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mercoledì 12 febbraio 2014

Centrafrica: meglio tardi che mai?
di Davide Maggiore

Mentre l'Ue si muove a rilento, il comandante della missione francese definisce gli anti-balaka "nemici della pace".

Ma finora, sul terreno, solo un impegno col contagocce, e, in alcuni casi, anche a malincuore: l'Unione Europea ha dato il via libera all'invio di un contingente militare nella Repubblica Centrafricana, che andrà ad aggiungersi alle truppe francesi e ai peacekeepers della missione internazionale MISCA. Ma l'aiuto europeo resta, per ora, solo sulla carta: i cinquecento uomini previsti (numero già basso rispetto ai 1600 francesi e ai circa 4000 della MISCA) devono ancora essere radunati, e 'pesi massimi' del continente, come è il caso della Germania e della Gran Bretagna, hanno preferito limitarsi a offrire aiuto logistico. Al di là del paradosso per cui potrebbe essere la piccola Georgia, esterna all'Ue, a togliere Bruxelles dai guai (fonti diplomatiche citate dall'agenzia AFP dicono che Tbilisi potrebbe mettere a disposizione 100 uomini), il nodo resta quello dell'efficacia. Una questione di mandato, certo, ma anche di volontà politica. È impossibile in questo senso non pensare a quanto dichiarato da alcuni testimoni (come il medico volontario Patrizia Emiliani, intervistata da Radio Vaticana negli scorsi giorni), secondo cui i francesi e i peacekeepers internazionali avrebbero disarmato solo una delle due fazioni, la coalizione Seleka, disinteressandosi invece dei gruppi anti-balaka. Formalmente, questi sono nati come milizie di autodifesa, ma se ne definisce 'coordinatore' Patrice Edouard Ngaïssona, già ministro nel governo Bozizé - rovesciato proprio dai Seleka - ed ex presidente della Federcalcio locale. Non è detto - anche se sospetti in questo senso sono stati avanzati - che il disarmo 'selettivo' sia una scelta deliberata: alcuni osservatori sul terreno infatti ritenevano che, una volta neutralizzati i Seleka, le altre milizie avrebbero spontaneamente deposto le armi. Le recenti dichiarazioni politiche di Ngaïssona - che ha accusato di "ingratitudine" la presidente di transizione Catherine Samba-Panza, rivendicando per gli anti-balaka un ruolo nel governo - fanno però temere che si sia trattato, in ogni caso, di un errore. Un calcolo politico approssimativo, cioè, analogo a quello con cui il presidente francese Hollande avallò di fatto l'avanzata dei Seleka su Bangui e la deposizione di Bozizé. Del rischio sono diventati consapevoli anche i comandanti delle truppe internazionali sul campo: Francisco Soriano, comandante dell'operazione francese, ha definito gli anti-balaka "i principali nemici della pace in Centrafrica". E il ministro della Difesa transalpino, Jean-Yves Le Drian, ha chiesto alle truppe di neutralizzare le milizie e applicare le risoluzioni dell'Onu, "se necessario con la forza". Solo le prossime settimane diranno se si tratta davvero di un'inversione di tendenza; intanto, gli avvenimenti sul terreno dimostrano che per dare concretezza alle buone intenzioni i 500 uomini promessi dall'Europa, con ogni probabilità, non basteranno: il controllo del governo sul territorio è così scarso che il 9 febbraio un componente del parlamento di transizione, Jean-Emmanuel Ndjaraoua, è stato ucciso davanti alla sua casa di Bangui, nonostante la capitale sia pattugliata proprio dai peacekeepers internazionali. A doversi porre delle domande, in questa situazione, potrebbero essere appunto i funzionari di Bruxelles. È vero che la Francia, per ragioni storiche o per un peso politico ancora forte in seno all'Unione, ha spesso sopravanzato o anticipato le iniziative europee. Resta però anche il fatto che - fatte salve le intenzioni di Parigi - la volontà dei Ventotto di giocare un ruolo costruttivo nelle crisi africane non è mai apparsa particolarmente evidente: un atteggiamento che, nell'attuale scacchiere globale, può portare solo a conseguenze negative. Nel momento in cui la Francia è impegnata a giocare la partita delle risorse energetiche in un arco che va dal Mali all'est del Congo, ma allo stesso tempo sta prendendo coscienza dei suoi limiti, militari e non, ci sarebbe dunque da chiedersi se non sia proprio questo il momento per porre fine a questa auto-esclusione europea.

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