Economics di Londra, raccolte e tradotte in un bel volumetto (La citta' dei ricchi e la citta' dei poveri, 1998), la straordinaria pubblicazione di Il bambino e la citta' (2000), gli articoli apparsi su "Volonta'", "A Rivista Anarchica", "Libertaria", mi preme ricordare Dopo l’automobile, 1992. Quest’ultimo libro mi riporta a un ricordo vivo ed emozionante quando mi trovavo in transito nell’aeroporto di Londra Stansted e, senza peraltro chiedere a Colin l’impossibile, gli telefonai prima di partire per salutarlo. In un’eta' ormai avanzata questo pacato e umile uomo non esito' a raggiungermi per abbracciarmi e per scambiare qualche riflessione comune, naturalmente, coerentemente come faceva sempre, con i mezzi pubblici, nonostante la distanza e i tempi del viaggio fino a li' fossero di tutto rispetto.
Questo articolo non rende giustizia a questo uomo saggio e gentile, molto spero si scrivera' di lui, per rendergli il dovuto e sincero ringraziamento per aver contribuito a far conoscer un anarchismo rispettabile perchée' per tutti e alla portata di tutti.
In me, in molti amici e compagni, un vuoto incolmabile ma anche, come avrebbe voluto lui stesso, una sfida a raccogliere il testimone secondo la direttrice da lui cosi' profondamente tracciata.



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