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24/10/2013

Jihadisti, sciiti e Iran: l’Arabia Saudita e la sindrome del nemico
di Liisa Liimatainen

Riyad inquadra i suoi problemi interni e orienta la sua politica estera alla luce del conflitto con l'asse Damasco-Teheran. Una strategia che inizia a creare malcontento popolare.

I sermoni dell'imam Sheikh Mohammam al-Arifi, tenuti fino a quest'estate presso una moschea di Riyad, hanno suonato come delle inequivocabili invocazioni al jihad in Siria e delle vere e proprie chiamate alle armi contro gli oppressori, impersonificati da cristiani, persiani, sciiti, Hizbullah libanesi e tanti altri nemici del “vero Islam”. 


Le esortazioni del predicatore al jihad contro la Siria di Asad vanno collocate in un contesto ben preciso: Damasco, alleata dell’Iran, non sarebbe che parte del più esteso asse sciita, contrapposto a quello sunnita. Molti, in Arabia Saudita, vedono nella minoranza sciita presente nel proprio paese (e nelle restanti regioni del Golfo) niente meno che un insieme di rafida: traditori dell’Islam autentico e quinta colonna di un formidabile nemico esterno. L’Iran appunto.

Le invocazioni al jihad contro il regime siriano, inoltre, possono esser inserite nel solco della guerra fredda mediorientale, un tempo riguardante solo l'Iran e l'Arabia Saudita, oggi sempre più allargata alle comunità sciite e sunnite nella loro interezza. Con le rispettive frange più estreme a giocare un ruolo di primissimo piano.

L'imam, capace di riempire moschee e di godere di consensi oceanici su Youtube, vedeva nella guerra santa anche uno strumento per la restaurazione di al-Sham, l’antica unità territoriale ricomprendente i territori dell'odierna Siria, del Libano, della Palestina e di Israele (secondo alcuni, anche dell’Iraq), e per la liberazione della regione che diede i natali ad alcuni fra i più illustri pensatori dell'Islam caro ai salafiti, fra cui Ibn Taymyya. I sauditi erano insomma chiamati alle armi per difendere il vero Islam in primo luogo contro il nemico sciita, tacciato di eresia. 

Sheikh al-Arifi è stato arrestato dalle forze di sicurezza saudite il 17 luglio scorso, benché già nel 2012 fosse stato interrogato a proposito di una serie di raccolte fondi organizzate fra le moschee di Riyad a favore della frangia jihadista dell'opposizione siriana. Al-Arifi, bollato come elemento estremista del clero saudita, è stato anche identificato come un Fratello musulmano: la sua “colpa” (ulteriore), quella di svolgere attività politica. Si tratta di un grave crimine per l'Arabia Saudita, ove la politica è monopolio esclusivo della famiglia reale, peraltro aggravato dal fatto di sostenere i Fratelli musulmani egiziani. 

Osservando l'atteggiamento del governo saudita nei confronti di islamisti quali Al-Arifi è possibile apprezzare le contraddizioni insite nella condotta delle autorità governative.

Se da un lato Riyad è disposta a sostenere sempre piú apertamente gli estremisti sunniti che ingrossano le fila della jihad contro il regime siriano, dall'altro sembra temere che l'islamismo possa attecchire anche sul proprio territorio, in modo particolare nel momento in cui - stante il considerevole appoggio offerto ai militari egiziani - buona parte della società pare molto contrariata dalle politiche governative. 

Nella primavera del 2013 non pochi sauditi, appartenenti alle più disparate estrazioni sociali, confermavano l'esistenza di un malcontento diffuso tra la popolazione, pronto a sfociare in lotta armata in quanto questa è considerata l'unica via percorribile per trasformare a fondo il paese. Tali opinioni erano dettate dalle particolari condizioni dell'Arabia Saudita, dalle controverse questioni sociali, dall'impossibilità di prendere parte ai processi decisionali e, più in generale, dalla crescente sfiducia verso la famiglia reale.

A marzo, lo Sheikh Salman al-Auda, anch'egli capace di raccogliere un enorme consenso grazie alle sue riflessioni sul ruolo dell'Islam maturate nei 5 anni passati in carcere, redigeva una lettera aperta indirizzata alle autorità saudite per metterle in guardia dal rischio che l'assetto socio-politico del paese potesse rompersi a causa della frustrazione popolare (2).

Un giovane avvocato di Jeddah, Walid Abu al-Kheir, difensore di attivisti ed egli stesso un attivista per i diritti civili, ha parlato apertamente di come una parte della società veda nell'azione armata l'unico modo per rimettere in discussione gli equilibri del paese. Avendo preso parte, in passato, alla costola saudita dei Fratelli musulmani, peraltro sottoponendosi a un periodo di addestramento militare (al pari di moltissimi altri attivisti per i diritti civili, prima che anch'essi abbandonassero l'attività armata), le sue affermazioni potrebbero suonare come rivelatrici. L'avvocato ha aggiunto che all'epoca della sua militanza nella cellula segreta dei Fratelli non aveva mai avuto nulla da temere dalle forze di sicurezza saudite; le cose cambiarono, in peggio, non appena si decise a uscire allo scoperto per operare nel campo dell'attivismo per i diritti civili. Da allora la polizia ne ha seguito ogni movimento, pretendendo di essere informata in anticipo sulle date delle riunioni e sui nomi dei partecipanti. Al-Kheir è stato infine denunciato, ed è tuttora in attesa di processo, per aver respinto queste richieste.

La sicurezza saudita sembra disposta a non perseguire l'attività di eventuali gruppi islamisti purché questi rimangano nell'ombra, ma si dimostra al contrario inflessibile con quanti intendano - apertamente - costituire forze politiche o di associazionismo civile. Secondo fonti di informazione, in Arabia Saudita sarebbero presenti numerosi movimenti legati al radicalismo islamico, rimasti silenti sin dalla metà degli anni Duemila, mentre le forze di sicurezza e di polizia erano impegnate a schiacciare i movimenti jihadisti e i gruppi legati ad al-Qaeda che, oggigiorno, paiono aver trovato nuovi spazi d'azione nella guerra civile siriana.

Come già accaduto negli anni Settanta e Ottanta, nuove leve sono pronte ad abbracciare la causa del jihad: si tratta di giovani maschi provenienti dagli ambienti urbani, in cerca di avventura e oggi capaci di sfruttare le potenzialità della Rete. Con la deposizione del presidente egiziano Morsi e il perdurare della guerra siriana, sempre più giovani sauditi (e kuwaitiani) paioni convinti della necessità di imbracciare le armi e partire alla volta di Damasco per difendere la causa sunnita.

Thomas Hegghammer, uno specialista del terrorismo jihadista e di al-Qaeda, è convinto del fatto che jihadismo e terrorismo, in Arabia Saudita, non facciano ancora parte del passato malgrado la forte azione repressiva condotta da Riyad. Hegghammer ha avuto modo di osservare quanto avvenuto nella primavera di quest’anno; allora erano ben poche le informazioni riguardanti i giovani sauditi partiti alla volta della Siria che la censura lasciava trapelare sulla stampa nazionale (fatti salvi alcuni scarni trafiletti riportati in occasione della morte di qualcuno di costoro, magari avvenuta sotto le insegne qaidiste del Fronte al-Nusra). 

Ma se è vero che gli sviluppi più recenti della crisi siriana offrirebbero ulteriori margini di manovra per i movimenti jihadisti, proprio su quel dossier le posizioni degli estremisti islamici e del governo saudita paiono poter convergere. Non è infatti un segreto che Riyad sostenga in maniera massiccia le milizie jihadiste impegnate in Siria - benché ciò non significhi che per Riyad la repressione dei fondamentalisti locali sia divenuto un fatto di secondaria importanza; l'arresto dell'iman al-Arife e di quanti sono legati ai Fratelli musulmani indicano piuttosto il contrario. 

Eppure, Hegghammer resta convinto di come, per l'Arabia Saudita, la minaccia rappresentata dal radicalismo islamico non sia mai stata di tipo esistenziale poiché, storicamente, le è sempre mancato l'appoggio popolare. Ciononostante, secondo non pochi sauditi, la presenza di un nucleo jihadista particolarmente attivo potrebbe avere un impatto rilevante sul paese. Il precedente è dato dai numerosi combattenti rientrati in Arabia Saudita dopo aver militato in Afghanistan negli anni Duemila: Riyad li sottovalutò, salvo poi dover fare i conti con un triennio terroristico devastante, fra il 2003 e il 2006.

L'inasprimento della legislazione e delle pratiche antiterroristiche interne potrebbe avere un impatto negativo anche sulle varie sigle che compongono la galassia dell'attivismo sociale e civile. Considerazioni legate a logiche internazionali e di sicurezza possono finire per limitare ulteriormente il già esiguo spazio di cui godono i movimenti per i diritti civili. 

Prima del negoziato fra russi e americani sul dossier siriano, Riyad si era schierata inequivocabilmente a favore di un attacco internazionale contro Damasco; il popolo saudita appariva favorevole all'intervento, emotivamente coinvolto com'era per via delle immagini dei massacri di civili diffuse dalle emittenti nazionali. Madawi al-Rasheed, a questo proposito, ha spiegato che Riyad sposava la causa di un intervento militare contro Damasco perché convinta che questo avrebbe indebolito fatalmente il regime di Asad, offrendo ai ribelli la chance di sconfiggerlo definitivamente: ma la caduta del presidente siriano non sarebbe stato che il primo passo verso la rottura dell'asse sciita Teheran-Damasco, il fine ultimo di ogni strategia saudita (5).

La contrapposizione tra il governo di Asad e quello dei Sa'ud risale al 2006, quando divenne chiaro che dopo l’Iraq anche la Siria stava scivolando verso la sfera di influenza iraniana. Dopo anni di delusioni, la guerra civile siriana ha quindi rappresentato l'occasione con cui arrestare e magari invertire questa pericolosa tendenza. Non è un mistero che Riyad si ritenga circondata da un complesso di attori regionali più o meno dipendenti (se non manovrati) da Teheran. E da quando i sauditi hanno percepito che per gli Usa molte delle certezze alla base della loro alleanza pluriennale potrebbero essere presto rimesse in discussione, l'imperativo di un regime change a Damasco si è fatto ancora più impellente: un governo siriano dominato dai sunniti, o quantomeno filo-saudita, sarebbe in questo senso un'importante garanzia.

Il timore di passare in secondo piano agli occhi degli Stati Uniti ha preso forma a seguito del sostegno di Obama ai sollevamenti popolari occorsi nel mondo arabo a partire dalla primavera 2011. L’Arabia Saudita ha sempre tenuto una posizione di ferma intransigenza verso qualsiasi turbamento che potesse interessare anche il proprio territorio nazionale. Il timore di non godere più dell’appoggio privilegiato di Washington si è fatto più forte, prima, con il mancato intervento internazionale contro la Siria; poi, con lo storico disgelo fra Stati Uniti e Iran.

Al tempo stesso, si diffondono nella società saudita le prime, seppur timide, sollecitazioni a ripensare i rapporti con l'Iran; cosa analoga sta avvenendo a Teheran. Recentemente, il governo di Riyad ha ordinato la chiusura di un'emittente televisiva specializzata nella propaganda anti-sciita e anti-Iran, benché l'attività propagandistica all'interno del paese non si sia per questo arrestata. La rinascita dell'Iraq post-Saddam, con la progressiva affermazione della sua componente sciita, ha reso molti sauditi più che disposti a recepire con favore le esortazioni e gli strali lanciati della propaganda del governo. 

Fra la minoranza sciita d'Arabia Saudita, stabilita prevalentemente nel territorio della Provincia orientale (la cui popolazione, assieme a quella di Hijaz, costituisce con ogni probabilità la frazione della società più evoluta dell'intero paese), molti desiderano essere considerati cittadini sauditi a tutti gli effetti ed esser trattati come tali almeno sul piano dei diritti civili. Ma gli attivisti sunniti impegnati in svariate campagne per l’eguaglianza nei diritti fondamentali chiedono alla minoranza sciita, come prova di lealtà, di condannare gli atti e le affermazioni dei governanti iraniani.

Con ogni probabilità, i membri della comunità sciita - pur avendo già dimostrato, in passato, la propria lealtà verso Riyad - dovranno fare proprie le richieste dei gruppi per i diritti civili al fine di comprovare, un volta di più, la propria indipendenza da Teheran. Lo sostiene un politologo indipendente di Riyad, il dr. Khalid Dakhil. Proprio per questo motivo, da alcuni anni, fra la società civile della Provincia orientale si sono costituiti dei gruppi che operano per promuovere il dialogo con la maggioranza sunnita. Nel corso del Ramadan del 2012, giovani sciiti e sunniti si sono riuniti per mandare un messaggio forte e alternativo rispetto a quanto diffuso dalla propaganda anti-sciita.

Nella primavera di quest'anno, a seguito di 2 ondate di arresti fra la minoranza sciita con l'accusa di spionaggio per conto di “uno Stato straniero”, oltre un centinaio di rappresentanti delle autorità locali della Provincia orientale (per la maggior parte si è trattato di autorità religiose) hanno manifestato per protestare contro le accuse mosse agli arrestati.

Alcuni giornali del Golfo hanno dato voce al sospetto che questi arresti, con le annesse denunce, fossero una sorta di bilanciamento ordito dalle autorità saudite per aver messo sotto accusa, precedentemente, gli estremisti sunniti coinvolti nelle raccolte fondi fra le moschee di Riyad. Sarà difficile stabilire la verità.

Ma una cosa è certa: la gestione degli affari locali da parte di Riyad rischia di incappare sempre più di frequente in questi conflitti intestini, veri o presunti che siano, a meno che non prenda forma una nuova prospettiva dei rapporti internazionali che permetta di abbandonare, di riflesso, l'uso del sospetto e dell'odio come strumenti del gioco politico interno.

 

NOTE:

(1) Il dr. Salman al-Auda era uno dei Fratelli musulmani sauditi tenuto in carcere per 5 anni nella seconda metà degli anni Novanta, liberato in seguito al suo ripensamento complessivo dell’islamismo. Al tempo degli attacchi di al-Qaeda in Arabia Saudita, agli inizi degli anni Duemila, fu un importante alleato del governo poiché criticò il jihadista pur proveniendo egli stesso da una realtà islamista fortemente contrapposta al governo.

(2) Madawi al-Rasheed, al-Monitor, September 2, 2013. La prof.ssa al-Rasheed, oltre a essere Visiting professor del Middle East Center alla London School of Economics and Political Science e professore al King’s College di Londra dal 1994, è nipote dell’ultimo principe dell’Emirato di Ha’il, territorio che oggi fa parte dell’Arabia Saudita.

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